Dopo aver passato un bel Natale con Qohelet, accolgo l’invito a trascorrere qualche ora con Giobbe, immaginando, come in precedenza, un dialogo ispirato da alcune conferenze di don Luca Mazzinghi1disponibili online.
Incontrandolo in maniera confidenziale, forse troppo, gli dico che mi spiace non averlo visto a Natale: Qohelet del resto mi ha trattenuto a lungo e subito Giobbe intuisce che io di pazienza ne ho poca. Mi sorride, capendo che ho letto la lettera di Giacomo2, anche se per molti capitoli sembra più ribelle che paziente, visto il suo discutere e non capire Dio. Vuole uscire subito dai luoghi comuni: sottolinea che il tema della sofferenza non è quello fondamentale, poiché il rapporto con Dio è il vero centro del libro. La domanda su Dio è la stessa che anche noi oggi ci facciamo in questo momento difficile: «Perché Signore non togli i mali?». Si scontra, mi confida, l’immagine di Dio che ha sempre conosciuto tramite la tradizione con un Dio che sembra essere molto diverso. Questo è il punto. Mi accorgo che ho sempre letto ingenuamente il libro. Come Giobbe, si potrebbe pensare all’idea della retribuzione: agisci bene e avrai il bene, agisci male e avrai il male. Questo uomo così giusto e religioso soffre atroci pene: è messa in crisi la sua stessa tradizione. Penso che per fortuna la rivelazione cristiana ha ribaltato tutto lo scenario.
Prova a raccontarmi la sua storia. Sembriamo essere entrambi a nostro agio. Se nei primi due capitoli era riuscito ad accettare con fiducia la sofferenza, nel terzo comincia a rivolgersi a Dio attaccandolo anche pesantemente e volendo cancellare il giorno della sua nascita3. Nei capitoli che seguono, più di venti, dialoga con tre amici per poi fare un monologo sulla sapienza e un ritorno all’invettiva contro Dio. Prima che intervenga il Signore c’è posto anche per un quarto amico, per poi concludere con la felicità ritrovata. Qui Giobbe sospira. Mi dice di diffidare dagli amici che razionalizzano la figura di un Dio che premia i buoni castigando i malvagi, senza accorgersi che nel loro tentativo di salvare la libertà di Dio, distruggono quella dell’uomo: affermando l’assoluta onnipotenza di Dio, schiacciano l’essere umano. Voltandosi, sembra indicarmi la nascita del libro, dopo l’esilio di Babilonia, che ha segnato Israele e lo ha posto davanti ai temi della morte e della sofferenza.
Chiedo se può entrare nel dettaglio, poiché non ho ancora capito come ha fatto dopo quattro disgrazie enormi a benedire il Signore4. Decide di raccontarsi. Ci mettiamo comodi. Mi dice di essere un uomo integro (termine nella Bibbia già usato per descrivere Abramo e Noè), retto, timorato di Dio ed estraneo al male5. Padre di dieci figli e pastore di sterminati capi di bestiame6. Mi dice che trascorreva una vita perfetta fino a quando la sua fede non viene messa in dubbio da Satana: «Forse che Giobbe teme Dio per nulla?»7. E da qui cominciano tutti i suoi problemi, ne parla serenamente, acqua passata: «il Signore ha dato, il Signore ha tolto»8. Preso dalla disperazione, mi confida che ha pensato di interpellare addirittura maghi e indovini. Lo guardo come fosse pazzo, anche se il pensiero vola verso quanti ancora oggi credono a queste figure ambigue e da evitare. Vorrebbe morire per trovare riposo nello Sheol ed io continuo a guardarlo sgomento. Ha avuto la sfrontatezza di rivolgersi direttamente a Dio, tramutandosi da paziente a ribelle; anche gli amici, davanti ai suoi “perché”9, tacciono. Mi racconta che stanno in silenzio per poco, perché subito cominciano ad attaccarlo.
