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I problemi, è risaputo, non mancano mai. Sovente sono le soluzioni ciò di cui si è a corto. E questo vale anche nel mondo ecclesiale. Così, tra tanti possibili esempi, devo confessare che quando, più volte, mi sono imbattuto in parole scritte o pronunciate circa il perché la gente non va più a Messa, con relative proposte di rimedio, facendomi imitatore del profeta Geremia “le divorai con avidità”1. Speravo davvero che potessero aumentare “la gioia e la letizia del mio cuore”2 offendo valida soluzione ad una annosa e triste questione particolarmente considerata in ambito pastorale (senza purtroppo grandi risultati) quale il calo ormai sistematico della frequenza alle celebrazioni liturgiche. L’avidità della mia lettura è poi cresciuta quando ho meglio focalizzato come il contenuto di alcune di queste proposte riguardassero in modo particolare l’omelia e la sua collocazione all’interno delle sacre cerimonie. Tra qualche settimana, infatti, sarò ordinato diacono e, seppur gradualmente, la responsabilità della predicazione all’interno della liturgia, incomincerà a gravare anche sulla mia povera persona.

Forse proprio per questo grande è stata la mia sorpresa nell’apprendere come, secondo qualcuno il progressivo svuotarsi delle nostre chiese vada ascritto proprio a questo preciso momento della celebrazione che dovrebbe essere pertanto ripensato con attenzione. Alcuni, certo non privi di risolutezza, hanno addirittura proposto di spostare l’omelia alla fine della Messa e renderla facoltativa. Quando ero bambino e , forse, fino ad un tempo non troppo remoto, avrei appoggiato una simile mozione con entusiasmo e senza riserve. Oggi avverto qualche difficoltà. Certo, il differimento del pensiero omiletico al termine dell’Eucarestia potrebbe non essere eccessivamente problematico dal momento che, in talune occasioni, avviene già. A titolo di esempio, immagino che gli esperti di San Pietro e dintorni ricorderanno come per alcuni anni, in occasione delle esequie dei membri del Collegio Cardinalizio l’omelia era tenuta dal Pontefice che pure raggiungeva la Basilica vaticana solo al termine dei riti di Comunione. In ogni modo, perché questa proposta possa concretamente essere presa in considerazione da chi ne ha la responsabilità occorre, a mio avviso, specificare che per quanto “alla fine”, l’omelia debba comunque essere tenuta all’interno della celebrazione liturgica. Diversamente non sarebbe più “omelia”, ma al massimo predicazione o catechesi. Essa infatti è resa tale per il fatto di essere, sulla scorta degli insegnamenti del Concilio Vaticano II «parte integrante della liturgia»3 dal momento che «non è solo un’istruzione, ma è anche un atto di culto»4 il cui scopo, come già compresero i padri della Chiesa non è «solo di santificare il popolo, ma di glorificare Dio»5. Inoltre, credo sia molto opportuno non dimenticare che «data la sua natura liturgica, l’omelia possiede anche un significato sacramentale: Cristo è presente sia nell’assemblea riunita per ascoltare la sua parola, sia nella predicazione del ministro, tramite il quale, il Signore stesso, che ha parlato una volta nella sinagoga di Nazaret, ora ammaestra il suo popolo»6. Certo, dopo aver ascoltato alcune prediche che risulterebbe eufemico definire inadeguate, mi rendo conto di come accettare queste parole richieda un atto di fede non insignificante che tuttavia, proprio perché significativo, immagino possa essere gradito al Signore, certo più della (rispettabilissima, ci mancherebbe) decisione di colui che lascia la chiesa senza permettere alle parole del ministro di raggiungere le proprie orecchie.

