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Ode alla cicala: ricominciamo ad essere poeti

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The Ant and the Grasshopper - Richard Heighway

Esopo non ti ha compresa, La Fontaine non ha colto il fluire meraviglioso e intrattenibile del tuo canto, non hanno capito che tu, o cicala, non potevi tacere. Spesso accade che nell’ordinarietà non cogliamo la bellezza grandiosa o minuscola di cui la natura è intrisa… siamo troppo abituati allo straordinario; è questo un tempo in cui le piccole meraviglie fluiscono senza destare stupore: stiamo drammaticamente smarrendo l’estetica della semplicità nell’apparente insignificanza del quotidiano. Ricominciamo ad essere poeti. Il poeta… è uno scrutatore vigilante che semplicemente non può tacere ciò che sente d’invisibile… come un mistico incompreso annuncia le meraviglie di un mondo nascosto, di mari remoti, di vette altissime, gridando in sé a gran voce ma fuori solo fievoli sillabe: gli occhi dell’uomo rischiano senza spegnersi di abituarsi alle tenebre.

Non ci si può, senza morire dentro, adattare al buio e loro, i poeti, lo sanno bene… sono anime sofferenti poiché vivono il dramma incompreso di chi ha visto il sole e non sopporta più l’ombra. Sembrano folli poiché amano la Vita e La disprezzano al contempo, rimangono amareggiati dallo scoprire che un giardino fiorito rischia di essere solo nella loro mente. Sembra che vagheggino… Dentro è primavera, fuori un interminabile autunno. Il loro cuore si squarcia sotto i lunghi vomeri della realtà ma, in questa tensione, non possono smettere di abitare le vette. Di qui scrutano solitari l’affanno del mondo che osservano, come da una soglia; loro, i poeti, hanno esplorato gli abissi per poi salire fino al cielo, hanno sondato l’umanità, i suoi antri remoti, le sue ali piegate, il suo inconscio intorpidimento. Hanno però anche contemplato la bellezza dell’uomo quando vola – ha ali splendide -; in silenzio, facendosi spazio tra i rovi, si possono ammirare quei momenti superiori dell’anima che la colgono sola: libera si libra, è una vittoria per pochi poterla osservare, una rivelazione dell’eternità beata cui anela, ora, che le occasioni della terra sono svanite; è uno svelamento concesso a pochi eletti – raro -, ha la vaghezza di un’apparizione al servizio dell’aria. Ecco, l’uomo vola verso il suo Nido, è scardinata finalmente la catena della sua onnipotenza.

Chissà come t’accendesti dentro, o cicala, alle parole della formica… forse così avresti voluto rispondere o, forse, così hai risposto con parole velate e incomprese: «C’è un incanto invisibile che da qui osservo e contemplo. Non riposo quassù, solo non so smettere di cantare di gioia: è un fluire incessante, naturalmente intrattenibile. Vedi? Senti? Ascolta i sussurri delle siepi, ammira da questa vetta lo scintillio dei prati fioriti, osserva il tuo abisso da qui: resisterai? Su vieni! Canta con me, fuggi dalla tua arida vita. Ho un giardino policromo da mostrarti, dentro e fuori di te; tra gli steli dei fiori cammini incessante, o formica, ma soltanto da qui si osservano le stagioni, i colori dell’alba e dei tramonti; ascolta, nell’aria di questa solitaria sera d’estate suoni e profumi danzano silenti nell’aria e gli ultimi colombi giungono da mete lontane, anche loro qui, come magicamente attratti da questo paesaggio svaporante; non lasciare che questi ultimi raggi di sole di ricordi soltanto ci riempiano il cuore e al nostro – a questo – deserto aggiungano una squallida desolazione. Sento che stai morendo, affannata, sento che stai morendo; te ne prego, affrettati, corri quassù! Ecco, vorrei che anche tu riuscissi a scorgere quella farfalla posata sul fiore e non solo accorgerti di essa, dopo, quando volando via farà vibrare i petali. Sai formica, non scenderò mai di qui, c’è un oggi sempre nuovo che non voglio smettere di abitare; tu invece dimentica del passato ti protendi indifferente – solamente – al futuro. Ho imparato a scrutare il presente da qui, ad abitarlo, e a scoprirlo abitato, di innumerevoli antri inesplorati. Ho passato una vita nella terra, ho sentito il suo cuore pulsare, ho appreso una melodia che mi ha pervasa. Innalzo ora un inno al cielo, vivo un oggi intramontabile accompagnata dalla monotonia di un canto che promana da un cuore strabordante. Vieni! Trascorreremo insieme l’inverno, ti accompagnerò nel mio cuore dove scorre una linfa dolce, non morirai; su, vieni!». La formica non salì, preferì il turbine annullante del quotidiano affannarsi. Scelse la morte, forse, inconsapevole.

