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Mercoledì 9 giugno, nel parco di Villa Revedin, sui colli bolognesi, il vescovo di Bologna, mons. Matteo Zuppi ha incontrato gli studenti universitari, su invito dei responsabili della pastorale universitaria diocesana. Erano presenti circa trecento ragazzi, con alcuni frati, suore e presbiteri legati ai gruppi giovanili e studenteschi della città.

Il tema scelto per l’incontro, Misurare il futuro con i nostri passi, intendeva far riflettere i giovani sia sulla loro condizione di studenti, orientati ad entrare nel mondo del lavoro e quindi ad assumersi sempre di più delle responsabilità, sia sulla situazione pandemica attuale che, avendo stravolto la vita ordinaria e tutte le nostre abitudini, ha reso incerte le prospettive future per numerosi studenti.

Nelle settimane precedenti all’incontro, i giovani hanno inviato a don Francesco Ondedei e agli altri responsabili della pastorale universitaria, personalmente o a nome di un gruppo, le domande che avrebbero voluto rivolgere al cardinale. Tuttavia, considerato il numero elevato di questioni pervenute, è stato chiesto alla nostra Gioventù Domenicana bolognese di esaminarle e di raggrupparle in alcune aree tematiche, da presentare poi al vescovo.

Tenuto conto del tema scelto e dell’incertezza per ciò che accadrà nel prossimo anno sociale, non c’è da stupirsi che molte domande vertessero proprio sul disagio e sulla speranza suscitati dalle quarantene dell’ultimo anno e sul modo di affrontare i prossimi mesi. In particolare, tanti hanno notato come la pandemia abbia portato allo scoperto alcuni problemi sociali che si trascinavano da troppo tempo e abbia offerto l’occasione per riflettere sul modo di affrontare la sofferenza e la malattia, di relazionarsi con i parenti e con gli amici e di testimoniare la fede cristiana nella società. Come ogni buon studente che, dopo aver individuato un problema, lo sottopone al maestro, così si sono rivolti al pastore della Chiesa di Bologna per ricevere un insegnamento.

Poste tali premesse, adagiati sull’erba verde del parco che congiunge il seminario regionale con le scuole Malpighi, abbiamo ascoltato alcune parole d’introduzione, tra il serio e il faceto, da parte di don Francesco, seguite dalle domande che due ragazzi della Gioventù Domenicana hanno posto a mons. Zuppi.

1) La solitudine, sperimentata da numerose persone durante la quarantena, fa emergere le proprie fragilità. Con l’allentamento delle restrizioni e la ripresa delle attività ordinarie, come possiamo vivere pienamente la vita?
Il futuro non è il prodotto del caso, ma è una realtà che costruiamo noi stessi, con le nostre scelte e i nostri sogni; lo costruiamo oggi, in base ad un fine al quale tendere, un fine che orienti le decisioni quotidiane. Non sappiamo se dopo questa pandemia saremo migliori di prima, ma sappiamo che ci è offerta un’opportunità di cambiamento e di rinnovamento di tutta la nostra vita, perciò non possiamo rimandare le nostre scelte, né permetterci di non scegliere, poiché questa sarebbe già una scelta.
Questo virus ci ha insegnato che non è vero che abbiamo sempre tempo per ogni cosa: al contrario, il tempo che abbiamo è limitato e dev’essere valorizzato ed usato nel modo migliore possibile, per non illudersi di «rimanere sempre sani in un mondo malato»1.

2) In quest’ultimo anno è apparso in modo sempre più evidente come l’individualismo si sia acuito. Che cosa possiamo fare come cattolici?
L’individualismo si diffonde perché è seducente e gli uomini si lasciano allettare facilmente dalle sue seduzioni. Tuttavia, nessuno si salva da solo, poiché l’uomo è fatto per la relazione, non per l’isolamento. Nonostante questo dato di fatto, oggi non riusciamo nemmeno a sperimentare delle vere amicizie e, per di più, viviamo separati dalla realtà. Di fronte a questa situazione, l’atteggiamento del cristiano è dettato dalla consapevolezza di vivere nella storia, perché il Figlio di Dio si è incarnato e ha vissuto nella storia. Pertanto, possiamo guarire questo mondo malato, ma solamente insieme, ricostruendo il tessuto sociale, a partire dalle relazioni con chi ci è più vicino, offrendo quella carità che Cristo ci ha donato.

3) Nella frenesia della vita che riparte, come si può mettere il cuore in tutto ciò che si fa?
Ciò che fa funzionare bene il cuore è il rapporto col Signore. Talvolta, invece, consideriamo la fede come un dovere, non come una gioia ricevuta gratuitamente. L’ambito che ci rivela quale sia il nostro modo di vivere la fede è la preghiera: quando preghiamo ci mettiamo veramente davanti ad un Tu? Dalla risposta a questa domanda dipende il modo con cui svolgiamo ogni nostro compito. Se manca questo fondamento, è inutile riempire le nostre agende di impegni e servizi, per quanto siano utili ed importanti. Al contrario, quando questo rapporto con Dio esiste ed è percepito come vitale, siamo portati a rivolgere la nostra attenzione a coloro che non hanno da ricambiare, a coloro dai quali non andremmo mai, perché non possono darci un contraccambio. Se c’è questo rapporto, allora il cuore funziona e funzionano anche tutte le attività vitali, perché è Dio stesso a dar vita al cuore.

4) Molte persone, che hanno contratto e trasmesso il Covid o hanno visto morire i loro cari a causa del virus vivono un senso di colpa. Che cosa direbbe loro Gesù?
In tutti gli episodi del vangelo in cui Gesù incontra degli infermi, malati e, più in generale, dei sofferenti, la sua risposta è la compassione. Questa è la stessa riposta del credente, poiché la fede non opprime il cristiano coi sensi di colpa, ma gli fa sperimentare la vicinanza di Cristo e lo fa vivere con quella consolazione che vince il male e conduce alla luce.


1 Papa Francesco, Momento straordinario di preghiera, 27 marzo 2020.

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Fra Paolo Peruzzi, nato a Verona nel 1990, diplomatosi al liceo classico, nel settembre 2016 ha emesso la professione semplice nell'Ordine dei frati predicatori. Attualmente studia Teologia, dopo aver ottenuto il baccellierato in Filosofia presso lo Studio filosofico domenicano di Bologna. Per contattare l'autore: fr.paolo@osservatoredomenicano.it