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Lo spunto me l’hanno dato due miei amici: uno di questi, che studia antropologia, ha scritto una tesi dove analizza alcuni casi concreti di coabitazione, mostrando come l’amicizia possa essere una relazione di tipo primario; l’altro, invece, una volta, mentre parlavamo, mi ha interrotto dopo che io avevo usato il verbo “gustare”, e mi ha detto: “hai usato un bel verbo”.

Penso che abbia proprio ragione. E penso che questi due concetti vadano collegati. Quanto è importante saper gustare la bellezza dell’amicizia! Gustare è la chiave di tutto; non è né affannarsi nella ricerca del piacere né ripiegarsi nel timore del dono: è il verbo della vita divina, che riempie e nutre il presente, che ci fa scoprire nella nostra vita la traccia dell’eternità. È il verbo del Magnificat.

Subito mi è tornata alla mente l’opera di sant’Aelredo di Rievaulx, da molti considerato il “patrono dell’amicizia” per il suo trattato su questo argomento. Finalmente ho avuto l’occasione di leggerlo, e l’ho fatto tutto d’un fiato. Oh, come la sanno lunga i santi! Quanti grovigli e contraddizioni nel pensiero scientifico, nella psicologia, nelle nostre stesse valutazioni personali, sempre fluttuanti tra l’alto e il basso, fra una cosa e il suo contrario, fra la paura di essere troppo generosi nell’interpretare il bicchiere di vino della nostra vita e degli altri come mezzo pieno e l’orrore di cadere irreparabilmente nel pessimismo di considerarlo mezzo vuoto. «Il santo – come ha scritto il mio confratello padre Giuseppe Barzaghi – prende semplicemente il bicchiere e gusta il vino che c’è dentro»1.

Molte volte il santo abate usa la parola “dolcezza”2: dice proprio, e lo ripete con insistenza e soddisfazione, che nell’amicizia «si gusta la dolcezza della carità»3. Non è un effetto collaterale: senza questa dolcezza non c’è vera amicizia. Fortunatamente l’era di mezzo, l’epoca buia del sospetto scettico nei confronti degli affetti è passata: ovviamente mi riferisco agli anni novanta4. Aelredo e i suoi medievali amici sono sempre vivi, e, in forza della dolcissima amicizia, sempre giovani e sorridenti: anche adesso, per grazia di Dio, stanno certamente leggendo con te queste parole: e sicuramente non mi rimprovereranno di averli così citati. Se ho sbagliato qualcosa, me lo diranno dopo, non davanti a tutti.

Dice che «si coglie il frutto gustando[ne] la dolcezza della perfezione»5. La vera amicizia è «piena di benevolenza»6 e la benevolenza è «lo stesso sentimento d’amore che proviamo interiormente insieme a una certa dolcezza»7. «Fin dal principio, la natura stessa ha impresso nello spirito umano il desiderio dell’amicizia e della carità, un desiderio che il sentimento interiore dell’amore presto intensificò dandogli un certo gusto di dolcezza»8. E che gusto! Questa sua espressione “un certo gusto”, non è per dire “un po’ di gusto”, ma per dire che è un gusto talmente unico da essere indescrivibile. «Che altro posso dire? Non è stato forse un pregustare la felicità del cielo […] questo prendere lo slancio dalla dolcezza della carità fraterna per volare in quel luogo altissimo dove brilla lo splendore dell’amore di Dio e, sulla scala della carità, ora salire verso l’abbraccio di Cristo stesso, ora scendere all’amore del prossimo per una dolce pausa di riposo?»9.

L’amicizia è «dolce» e «ricca di frutti»10, l’amicizia «fa piacere»11 e «dà gusto, con la sua soavità, a tutte le virtù»12. «Anche riguardo alle creature spirituali, gli angeli, […] la piacevole compagnia […] aumentò in tutti la gioia»13. «Fra coloro che sono uniti nel vincolo dell’amicizia tutto è fonte di gioia, tutto dà una sensazione di sicurezza e di dolcezza»14. Quanto è irrazionale disdegnare questa bellezza, o rinchiuderla in un rigore asettico! «La fonte dell’amicizia è l’amore. Non un amore qualsiasi, ma quello che procede insieme alla ragione e al sentimento: un amore che la ragione rende puro, e il sentimento dolce»15.

