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Non è difficile parlare in termini spirituali del testo edito da fra Pier Paolo Ruffinengo ed intitolato Ti ho vinto; nasce infatti come un’opera spirituale: un diario di fede, che passa – tra l’altro con grande trasparenza – attraverso tutte le prove della vita. All’interno di questo corpus c’è una poesia speciale, la cui composizione ha richiesto più di quindici anni, e che riassume nella sua vicenda tutto il percorso artistico di padre Ruffinengo. È stata questa poesia a generare, con il suo travaglio, il peculiare stile dell’autore: una poesia «metafisica […] non per il contenuto, ma per il linguaggio e il metodo»1. Un metodo che procede per eliminazione, come diceva anche Michelangelo della sua arte: «io intendo scultura, quella che si fa per forza di levare»2. Una cosa in particolare padre Ruffinengo è riuscito alla fine a levare, e ce lo dicono due espressioni che nella storia di questa poesia (ce lo dice lui stesso) egli è arrivato a eliminare: la «malinconia delle vigne», e la «nostalgia […] delle vigne»3 del suo Piemonte. Nostalgia è il senso di averle perdute, malinconia è il senso di averle perdute per sempre: da un viaggio si può tornare, nel passato no. Il successo di padre Ruffinengo non dobbiamo dunque cercarlo tanto in quello che ci dice (ci parla di tristezza) ma in ciò che è riuscito a non dire più. E alla luce di questo non-dire, possiamo rileggere anche quello che ci dice, per scorgere, velata, l’unica felicità a cui per padre Ruffinengo valeva la pena tendere: la felicità del «“di là”»4. Una tristezza eroica, che non disdegna la gioia, anzi la desidera, ma che non si lascia da essa soddisfare. Malattia, ma anche amore.

Noi con supponenza potremmo dire che non abbiamo niente da imparare da una vicenda simile, anzi saremmo tentati di tenerci lontani da tutto ciò che ci potrebbe portare a un punto così radicale. Certo, a nessuno è chiesto di ammalarsi di proposito; ma la sofferenza di padre Pier Paolo non è stata disperazione. Tutt’altro. «Per la sua fede, benché morto, parla ancora» (Eb 11,4), e ci sfida con una domanda ricorrente: «La conosci / la bellezza del vento […]?»5, «L’hai sentito […]?»6; «Tu sai ascoltare / la purezza del silenzio?»7.

Seguiamo dunque la storia della vite redenta, una vite da cui, proprio grazie alla sofferenza, all’ascolto paziente del silenzio, è riuscito alla fine a togliere malinconia e nostalgia. Innanzitutto, il ricordo della vigna è il ricordo della madre: «Premurosa attenzione dicevano i suoi gesti / quando in aprile nella vigna / curava, attenta, i tralci / per legarli alle canne / avvolgendo rapida i vimini. / E la fede nuziale / giocava di luce / nel ritmo esperto della mano»8. Ma sono anche il simbolo di una vita in cui la fatica ha un senso: «Son nuove le colline / vestite di verde / trasparenza di luce. / Nuovo / il marrone forte / della terra / promessa di fatica. / Ancora fiorirà / il profumo delle vigne»9.

Nel suo sguardo in attesa, esausto e instancabile, sulle vigne, Ruffinengo ha «attraversato il deserto»10 della povertà, della fragilità: «Rimbomba il tuono sulle colline / all’improvviso. / E quelle nuvole scure! // Sbatte la finestra / si rompono i vetri / grandina e piove / giù per le scale / dentro casa. // […] // Perché poi a settembre / com’è povero, in piazza, / il moscato tampestato»11. Ma si tratta di una povertà, di una fragilità comunque gloriosa: «Piove / sulla vigna indifesa. / Dopo / splende il sole / sulla gloria dei colori / di povere foglie / che presto cadranno»12. Nell’indiscussa tragicità, si scorge però un «più»13, già nel presente.

