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Intimo disturbo

Il frate aprì l’uscio intagliato, notando appena il saluto delle spigolose figure, ed entrò nella piccola cappella. Le pareti lignee l’accolsero con un sospiro caldo, un soffio di vita che il suo corpo infreddolito salutò con involontario sollievo, ed il piccolo lume rosso sul fondo prese a fissarlo, benevolo e calmo come lo sguardo di chi attende ormai da molto. Il religioso poggiò con fatica il ginocchio sinistro a terra e con la mano destra tracciò su di sé un segno della croce, reso frettoloso dalla paura di sbilanciarsi. Quando si rialzò, il leggero schiocco delle giunture gli ricordò quanto stanco fosse, tanto che la sua mente, che entrando aveva carezzato l’idea di pregare in quella posizione, scese rapidamente a più miti consigli. Voltatosi, si sedette su di una delle piccole panche e, sollevato sul capo il cappuccio, lasciò che la luce tenue di quel luogo avvolgesse i suoi pensieri.

La fiamma delle candele pareva impregnare come un caldo fluido il legno delle pareti, diffondendo una luminescenza capace d’irradiare i riflessi d’una vita lenta, stabile, pazientemente intenta ad accogliere. Placidamente il suo sguardo s’immerse nel bel crocifisso brunito che sovrastava il piccolo altare, misero volto della vita infinita che umilmente attendeva nel semplice tabernacolo lucente. Il frate gioì della sua fragilità, di quell’istinto che lo portava a cercare i lineamenti scolpiti anziché il vero luogo dove batteva l’Eterno Cuore; si rallegrò non della debolezza in sé, ma del soccorso che Dio le prestava, di come non la rifuggiva ma, al contrario, si piegava per detergerla con un fresco panno.

La sua mente iniziò a scivolare nel cuore, al punto che i pensieri s’allinearono ai battiti e, come onde dalle alte frange, cominciarono ad esprimere in giovanili guizzi la teporosa gioia di cui Egli l’avvolgeva nell’intimo. Il frate sapeva che quegli istanti erano preziosi ma brevi, attimi rubati alla monotonia del tempo di cui l’anima si nutriva nella sua spesso penosa attesa dell’eternità. Era conscio di non poterli né forzare né trattenere, ma solo di poterne godere gli estivi aromi con la gioia d’un prato in invernale attesa. Proprio mentre le sue dita di mercante s’accingevano a carezzare quella Perla Preziosa che stava concedendosi al suo tocco, la porta s’aprì.

Una presenza ingombrante prese ad avanzare nella cappella a piccoli e strascicati passi mentre l’aria fredda del corridoio lavava rapidamente il caldo abbraccio della stanza. Il frate udì il cadenzato battere d’un bastone consunto ed il gemito di vecchie ossa sconvolte all’idea d’esibirsi in una vera riverenza; poi, dopo qualche istante, un respiro pesante si diresse verso di lui accompagnando, con passo malfermo ma deciso, il massiccio corpo dell’anziano confratello che gli si sedette di fianco.

Neppure una parola fu detta ma il frate, distolto dalla sua orazione, non poté non notare come il nuovo arrivato, fra tanti posti liberi, avesse scelto d’ingombrare proprio la sua panca. Il religioso, più preoccupato che irritato, si addossò alla parete alla sua sinistra, cercando di lasciare un minimo di spazio fra sé ed il confratello. Se la cosa venne apprezzata dall’altro non gli fu dato di saperlo: i suoi piccoli occhi castani, persi nel volto ampio e cadente, fissavano la stanza leggermente spenti, vaghi, mimando pietosamente un’inesistente curiosità mentre, con fugaci occhiate, studiava il momento adatto per farsi avanti.

Il frate chiuse gli occhi, cercando d’ignorare l’anziano, e si mosse a ritrovare il filo dei suoi pensieri. La cosa si rivelò ben più ardua del previsto poiché ogni volta che gli pareva d’aver scorto quell’avvolgente comunione, un irritante dato sensoriale lo richiamava ad una più immediata miseria. Ben presto perse ogni importanza che si trattasse del respiro rauco, dello sfregamento nervoso delle grassocce mani o del lieve odore di stantio degli abiti: gli occhi del frate dovettero riaprirsi e decidersi ad incontrare lo sguardo del confratello. Il religioso lesse nell’anziano il familiare composto d’imbarazzo e preoccupazione che, come una goffa mano di vernice, mal copriva la tragica rovina d’una mente confusa, persa in un mondo che pareva essere andato troppo avanti.

Egli si tirò giù il cappuccio, passò una mano fra i ricci candidi e, con un leggero sospiro, disse: «Mi dica padre Raffaele, che c’è?». Il vecchio s’accostò leggermente, come se temesse di perdere quell’occasione d’essere ascoltato; poi, con fare grave, rispose: «Scusami, sai per caso dov’è il mio rosario?».

