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Come può oggi un frate parlare dell’obbedienza e proporla come la più alta tra le virtù morali? Obbiettivamente, il nostro mondo subisce l’incontrollato fascino per la ribellione: dalle varie forme di scapigliatura, all’ateismo, per non parlare di figure come il papa, il re, addirittura nei confronti del proprio padre si nutre un sentimento d’indipendenza. Ma noi siamo anche oltre: se una volta si contrapponeva l’uso critico della ragione all’obbedienza (disubbidienza al re), oggi, caduto anche il mito di una ragione onnipotente, l’obbedienza è considerata come nemica dei sentimenti e delle passioni (disubbidienza al padre): obbedire incatena l’uomo, lo incatena nelle sue emozioni che devono poter essere espresse perché la persona sia pienamente se stessa.

Siamo di fronte a una virtù che nega la libertà, ostacola l’uso della ragione e reprime le passioni. Tremendo. A queste considerazioni aggiungiamo il fatto che obbedire sembra tipico dei bambini o, più in generale, degl’immaturi o di persone psicologicamente deboli. Si vede che la Sapienza divina era ‘psicolabile’ quando ha detto: “Chi mi obbedisce non si vergognerà, chi compie le mie opere non peccherà” (Sir 24,22).

Perché non si vergognerà? Nella nostra esperienza il sentimento della vergogna subentra quando il cuore scopre di avere qualcosa da rimproveraci. Questo avviene quando andiamo contro coscienza. Riflettiamo bene: chi obbedisce agli uomini potrebbe vergognarsi per non aver ascoltato la coscienza, anche chi gli disubbidisce non è esente dal medesimo rischio perché “ogni uomo è inganno” (Sal 115, 11b); invece chi obbedisce alla Sapienza divina non si vergogna, perché è reso partecipe di quella stessa Sapienza che dice: “Chi compie le mie opere non peccherà”. Vediamo subito che a qualcosa bisogna sempre ubbidire: anzitutto la coscienza, la quale viene descritta – guarda caso – come una voce interiore di Dio [Cfr. CCC 1778].

Ma se potessimo ancora diffidare di noi stessi o di voci interiori, davvero potremmo diffidare di Dio? In effetti non ha motivo di vergognarsi chi obbedisce a Colui che ha voluto farsi uomo e del quale la Chiesa canta: “Tu, ad liberandum suscepturus hominem, non horruisti virginis uterum” (nella traduzione della CEI: Tu nascesti dalla vergine madre per la salvezza dell’uomo). Dio vuole soltanto una cosa: Egli chiama gli uomini a collaborare alla loro ed altrui salvezza. Donargli se stessi diventa, dunque, non solo il modo più saggio, ma il più astuto per salvarsi. E direi che basta aprire gli occhi sulla propria vita per capire di non poter fare a meno della salvezza. Dire, dunque, che l’obbedienza a Dio, tutt’altro che vile sottomissione, diventa il metodo migliore per mettere a frutto la propria libertà.

L’opera di Cristo è la Redenzione e, come ho detto, chi vi partecipa santifica sé e gli altri. È questo il senso dell’obbedienza religiosa, riflesso dell’obbedienza di Cristo e di Maria, anticipo della condizione dei beati, i quali vogliono ciò che il loro amato vuole. In tal senso la vita religiosa è una gran furbizia: questo il mondo non lo capisce… Sono simili a quegli invitati che giunti alla festa si ingozzano di antipasti e arrivato al piatto principale senza più un briciolo di gusto per assaporare il meglio. Il religioso è colui che ha scelto di fare del meglio la sua unica portata.

L’obbedienza è quindi un atto di fiducia in qualcuno che so che non può chiedermi il male. Qui si rivela il grande vantaggio di essere cristiano – la fortuna di appartenergli, direbbe un santo pastore della Chiesa – perché il credente aderisce liberamente a Dio. Tutti, infatti, devono obbedire a qualcuno: allo Stato, al datore di lavoro, ai propri vizi. L’obbedienza, invece, non solo non nega la libertà, l’intelligenza o gli affetti, ma li custodisce nell’integrità della persona. L’obbedienza è una forma di adeguazione: obbedire a una ragione più alta significa elevarsi, anzi emanciparsi dall’istinto o dal sentimento disordinato per agire liberamente. Sottomettersi alla verità nella quale ogni uomo può trovare se stesso (Cfr. Gaudium et spes 22), significa essere veri.

Infine, riconosco che c’è del vero in chi accusa l’obbediente di comportarsi come un bambino. Non perché l’atto d’obbedienza sia indice di un’immaturità irrisolta, a questo punto anche le stravaganze della ribellione possono essere una forma di adolescenza frustrata. Al contrario obbedire rivela quell’atteggiamento di fiducia di cui parla il Vangelo: Se non diverrete come bambini non entrerete nel Regno dei Cieli (Mt 18, 3).

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Fra Paolo Peruzzi, nato a Verona nel 1990, diplomatosi al liceo classico, nel settembre 2016 ha emesso la professione semplice nell'Ordine dei frati predicatori. Attualmente studia Teologia, dopo aver ottenuto il baccellierato in Filosofia presso lo Studio filosofico domenicano di Bologna. Per contattare l'autore: fr.paolo@osservatoredomenicano.it

1 commento

  1. nota a margine: l’obbedienza e la disobbedienza, fine a se stesse, non significano nulle, sono entrambi infantili e pericolose. la domanda è a chi si obbedisce e a chi si disobbedisce… perchè obbedire a uno significa disobbedire a un altro.
    ciao paolino 😉