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L’esperienza fondamentale

Il pensiero è fondamentalmente ascolto. La fenomenologia dell’ascolto ci propone sempre un inizio indistinto, il rumore. In questo rumore è compresa tutta la complessità dell’esistenza, con tutte le sue pretese, con tutto il suo anelito insopprimibile a un oltre, a un compimento che non sia un tagliare corto, ma un rendere ragione.

Tuttavia, all’interno di questo magma indistinto, l’esperienza del pensiero coglie qualcosa di estraneo a una pura materialità, qualcosa che si distingue per la sua puntualità dall’abisso delle estensioni infinite. Si tratta di qualcosa di vivo che tra le sabbie del rumore ne costituisce l’anima, il requisito, in fin dei conti, della sua significanza. Lo chiamiamo crepitìo, che è qualcosa di più del rumore, sembra parlarci, ma non è in grado ancora di dirci nulla se non che c’è qualcosa da dire. Quasi un fuoco penetra tutta la realtà, facendo emergere ora qua ora là un segnale di senso, di messaggio, di quadratura, di franchezza. Circondati da questo concerto scoppiettante, ma ancora muto, ci abituiamo pian piano a comprendere ciò che si nasconde tra le righe di quel carillon della natura e dell’essere. Impariamo a percepire l’udibilità degli spazi bianchi, sotto forma di un sussurro.

Ora dunque non guardiamo più altrove, non cerchiamo un’ulteriore manifestazione sonora. Sappiamo che dobbiamo lasciarci guidare da questa pedagogia che scopre lo spirito nella cosa e la persona nello spirito. Sappiamo che non dobbiamo guardare tanto alla forma delle idee quanto alla loro capacità, non tanto alla punta con cui si insinuano in noi quanto al loro temperamento. Allora un altro panorama si aprirà al nostro orecchio, un panorama non più fatto di rumori, crepitii, sussurri, ma di sonorità vere, reali, incontrabili, vestite di rumore, di crepitio o di sussurro.

Il paesaggio delle sonorità

La prima sonorità che vi vorrei presentare è quella del guizzo. Chissà quante volte si sarà fatta sentire all’attenzione della vostra mente! Sono certo che molte volte vi ha fatto sospettare che qualcuno stesse passando. Ecco, essa ci rivela che le cose sono, innanzitutto in quanto compiono un passare, uno sgusciare in modo tangente a noi che le percepiamo. Non solo, ma il guizzo è la certezza che le cose esistono perché stanno andando da qualche parte. Se non ci fosse questo luogo desiderato, esse non compirebbero la loro marcia, e nemmeno farebbero la loro comparsa sulla scena dell’essere.

Il secondo suono, che si impone con la sua gravità, è il boato. Un suono cavernoso che ci spalanca l’abisso inferiore del lutto. Lugubre eppure – pare – inesorabile. Questo è il punto in cui il suono tocca il suo contrario, fino a sembrare diventarlo: il silenzio. L’assenza si impone con tutta la sua vistosa, ingombrante invadenza. Si voglia o no, questo passaggio nella valle del boato è obbligato, è assordante. Il luogo dove giacciono coloro che non sono è pieno di questa voce baritonale del più profondo nulla: triste, spaventoso, cupo, scuro.

Ma un’altra sonorità la nostra mente conosce bene, pur potendola talvolta scordare, che è quella che chiameremo strepito, ma potremmo definirla visibilio. Strepito non è semplicemente rumore, ma un’anima del rumore, un’anima che può essere persino piena di carattere e di ricchezza. Strepito è quel manifestarsi di esuberanza dell’udibile che sembrerebbe celebrare l’evento dell’essere, dar seguito all’eccesso che festeggia per l’emergere dell’essere dalle nebbie dell’insignificanza più assodata. È assordante presenza dell’evento uditivo, compiaciuto sprigionarsi di tutto ciò che è possibile rendere udibile.

L’orecchio sopraffino

L’esperienza che la “res cogitans” esegue in un safari uditivo attentamente predisposto sfocia in una nuova terna di certezze. Guizzo, boato e strepito ci hanno dato la chiara persuasione che c’è qualcosa o qualcuno di cui avviene il guizzo, di cui avviene il boato, di cui avviene lo strepito. Che cos’è la causa di tanto rumore, che cosa si celebra, chi ha fatto irruzione, che cosa passa rivestendosi di rumore e polvere? Ecco delinearsi la nuova esperienza dell’udito, ammaestrato ormai in modo sopraffino dai suoni stessi del guizzo, del boato e dello strepito.

Ecco la figura sonora del richiamo. È vero, i più importanti tra i suoni sono quelli che procedono da questa sostanza del richiamo. Essa rende vero suono capace di porsi all’attenzione, essa è l’orizzonte sensibile e indefinibile con cui la realtà sonora ci abbraccia. Che cosa sarebbero i suoni per noi, se non vi fosse nascosto dentro il richiamo? È questo il suono fondamentale, al di là di tutte le forme e di tutte le modalità di esecuzione. È esso la madre delle altre esperienze esistenziali.

Non altro rispetto al richiamo, ma sua modulazione è il canto. Sentiamo il canto degli uccelli, il canto delle balene e non solo percepiamo la presenza di un’essenza di richiamo, ma anche l’avvenenza di una forma espressiva opportunamente eseguita. È volontario il canto, ma è, soprattutto, espresso, srotolato, ci si può porre in ascolto del discorso che esso è. È la visibilità dell’entità più profonda di ciò che è. Ascoltarlo e vederne il volto è tutt’uno, perché il canto ci parla di ciò che è e ci coinvolge in sé.

Non è modulazione del richiamo né del canto, ma proviene da questa dinamica di produzione sonora l’esperienza del clamore. Non sappiamo che cosa esso voglia dire, o almeno non è qualcosa che appaia ai nostri sensi. Tuttavia è clamore di qualcosa, è clamore del canto, è clamore del suono che è primariamente richiamo. Se lo strepito ci aveva adombrato la presenza dello strepitoso, ora il clamore evidenzia quanto quel mistero a cui ci siamo abbandonati ascoltando sia indubitabilmente clamoroso.

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Lombardo, nato e cresciuto fra i rami del lago di Como, ha frequentato il liceo classico A. Volta di quella città, percorso comunicazione, dove ha imparato ad amare il greco – è un appassionato lettore dei vangeli nella loro forma originale – e le lingue in genere, non ultimo il proprio dialetto brianzolo. Ha poi recitato, all’età di 19 anni, il suo primo “Addio ai monti” per trasferirsi presso il Seminario ambrosiano di Seveso, ex convento domenicano e luogo in cui Carino da Balsamo col suo falcastro dava la morte a S. Pietro primo martire domenicano. Discernendo poi una chiamata più speciale, è entrato nell’Ordine dei predicatori. Ha emesso la sua prima professione religiosa il 3 settembre 2016. Baccelliere in filosofia, prosegue il suo studio della teologia. Per contattare l'autore: fr.stefano@osservatoredomenicano.it