Un rosario

Il frate s’impose quel rispetto e quella cortesia che, lo sapeva bene, erano sempre dovuti agli anziani, specie se in difficoltà; eppure non riuscì ad evitare un guizzante sguardo d’aiuto rivolto al crocifisso, un gesto che s’augurò l’altro non avesse notato. Quella domanda, apparentemente così semplice e diretta, aveva in verità assunto un’estensione tale da costituire quasi il cuore pulsante di chi la poneva. Per padre Raffaele il primo e principale problema era, sempre o quasi sempre, il ritrovamento del suo rosario, al punto che la sua giornata poteva idealmente dividersi in due momenti principali: quello della ricerca e quello dello smarrimento.

L’oggetto in sé non aveva alcun vero valore: si trattava di una vecchia corona da cinque misteri, composta da grani medi in plastica nera montati su di una catenella di ferro e culminanti in un semplice crocifisso metallico. Ai piccoli anelli padre Raffaele, nel corso degli anni, aveva aggiunto diverse medagliette sbiadite, ricordi dei santuari e dei conventi dove aveva svolto il suo ministero. Il religioso aveva sentito una volta da un confratello anziano che quell’oggetto era stato il primo acquisto fatto dopo la repentina conversione del vecchio frate e che quindi, per lui, aveva un fortissimo valore simbolico.

Questo elemento giustificava appieno la costante preoccupazione di quella mente confusa ed ingarbugliata dagli anni. Quando infatti il rosario era nelle sue mani, padre Raffaele si affrettava a metterlo in luoghi dove, così era convinto, l’avrebbe ritrovato facilmente; tuttavia, entro poco, il ricordo di quei posti svaniva e la sicurezza di sapere la preziosa corona al sicuro veniva sostituita dalla bruciante preoccupazione d’averla perduta. A quel punto chiedeva aiuto, solitamente alle persone di cui rammentava la cortesia.

Il religioso si era prestato più di una volta a queste ricerche, a volte perdendovi anche delle ore, e per questo era stato inserito nella ben poco fortunata lista degli “amici”, un elenco che il buon Raffaele si guardava bene dal dimenticare. Ogni tanto qualche frate appena arrivato poneva la fatidica domanda, ossia se quella strisciante forma di demenza sarebbe mai migliorata, ed ogni volta la medesima risposta veniva tristemente fornita: nessuna vittoria era possibile, ma solo una meno disastrosa sconfitta.

Il frate volse gli occhi all’anziano e scorse nel suo sguardo speranza, ansia, fastidio e forse, in fondo, anche una punta di consapevole imbarazzo. Il tutto si rifletteva nelle mani che, quasi senza sosta, continuava nervosamente a sfregare. Solitamente il religioso veniva, a questo punto, spinto da un sano moto di compassione a dare seguito alle necessità del confratello; tuttavia in quel momento gli sovvenne un pensiero, un singolo concetto che inutilmente cercò si diluire con le parole. Se ne vergognò, ma la sincerità delle sue origini lo rendevano, se non buono, perlomeno degno d’essere ascoltato, degno di non finire sepolto sotto i mortiferi fiori delle buone intenzioni. Si permise allora di esprimerlo mentalmente, di dargli quel minimo di corpo che la mente può donare, ma non prima d’aver distolto lo sguardo da quei piccoli occhi castani: «Signore, piuttosto che ridurmi così, fammi morire!».

Fiamme e candele

Appena quel concetto prese corpo, il frate ne sentì il fetore, ne vide la purulenta superficie e, ruminandolo, poté gustarne il marcescente sapore. Eppure, poteva davvero affermare di non percepirne la sinistra familiarità? Tentò di convincersi che fosse il fastidio a parlare, ma la menzogna si sciolse con la rapidità propria delle falsità che l’uomo vende a se stesso. Lo aveva pensato spesso, ogni volta che scorgeva i risolini benevoli dei frati e persino quando guardava ammirato la carità che molti riversavano su padre Raffaele. Lui infatti l’aveva conosciuto prima, quando la sua mente era feroce e abituata, come un’aquila, ad attaccare sempre dall’alto la sua preda. Rammentava bene la saggezza che quell’uomo donò allo studente che era, così come mai avrebbe dimenticato il fervore, a volte eccessivo, delle sue battaglie; vederlo ora, ridotto a cercare l’uscita da un labirinto che lui stesso tesseva, lo spingeva a chiedersi che senso avesse questa vulnerabilità, a cosa servissero questi anni di umiliazione.