Infine l’approdo: la scoperta di poter, non ritornare, ma rimanere bambino; anzi scoprire di esserlo sempre stato. «L’eleganza delle vigne / vestite di verde / nell’armonia delle colline. / Bellezza dolce / ondulante / per gli occhi di un bambino»14. «Le gemme della vite / Sono belle. / Ogni anno sono nuove. / Ogni anno sono belle. / Hai capito!? / Ogni anno sono nuove. / Ogni anno sono belle»15. Come spiega lo stesso autore in nota, questo riferimento alle gemme non è secondario: «non è ancora germoglio. […] La gemma ha le foglie unite arrotondate strette […], come a formare un rotolo per proteggere qualcosa»16. Il ricordo della madre è qui recuperato, secondo me, non come qualcosa di passato, ma come qualcosa di onnipresente, definitivo, pacificante17.

Così, anche dopo decenni, anche altrove, è possibile fruire quell’unica bellezza, come in questa poesia, scritta nella lontana Ancona:

Quiete rispettosa

«È bello il silenzio
sui colori di questo mare, così tanti
blu, verde, azzurro, celeste, così dolci,
così quieti.
Un gabbiano va pigro
e ritorna.
All’orizzonte piccole vele bianche, farfalle perdute.
A riva
tra le pietre
le onde
cullano la sofferenza».18

«E tu, / lo sai vedere il miracolo?»19.


1 Pier Paolo Ruffinengo, Ti ho vinto. Poesie e loro storia, Il lavoro editoriale, Ancona 2017, p. 10 (“Presentazione: poesia metafisica”).

2 Michelangelo Buonarroti, “Lettera a Messer Benedetto Varchi”, in: G. Milanesi (a cura di), Le lettere di Michelangelo Buonarroti pubblicate coi Ricordi ed i contratti artistici, Successori Le Monnier, Firenze 1875.

3 Cfr. P. P. Ruffinengo, Op. cit., p. 89 (commento alla poesia Così difficile!).

4 Cfr. Ivi, pp. 49 e 53, nei commenti.

5 Ivi, p. 50 (La bellezza del vento).

6 Ivi, p. 51 (I racconti del vento).

7 Ivi, p. 80 (La purezza del silenzio).

8 Ivi, p. 22 (Mia madre).

9 Ivi, p. 25 (Risveglio).

10 Cfr. Ivi, p. 68 (Una cosa divina): «Attraversare da solo / il deserto della solitudine / tu puoi?».

11 Ivi, p. 45 (Estate 1947).

12 Ivi, p. 33 (Autunno).

13 L’espressione ricorre due volte a p. 23, nel commento della poesia Mia madre.

14 Ivi, p. 75 (Calosso).

15 Ivi, p. 97 (Primavera).

16 Ibidem, nel commento.

17 Cfr. Nota 8. Cfr. P. P. Ruffinengo, Op. cit., p. 81 (Forse): «imparerò / a trasformare la sofferenza / in poesia. / Tu puoi?». Come dice la poetessa polacca Wisława Szymborska: «szczęście w nieszczęściu / jak w nawiasie nawias, / i zgoda na to wszystko», cioè: «felicità nell’infelicità / come parentesi dentro parentesi, / e così sia» (W. Szymborska, Due punti, trad. it. Pietro Marchesani, Adelphi, Milano 2006).

18 P. P. Ruffinengo, Op. cit., p. 62.

19 Ivi, p. 97 (Primavera).

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Lombardo, nato e cresciuto fra i rami del lago di Como, ha frequentato il liceo classico A. Volta di quella città, percorso comunicazione, dove ha imparato ad amare il greco – è un appassionato lettore dei vangeli nella loro forma originale – e le lingue in genere, non ultimo il proprio dialetto brianzolo. Ha poi recitato, all’età di 19 anni, il suo primo “Addio ai monti” per trasferirsi presso il Seminario ambrosiano di Seveso, ex convento domenicano e luogo in cui Carino da Balsamo col suo falcastro dava la morte a S. Pietro primo martire domenicano. Discernendo poi una chiamata più speciale, è entrato nell’Ordine dei predicatori. Ha emesso la sua prima professione religiosa il 3 settembre 2016. Baccelliere in filosofia, prosegue il suo studio della teologia. Per contattare l'autore: fr.stefano@osservatoredomenicano.it