Cari amici, le cicale sono probabilmente gli unici insetti a vivere pochi mesi alla luce del sole. Eppure alcune specie vivono fino a quindici anni. Già, ma buona parte li trascorrono sotto terra, in un silenzio totale, nascoste e cullate dalla terra stessa. Ecco perché l’invito della formica a lavorare in vista dell’inverno non venne colto. Le cicale sono animali poetici, i loro canti come carmi incessanti. Esse sono l’emblema di un contemplativo che sa parlare con un solo linguaggio, divino, sempre uguale eppure nuovo ogni volta; è una lingua che si apprende in una prossimità insondabile e personalissima nella profondità del cuore, ove si intuiscono – fin poi a farne esperienza – delle parole che non hanno altra pretesa che essere annunciate, proclamate, urlate, condivise. Sono versi poetici che si librano nell’aria capaci di sopportare l’indifferenza delle formiche e gioire dell’interesse di chi li accoglie in sé.

E noi, accogliamo il canto delle cicale? Abbiamo un orecchio poetico che sappia cogliere nella monotonia di un canto la profondità di un invito a contemplare orizzonti nuovi e trascendenti? Le cicale, poetesse mirabili, ci invitano a divenire poeti. Riscopriamo l’incanto di boschi senza sentieri, che vi è un’estasi in una spiaggia solitaria, diveniamo poeti, amanti di ciò che conosciamo ma non siamo capaci di esprimere pienamente. Mancano le parole: ma noi abbiamo visto, abbiamo sentito, noi abbiamo vissuto, proprio come la cicala nel cuore della terra? Allora, perché non vogliamo cantare? Perché rendiamo ermetica una poesia che chiede soltanto di divenire intrattenibile in noi? Stiamo smarrendo il senso della poesia, la capacità di abitare una solitudine inverante, il desiderio di sondare i nostri abissi e abitare i ghiacciai ancora presenti in noi, la bellezza dell’inutilità apparente di chi non teme di essere controcorrente.

Abbiamo perduto l’esigenza di esserci, oggi, di essere noi stessi. Ritorniamo a sentire, ad ascoltare, ad osservare, a scrutare, ad innamorarci dello splendore di ciò che il convulso presente annulla. Ecco lo sguardo penetrante del poeta, l’udito attento del poeta, cha sa lasciarsi graffiare dentro dalla freschezza dell’inutilità che il tempo presente trova inutile, appunto.
Ora l’estate è trascorsa, delle cicale troviamo solo scheletri immobili saldi sulle cortecce. Eppure, ora le poetesse della natura sono già lì, cullate dalle zolle, quasi contemplando ad occhi chiusi le meraviglie che le attenderanno. Ora stanno imparando a cantare una lirica incessante, ricchissima, per chi vuole ascoltarla. Guardiamo alle cicale, ritorniamo ad essere semplici sommozzatori, ordinari scalatori. Impariamo di nuovo a cogliere immediatamente – senza mediazioni -, con quella capacità di meravigliarsi che risiede solo nell’intuito di un ricercatore attento. Ricominciamo ad essere poeti.

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