Il religioso presa la mano di padre Raffaele e ne strinse delicatamente le dita grassocce ma, invece di alzarsi per aiutarlo, volse lo sguardo al crocifisso intagliato, come a cercare in chi aveva scelto la massima debolezza il senso di quella fragilità. L’anziano sorrise traendo da quel gesto la rassicurazione che cercava, la promessa di un prossimo soccorso; rasserenato, anch’egli si volse a quel Signore di cui ora, forse inconsapevole, era un misterioso riflesso.

Il frate prese coraggio e si chiese la ragione che lo spingeva ad abbracciare un pensiero così basso. Certamente la paura di smarrire se stessi, di perdere quell’io che tanto amiamo, aveva un peso non indifferente. Eppure si trattava di un timore facile da fugare: non solo era evidente, per chi sapeva guardare, che dietro la mente annebbiata batteva lo stesso cuore ma, da credente, egli sapeva bene che la bellezza di padre Raffaele era custodita, fino all’ultimo capello, in quell’anima immortale che attendeva solo d’abitare la sua terra nuova. No, la vera ragione di quel vile rifiuto doveva trovarsi più a fondo, oltre la paura, nelle sale custodite dalla superbia.

Il religioso si sorprese quando un pensiero lo folgorò, violento ed evidente come una saetta notturna: quel rifiuto derivava dall’incapacità di accettare la propria passività. Condizioni simili a quella di padre Raffaele infatti erano capaci di sottrarre ad un uomo anche quella remota possibilità di fare del bene che scaturisce dall’ascoltare o dal consigliare. Ci si riduceva a semplici resti, spettri tristi di vite passate capaci solo di appesantire chi aveva in custodia il presente. Proprio questa prospettiva appariva al frate peggiore della morte, ossia l’impossibilità di far scaturire qualunque bene dalla propria esistenza.

Tremendi erano questi pensieri ma necessari quanto il travaglio prima del parto. Nel momento in cui si permise di accoglierli, una luce brillò. Il bel crocifisso ligneo parve quasi animarsi di fronte a lui ed i suoi riflessi accompagnarono pensieri nuovi, di verità, che attendeva ma non sperava. Tanto bene aveva compiuto Cristo nella sua vita, riempiendo lo spazio ed il tempo d’ogni genere di salvezza; Egli tuttavia non aveva benedetto il mondo solo con gli atti, piccoli o grandi che fossero, ma anche con le sue necessità. Gli sovvennero in proposito le splendide parole di san Matteo: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi»1.

Quanta verità in così poche righe! In Cristo la fragilità diviene occasione di carità per l’altro, vaso santo da riempire con il dolce vino dell’amore. La vulnerabilità del fratello, anche profonda e degradante, nulla toglie al servizio che egli rende al Signore, poiché il bene che non può più portare con i suoi atti lo genera divenendo occasione, terreno fertile della concreta santità del prossimo. Il religioso si commosse, rimpiangendo d’appartenere ad un tempo così restio alle lacrime; ora sapeva che padre Raffaele era stato chiamato ad un duro servizio, a portare una croce pesante fatta non di fatica ma di suppliche e tremenda dipendenza, colma di una carità che troppo spesso assumeva l’amaro aroma del dovere. Egli, proprio come Gesù bambino piangente e bisognoso fra le braccia di Maria, serviva il prossimo facendo di se stesso la candela sulla quale l’amore altrui avrebbe potuto rifulgere.

Il frate si scosse, sentendo che solo l’attitudine a quel secolo freddo tratteneva una timida lacrima. Guardò il suo Signore un’ultima volta chiedendo perdono per la sua superbia e dicendosi disposto, ora o in futuro, ad accogliere con gioia qualunque debolezza, a divenir cera dell’amore del prossimo. Con la gratitudine dipinta nel cuore, si volse all’anziano alla sua destra e, sorridendo per la prima volta, gli disse: «Andiamo padre Raffaele, vediamo di trovare questo rosario».

1 Mt 25, 34-36.

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Quando il Signore mi venne a cercare, la mia mente vagava confusa nei caldi spazi dell’inedia, talmente carica di nulla da non poter portare altro con sé. Il mio corpo invece si preparava ad un indefinito inverno nella città di Ancona, gioiello del medio Adriatico (si fa per dire). Nella patria del pesce e del “mosciolo”, per un leggiadro scherzo della Provvidenza, sono nato quasi trentadue anni fa con una sentita inimicizia fra me e qualunque carne marina. La chiamata del Signore mi vide studente in storia ed appassionato consumatore di storie: racconti di tutti i tipi e narrati da aedi di tutte le arti. Ora che lo Spirito mi ha indirizzato nella famiglia di San Domenico ho posto questo mio nulla nelle mani della Vergine Maria e del caro Castigliano e chiedo loro quotidianamente di mostrarmi in ogni storia, vera o immaginaria, la traccia del Divino che lì soggiace. Ora che sto a Bologna studio come studiando rendere omaggio a Dio. Per contattare l'autore: fr.giuseppe@osservatoredomenicano.it