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Il drago rosso

Una sera silenziosa, poco prima del vespro, un frate pensoso stava passeggiando fra le arcate di un’antica basilica. Molti erano i ricordi, soavi e tristi, che quel luogo condivideva con l’intimo sguardo del religioso, tanto che il suo incedere possedeva la pacatezza d’una consumata amicizia. Ad un tratto tuttavia l’uomo s’arrestò, gli occhi fissi su di una figura che, incredibilmente, ascoltava per la prima volta: aveva visto un mostro. Era piccolo e per nulla minaccioso, incarcerato nella bella pala d’altare che lo ritraeva; eppure, al vederlo, un brivido scosse il frate, talmente profondo da farne vibrare tutto l’essere.

L’enorme drago rosso tiranneggiava un cielo cupo come l’abisso, spogliato di alcune delle sue stelle più belle1; dal suo corpo serpentino sembrava promanare una luce buia, come d’un amore volto al suo contrario. La sua triste maestà attirava, come un gorgo maligno, la circostante bellezza in un’insensatezza distruttiva lontana perfino dalla fredda indifferenza della natura.

Mentre osservava la scena, il frate rammentò il drammatico destino verso cui quel mostro era indirizzato2 ; tuttavia, invece di meditare il senso teologico e spirituale del bellissimo racconto biblico, si trovò a considerare quanto il drago fosse oggettivamente bello. L’artista aveva sapientemente fuso i tratti di differenti animali, infondendo loro una ferocia umana, colpevole, priva dell’innocenza delle fiere. Colori, movenze, proporzioni, tutto contribuiva a rendere la belva esteticamente bella, dotata di quella maestosità che nella natura parla di Dio.

Eppure, considerò il religioso, non aveva esitato un secondo a definirla “mostro”. Inizialmente pensò che quell’epiteto fosse stato cagionato dall’irrealtà delle forme, tuttavia dovette presto ricredersi. Piccolo infatti, avvolto nella luce ai margini della composizione, volava san Michele, altrettanto irreale nella sua simbolica fisicità; eppure, neppure per un istante aveva pensato di chiamare anche il santo principe allo stesso modo.

Angeli

La situazione era imbarazzante: possibile che non sapesse dire cosa rendesse tanto mostruoso il drago rosso? Il frate riprese a camminare, chiuso nei suoi pensieri, rievocando le immagini di animali, esistenti ed esistiti, delle cui terribili sembianze l’artista poteva essersi servito per il suo mostro. Fu così che se ne rese conto: mentre nel più tremendo dei predatori ogni elemento, anche il più crudele, era finalizzato ad un bene, ossia la conservazione di quell’esistenza donatagli da Dio, nel dragone quelle medesime parti avevano il solo scopo di distruggere. Nello sguardo di quell’essere, simbolica rappresentazione del demonio, il religioso aveva, senza rendersene conto, letto la disperata rabbia di chi non possiede più neppure un fine e s’aggrappa, più triste d’un folle, ad una devastazione avente come termine il nulla.

Il religioso alzò il capo e sulle splendide volte della basilica, amorevolmente ombreggiate dalla delicata luce crepuscolare, scorse un affresco ritraente i nove cori angelici. Fra gli ori, i bianchi ed i virginei celesti non fu difficile scorgere la pace e l’armonia di chi gode di quel Sommo Bene che è Alfa e Omega per tutti e per ognuno3 .

Chi possiede un fine così alto, rifletté il frate, non ha nulla da temere, poiché niente e nessuno potrebbe sottrargli un così vasto orizzonte. Per questo, proprio come gli angeli e i santi, anche i cristiani, pur non avendo ancora raggiunto la beatitudine, già possiedono la saldezza di chi è capace di alzare lo sguardo ed orientarsi nel cammino.

Se essere in viaggio verso il proprio vero e più alto fine dona una tale saldezza alla creatura ed una simile pregnanza ai suoi atti, e se il mostro è colui che perverte nella distruzione, nella negazione di ogni fine, le sue forze, allora è lecito chiedersi come una creatura possa aver a tal punto distorto la sua natura.

Lo sguardo del drago

Era evidente che nessun mostro poteva essere nato tale: l’idea che Dio potesse creare un essere a tal punto disperato sin dal principio era assurda ed intollerabile. Ma se ogni creatura viene al mondo già indirizzata, secondo la sua natura, al bene, allora bisogna domandarsi quale facoltà possa permettergli di pervertirsi al punto da smarrire ogni direzione. La risposta gli apparve semplice: solo chi è libero, chi possiede una natura razionale, può scegliere coscientemente il bene e quindi sbagliare.