Me li presenta: Elifaz il profeta, Bildad l’uomo di legge, Zofar il saggio, insomma tutta la teologia di Israele schierata davanti a lui, che lo fa passare per bestemmiatore. Per tre volte parlano e per tre volte risponde. Mi fa un riassunto veloce, non ho tutta la Quaresima. Elifaz dice che mai Dio castiga i buoni10. Le sofferenze umane dipendono dal nostro peccato. Giobbe vive problemi che viviamo ancora oggi. Se vuole smettere di soffrire deve convertirsi insomma. Gli amici sono convinti difensori di Dio, già giudici del povero Giobbe, colpevole e malvagio. Idea tragica della religione come polizza di assicurazione contro le disgrazie. Ma è convinto siano mentitori e prova a non ascoltarli11; si è dichiarato innocente, ma non è servito davanti a questi “avvocati non richiesti”. Ha provato a chiedere pietà, anche se avesse sbagliato implora compassione. A gran voce tenta di dire che la morte pareggia empi e giusti e mai il malvagio vive male, basta guardarsi intorno, Dio sembra non ascoltare la preghiera di coloro che sono oppressi e cercano aiuto, mentre i malvagi hanno successo12. Nelle sue parole, anche le più crude, si coglie una speranza di fondo che permea i suoi occhi e li fa brillare.
Alla fine del libro, nel dialogo con Dio, mi spiega come abbia riconosciuto la sua onnipotenza. Dio opera cose meravigliose, che vanno al di là della nostra comprensione e si possono solo contemplare senza parlare, mi sottolinea. «Ma ora i miei occhi ti vedono»13: è passato da una conoscenza mediata alla visione diretta di Dio. Questo afferma essere il grande insegnamento: non il tentativo di spiegare qualsiasi cosa, compreso il male, ma d’incontrare Dio direttamente, farne esperienza diretta e non solo per sentito dire o perché raccontato più o meno bene da altri. Una passività che non porta da nessuna parte. Come a volte siamo noi oggi. Chi avanza domande coraggiose non troverà una risposta ad esse, ma un’individuale esperienza di Dio, un incontro intimo. Qui il capovolgimento della situazione: chi accusava Giobbe viene messo da Dio alla berlina, elevando il discorso di Giobbe. Gli amici vedono Dio solo come un oggetto da difendere a tutti i costi; parlando di Dio, egli si riferisce a Dio direttamente come servo14, termine usato in maniera nobile.
Giobbe si distende, mi dice che Dio non ha punito i suoi amici, come ci si sarebbe aspettati prima di leggere questo libro; forse li punirà dopo, sussurro, anche se non capisce la mia battuta (non conosceva ancora la vita eterna, cosa che noi attendiamo e alla quale ci prepariamo specialmente in Quaresima). In cosa però davvero è cambiata la vita di Giobbe, non avendo avuto risposte, non avendo avuto i suoi figli indietro, mi chiedo. Mi dice di leggere bene l’ultimo capitolo del libro (il quarantaduesimo).
Prima di congedarci gli confesso che la sua esperienza sembra preludere alla croce di Gesù, nel quale Egli si pone all’interno del dramma e del dolore umano. Il Cristo non ha abolito la sofferenza e non ci ha svelato il mistero, ma l’ha presa su di sé e ciò è sufficiente per capirne il prezzo. Ci indica però una via per vivere all’interno della sofferenza: l’incontro che nasce da un atteggiamento critico di fronte ad una religiosità non matura e fasulla. Saluto Giobbe, mi congedo e gli chiedo se dopo Pasqua mi può presentare qualche amico con cui prendere un buon aperitivo. Mi lascia un bigliettino con scritto: «Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te. Chi è colui che, senza aver scienza, può oscurare il tuo consiglio? Ho esposto dunque senza discernimento cose troppo superiori a me, che io non comprendo…. Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere»15. Comunque l’ho visto bene, «sazio di giorni»16.
1 Cit. Conferenze YouTube di Don Luca Mazzinghi, “Il libro di Giobbe”, canale Vicariato porta San Frediano, da 11 maggio 2020, https://www.youtube.com/watch?v=Z4ZWc8V-F8g
2 Cfr Gc 5, 11: “Avete udito parlare della pazienza di Giobbe”.
3 Cfr Gb 3, 1.
4 Cfr Gb 1, 13-21.
5 Cfr Gb 1, 1.
6 Cfr Gb 1, 2-3.
7 Gb 1, 9.
8 Gb 1, 21.
9 Cfr Gb 3, 11-12-20-24.
10 Cfr Gb 4, 7.
11 Cfr Gb 13, 4.
12 Cfr Gb 24.
13 Gb 42, 5.
14 Cfr Gb 42, 8.
15 Cfr Gb 42, 2-6.
16 Cfr Gb, 42, 17.