Nell’amicizia non c’è sospetto, e chi è amico di Dio non ha paura della gioia: «straripa di felicità chi riposa nei cuori di coloro con cui vive, […] in uno stato di dolcissima serenità»16. «Nell’amicizia si ricongiungono l’onestà e la dolcezza, la verità e la gioia, l’amabilità e la buona volontà, il sentimento e l’azione»17. Spero che qui uno dei due amici che ho citato senta queste parole come una rivelazione, come io le sento. Tutti noi cerchiamo due cose: la luce e il calore, e non ci sembra vero quando troviamo le due cose stare così naturalmente, e da sempre, in una cosa sola.

E ora ci piazzo il discorso teologico. È bella quell’ipotesi teologica che vede nella “mela” di Adamo non un frutto in sé velenoso; la morte starebbe piuttosto nel fatto che gli è andata “di traverso”. Per rassicurare i più tradizionali, non è un’ipotesi recente. Fior fior di Padri e Dottori sostengono proprio questo: Dio ha proibito di mangiare quel frutto non perché non lo volesse dare. Al contrario: proprio prendendolo, il nostro nonno comune si è precluso la possibilità di riceverlo. Ora il nonno prega e gode in paradiso per noi, perché anche noi, nel nostro spirito, impariamo questa lezione eterna. E per farla capire meglio, parlerò della mia infanzia.

A casa mia, c’erano delle cose che non si potevano “prendere”, ma solo “chiedere”. Due di queste erano: la panna montata e l’uovo di Pasqua. Non si poteva semplicemente aprire lo sportello del frigorifero e dire: “Oh, c’è la panna montata”, e spruzzarsela in bocca. Così come non si poteva vedere un grande uovo di cioccolato, o prenderlo tra quelli regalati, e spaccarlo, per fare merenda. Non così, non così! Certo, si può fare: ma è un rovinare tutto. Così fu per Adamo: quel frutto era la cosa che più di ogni altra Dio gli voleva dare. Non era come i frutti della natura: quelli appartenevano già al dono fatto all’uomo con l’esistenza, con l’averlo reso appunto uomo, e quindi di avergli messo a disposizione tutto il creato. Quelli li poteva prendere tranquillamente, erano già suoi. Ma c’era una cosa che assolutamente non poteva essere “presa”, ma solo “donata”: l’amicizia.

L’amicizia di Dio, la partecipazione alla sua vita, è il dono più prezioso, anzi l’unico, che stia veramente a cuore a Lui. Solo per questo, per questo solo ci ha creato. Per aprirci il cuore della sua amicizia. Da qui l’importanza di tenersi lontani dagli eccessi: guai a chi prende, ma guai anche a chi non sa gustare. La sua esistenza sarebbe nulla, un agitarsi, forse anche carico di moralità, ma destinato a rivelarsi inutile ed impeccabilmente materiale, come un precisissimo giocattolo di plastica. Nemmeno biodegradabile. E invece, chi sa gustare la bellezza dell’amicizia, sente, nell’affetto stesso dell’amico, il «gusto di quel miele che è l’amicizia di Cristo»18. «Succede allora che rapidamente, in modo impercettibile, si passi da un affetto all’altro e, con la sensazione di toccare da vicino la dolcezza di Cristo stesso, l’amico cominci a gustare e a sperimentare quanto Egli è dolce e amabile. In questo modo, da quell’amore santo con cui si abbraccia il proprio amico, si sale a quello con cui abbracciamo Cristo stesso: si afferra così, nella gioia, a piene mani, il frutto dell’amicizia spirituale, nell’attesa di una pienezza che si realizzerà nel futuro, quando […] godremo per l’eternità del sommo bene»19.