Sia gli angeli che gli uomini quindi sono in grado, pur in modo differente, di abbracciare o rifiutare Dio come fine e destino del loro agire; tuttavia, così considerò il frate, l’alternativa non poteva essere semplicemente fra la beatitudine, desiderata e raggiunta, e la tremenda disperazione del drago, poiché in tal caso la scelta sarebbe stata ovvia. Nessuno infatti, neppure il più corrotto degli esseri, cerca l’infelicità, ma sempre e solo ciò che gli appare bene.

Il religioso scosse il capo: la questione si faceva complessa e, così si disse umilmente, non l’avrebbe risolta considerandola nella natura angelica. Decise quindi di scendere nel tempo, fra gli uomini, dando una carne nota al problema. Come si consuma il passaggio da colui che è in cammino verso la santità al mostro, che vive nella disperata distruttività l’assenza di ogni scopo? Formulando così il problema, anche la risposta apparve presto chiara al vecchio peccatore.

Si vide giovane, incapace di distinguere, al buio della fede, le insidie del cammino verso Dio. Rammentò, come fosse attuale, quell’attimo, quel fuggevole istante nel quale il suo sguardo si era offuscato: invece di desiderare Dio e la Sua Volontà, aveva iniziato a bramare se stesso al servizio di quella Volontà. La distinzione era difficile da cogliere anche quando espressa, ma devastante nei suoi effetti. L’orizzonte nel quale si leggeva si era ristretto solo di pochissimo, ma abbastanza da negare l’infinito. Il bene cui puntava non era più il Signore, verso il quale il servo resta solo in diligente attesa, ma l’essere al Suo servizio attivo, il permanere in uno stato che, quasi inconsciamente, aveva elevato da mezzo a fine.

Gli sovvennero le parole del Signore, il quale disse: «Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me;[…4; ora forse ne comprendeva meglio il senso: qualunque bene finito, per quanto grande e degno sia, non solo non potrà mai aprire il cuore a quel cammino verso l’infinito cui ogni uomo si sente chiamato, ma non sarà mai una base stabile sulla quale fondare la propria esistenza. Nel momento infatti in cui quel bene finito, ingiustamente elevato, venisse a mancare, l’uomo rischierebbe di non essere più in grado di ritrovare la via; finirebbe per degradarsi in continui surrogati i quali, sempre più fragili, avrebbero bisogno di un vuoto crudele attorno per poter illudere.

Il frate si fermò, scoprendosi nuovamente di fronte al drago rosso. Dentro di sé, irrazionalmente, sperò quasi che perfino lui non si rendesse pienamente conto del suo stato, che non comprendesse la propria mostruosità. Come si poteva concepire un’esistenza più triste di quella di chi, incapace di trovare perfino un falso fine da proteggere, abbia reso la distruzione l’unico suo scopo?

Il religioso si consolò, rendendosi conto che nessun uomo, su questa terra, è davvero un mostro. L’amore di Dio, come la luce del sole, illumina tutti i Suoi figli e con carità impedisce che la disperazione del drago riempia i cuori. La Provvidenza invece ne finalizza i morsi al bene e mantiene sempre disponibili gli alti orizzonti della fede a chi si lasci guidare nell’alzare lo sguardo. Tuttavia, angosciato, il frate non poté negare di aver più di una volta scorto, in sé come negli altri, la sinistra follia dello sguardo del drago. Rabbrividì al ricordo di quegli occhi, poiché alla loro luce aveva vissuto, per un istante, la desolazione che angosciava il mostro, il suo mondo. Con il cuore pesante, accompagnato dal crepuscolo, si ritirò a pregare.


1 Cf Ap 12, 3-4.

2 Cf Ap 12, 9.

3 Cf Ap 21, 6 e 22, 13.

4 Mt 10, 37.

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Quando il Signore mi venne a cercare, la mia mente vagava confusa nei caldi spazi dell’inedia, talmente carica di nulla da non poter portare altro con sé. Il mio corpo invece si preparava ad un indefinito inverno nella città di Ancona, gioiello del medio Adriatico (si fa per dire). Nella patria del pesce e del “mosciolo”, per un leggiadro scherzo della Provvidenza, sono nato quasi trentadue anni fa con una sentita inimicizia fra me e qualunque carne marina. La chiamata del Signore mi vide studente in storia ed appassionato consumatore di storie: racconti di tutti i tipi e narrati da aedi di tutte le arti. Ora che lo Spirito mi ha indirizzato nella famiglia di San Domenico ho posto questo mio nulla nelle mani della Vergine Maria e del caro Castigliano e chiedo loro quotidianamente di mostrarmi in ogni storia, vera o immaginaria, la traccia del Divino che lì soggiace. Ora che sto a Bologna studio come studiando rendere omaggio a Dio. Per contattare l'autore: fr.giuseppe@osservatoredomenicano.it