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Non ne sono certo, ma in tutta Nàzaret, ai tempi dell’infanzia di Gesù, ci sarà stato almeno un cane! Quello di cui sono certo è che, se c’era, avrà certamente suscitato un po’ la simpatia di uno che era così capace di gustare il fascino delle piccole cose da dire: «Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro» (Mt 6,28-29).

Mentre Gesù guardava negli occhi quel cane, sapeva certamente che avremmo inventato il computer, perché Egli è onnisciente. Lo abbiamo inventato per immagazzinare ed elaborare dati. Uno strumento da ufficio, dunque, nel primo momento. Il cane di Gesù, invece, non sapeva per niente cosa fosse o meglio cosa sarebbe stato il computer. Lo sanno invece i cani della nostra generazione, che vedono questi aggeggi e, pur non essendo dotati di ragione, capiscono che per noi sono oggetti piuttosto importanti.

Alcuni di loro si divertono, anzi, vedendo sullo schermo il volto del loro padrone o di altri cani, cercando di interagire. Ma, più profondamente, perché abbiamo introdotto uno o più computer in ogni casa? Quali mai dati avremo voluto contabilizzare?

Gesù, crescendo, cercava di conoscere la realtà, pur avendola creata lui, e come funzionano le persone, anche se lui sapeva «che cosa c’è nel cuore dell’uomo» (cfr. Gv 2,25). Così, si impegnava efficacemente a tradurre in umanità quella sua eterna e beata contemplazione dell’essenza dell’Uno. Una volta, poi, finita la traduzione, è asceso al cielo, e ce l’ha lasciata qua. È il lievito del Regno, di cui la Chiesa, cioè il popolo dei battezzati, è la bollosa farinosa custode. Ecco, noi, con il computer, cerchiamo di fare altre traduzioni, perché questo è il bello della vita. Traduciamo esperienze in immagini, immagini in testi, testi in numeri, e poi daccapo tutto al contrario.

Noi traduciamo e ritraduciamo, ma non dimentichiamoci di tradurre nel linguaggio dei nostri simili quel frizzo profondo capace di gustare l’essenza dell’Uno negli occhi di un cane palestinese del primo secolo e negli occhi del suo piccolo padrone.

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Lombardo, nato e cresciuto fra i rami del lago di Como, ha frequentato il liceo classico A. Volta di quella città, percorso comunicazione, dove ha imparato ad amare il greco – è un appassionato lettore dei vangeli nella loro forma originale – e le lingue in genere, non ultimo il proprio dialetto brianzolo. Ha poi recitato, all’età di 19 anni, il suo primo “Addio ai monti” per trasferirsi presso il Seminario ambrosiano di Seveso, ex convento domenicano e luogo in cui Carino da Balsamo col suo falcastro dava la morte a S. Pietro primo martire domenicano. Discernendo poi una chiamata più speciale, è entrato nell’Ordine dei predicatori. Ha emesso la sua prima professione religiosa il 3 settembre 2016. Baccelliere in filosofia, prosegue il suo studio della teologia. Per contattare l'autore: fr.stefano@osservatoredomenicano.it