1 G. Barzaghi, La fuga, ESD, Bologna 2010, p. 106.

2 P. es. «inter eos qui sibi amicitiae glutino copulantur, omnia iucunda, omnia secura, omnia dulcia, omnia suavia sentiuntur» (5); «Quae omnia a Christo inchoantur, per Christum promoventur, in Christo perficiuntur. Non igitur videtur nimium gravis vel innaturalis ascensus, de Christo amorem inspirante quo amicum diligimus, ad Christum semetipsum amicum nobis praebentem, quem diligamus; ut suavitas suavitati, dulcedo dulcedini, affectus succedat affectui» (5); «illa spiritalis sentitur dulcedo, quam bonum scilicet et quam iucundum, habitare fratres in unum» (28). Aelredo di Rievaulx, De spirituali amicitia, le citazioni dal testo latino sono tratte da http://www.intratext.com/IXT/LAT0616/, consultato alle h. 16:00 del 16.05.2020.

3 «Cum in amicitia […] caritas dulcescat […]» (4).

4 La modernità spesso si è autoconvinta di essere l’apice della valorizzazione dell’uomo proiettando, più o meno consciamente, ombre sinistre sui secoli che l’hanno preceduta. Il valico del millennio non è stato da meno, ma c’è da sperare per il nuovo.

5 «fructus capitur perfectionis illius dulcedinem sentiendo» (2).

6 «cum benevolentia» (3).

7 «benevolentia autem ipse sensus amandi qui cum quadam dulcedine movetur interius exprimatur» (3).

8 «Ita natura mentibus humanis, ab ipso exordio amicitiae et caritatis impressit affectum, quem interior mox sensus amandi quodam gustu suavitatis adauxit» (4).

9 «Quid ergo? Nonne quaedam beatitudinis portio fuit, sic amare et sic amari; sic iuvare et sic iuvari; et sic ex fraternae caritatis dulcedine in illum sublimiorem locum dilectionis divinae splendorem altius evolare; et in scala caritatis nunc ad Christi ipsius amplexum conscendere, nunc ad amorem proximi ibi suaviter repausaturum descendere?» (28).

10 «nihil experiatur dulcius, nihil fructuosius teneatur» (5).

11 «ubique amicitia grata […] reperitur» (5).

12 «Ipsa enim omnes virtutes sua condit suavitate» (5).

13 «etiam in angelis divina sapientia providit, […] grata societas […] iucunditatem augeret in pluribus» (4).

14 «inter eos qui sibi amicitiae glutino copulantur, omnia iucunda, omnia secura, omnia dulcia, omnia suavia sentiuntur» (5).

15 «Amorem amicitiae diximus esse principium. Nec qualemcumque, sed quae de ratione simul et affectu procedit. Qui quidem et castus est ex ratione, et ex affectu dulcis» (17).

16 «ipsum felicissimum non negabis qui in eorum inter quos vivit visceribus requiescit […] suavissima tranquillitate» (22).

17 «in amicitia coniunguntur honestas et suavitas, veritas et iucunditas, dulcedo et voluntas, affectus et actus» (5).

18 «dulcissimi illius nominis condimento» (1), cfr. «mellifluum Christi nomen sibi meum vendicavit affectum», ibidem.

19 «cum subito et insensibiliter aliquando affectus in affectum transiens, et quasi e vicino ipsius Christi dulcedinem tangens, incipit gustare quam dulcis est, et sentire quam suavis est. Ita a sancto illo amore quo amplectitur amicum, ad illum conscendens, quo amplectitur Christum; spiritalem amicitiae fructum pleno laetus ore carpebit; plenitudinem omnium expectans in futurum; quando […] de summi illius boni aeternitate gaudebimus» (28).

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Lombardo, nato e cresciuto fra i rami del lago di Como, ha frequentato il liceo classico A. Volta di quella città, percorso comunicazione, dove ha imparato ad amare il greco – è un appassionato lettore dei vangeli nella loro forma originale – e le lingue in genere, non ultimo il proprio dialetto brianzolo. Ha poi recitato, all’età di 19 anni, il suo primo “Addio ai monti” per trasferirsi presso il Seminario ambrosiano di Seveso, ex convento domenicano e luogo in cui Carino da Balsamo col suo falcastro dava la morte a S. Pietro primo martire domenicano. Discernendo poi una chiamata più speciale, è entrato nell’Ordine dei predicatori. Ha emesso la sua prima professione religiosa il 3 settembre 2016. Baccelliere in filosofia, prosegue il suo studio della teologia. Per contattare l'autore: fr.stefano@osservatoredomenicano.it