«Stasera sono candeliere». Non come quando in campeggio avevamo fatto lo spettacolo de La bella e la bestia. Mio fratello aveva fatto il candeliere, io il menù, ma non ricordo chi avesse fatto la cameriera-teiera. No, «stasera sono candeliere», nel senso che è il mio turno: devo portare il candeliere nella processione dei Vespri.
Il candeliere è pesante, ma la sua essenza mi fa volare, perché la sua identità sta tutta in una sillaba: “cand”. Questa sillaba è il cuore della parola, la collega a «candela» e anche ad «accendere», con lo stesso adattamento vocalico che conduce da «cadere» a «cedere». Ma non mi basta. Gli chiedo: «Come ti devo portare?». E lui cosa mi risponde?
«Caro Stefano, – dice – tanto per cominciare, io sono parente anche di «incandescente», per via della luce del fuoco, ma anche del «candito», per quel bianco abbagliante che è anche proprio della neve e dello zucchero. È evidente che l’unico modo per ben portarmi è: con «candore»».
«Sii più concreto. Spiegami che cos’è il candore».
«Il candore è la semplicità, l’ingenuità quasi. Assenza di malizia, direi. Pura meraviglia».
«Sì, ma meraviglia per cosa?» – faccio io.
«Andiamo con ordine. Le tre radici “cand”, “cadh” e “cail”, tra loro sorelle, parlano sì di luce, ma anche di integralità, di integrità, di interezza. Le vostre parole che le contengono sono lì per ricordarvi una delle caratteristiche fondamentali dell’esistenza: la totalità. E infatti, qual è la sostanza di questo bagliore innocente e lieto che ho sulla punta del ciuffo? Qual è la sua essenza se non l’essere la somma di tutte le tonalità? La sua tonalità è l’interezza».
Grazie, candeliere. La processione di stasera sarà una nuova conversione che mi porterà ancora una volta fuori da me stesso per accogliere con semplicità la realtà. Nella sua interezza, nella sua totalità, nella sua affascinante e ingombrante esistenza.