Considerato quanto finora esposto, mi permetto di non fare mia la proposta di rendere facoltativa l’omelia, men che meno quella di garantire ogni domenica una Messa almeno senza l’omelia. Davvero sarà possibile tornare a riempire le chiese andando via via verso l’eliminazione o la relativizzazione di ciò che «ha il compito di favorire una più piena comprensione ed efficacia della Parola di Dio nella vita dei fedeli»7, a quella attualizzazione del messaggio scritturistico che dovrebbe condurre i fedeli a «scoprire la presenza e l’efficacia della Parola di Dio nell’oggi della propria vita»8? Siamo davvero convinti che sarà possibile far tornare a divampare nel cuore degli uomini il fuoco della fede rendendo facoltativo e destinato a “chi vuole” ciò che da sempre è un dovere necessario per ogni buon cristiano come crescere nella conoscenza della dottrina della Chiesa lasciandosi istruire ed edificare? Personalmente credo di no. Anzi, anche a costo di correre il rischio di passare per sempliciotto o illuso, preferisco continuare ad assistere al miracolo della Chiesa che, come ebbe a dire l’allora cardinale Ratzinger, consiste nel sopravvivere ogni domenica a milioni di pessime omelie.

Sì, perché i problemi ci sono e non è opportuno nasconderli. Non ho difficoltà a comprendere quanti avvertono desiderio di alzarsi ed andarsene durante un’omelia che appare come un annacquare il brodo o fare teatro verbale. Per questo è importante ribadire che «L’omelia non può essere uno spettacolo di intrattenimento, non risponde alla logica delle risorse mediatiche, ma deve dare fervore e significato alla celebrazione. È un genere peculiare, dal momento che si tratta di una predicazione dentro la cornice di una celebrazione liturgica; di conseguenza deve essere breve ed evitare di sembrare una conferenza o una lezione. Il predicatore può essere capace di tenere vivo l’interesse della gente per un’ora, ma così la sua parola diventa più importante della celebrazione della fede. Se l’omelia si prolunga troppo, danneggia due caratteristiche della celebrazione liturgica: l’armonia tra le sue parti e il suo ritmo. Quando la predicazione si realizza nel contesto della liturgia, viene incorporata come parte dell’offerta che si consegna al Padre e come mediazione della grazia che Cristo effonde nella celebrazione. Questo stesso contesto esige che la predicazione orienti l’assemblea, ed anche il predicatore, verso una comunione con Cristo nell’Eucaristia che trasformi la vita. Ciò richiede che la parola del predicatore non occupi uno spazio eccessivo, in modo che il Signore brilli più del ministro»9.

Per favorire questo mi sembra importante affermare che la Chiesa oggi non ha bisogno di nuovi coreografi (ci faremo bastare quei troppi che abbiamo), bensì di veri liturgisti, preparati a fare in modo che «nell’azione liturgica non solo siano osservate le leggi che rendono possibile una celebrazione valida e lecita, ma che i fedeli vi prendano parte in modo consapevole, attivo e fruttuoso»10.

Alla luce di tutto questo, mi sia permesso di formulare un’altra proposta che vorrei sintetizzare con una parola che, guarda caso, fa rima con “soluzione” e, considerato il (si spera) diffuso desiderio di vedere aumentare la frequenza dei fedeli alle azioni liturgiche, anche con “pienone”. Questa parola è “formazione”. Sono infatti persuaso che omelie come quelle che, giustamente, provocano l’insofferenza dell’assemblea liturgica, non siano altro che la punta di un iceberg, o meglio, i sintomi di un problema ben più profondo. Infatti «Dio non cessa di chiamare alcuni a seguirlo e servirlo nel ministero ordinato. Anche noi, però, dobbiamo fare la nostra parte, mediante la formazione, che è la risposta dell’uomo, della Chiesa al dono di Dio, quel dono che Dio le fa tramite le vocazioni. Si tratta di custodire e far crescere le vocazioni, perché portino frutti maturi. Esse sono un “diamante grezzo”, da lavorare con cura, rispetto della coscienza delle persone e pazienza, perché brillino in mezzo al popolo di Dio. La formazione perciò non è un atto unilaterale, con il quale qualcuno trasmette nozioni, teologiche o spirituali. Gesù non ha detto a quanti chiamava: “vieni, ti spiego”, “seguimi, ti istruisco”: no!; la formazione offerta da Cristo ai suoi discepoli è invece avvenuta tramite un “vieni e seguimi”, “fai come faccio io”, e questo è il metodo che anche oggi la Chiesa vuole adottare per i suoi ministri. La formazione di cui parliamo è un’esperienza discepolare, che avvicina a Cristo e permette di conformarsi sempre più a Lui.

Proprio per questo, essa non può essere un compito a termine, perché i sacerdoti non smettono mai di essere discepoli di Gesù, di seguirlo. A volte procediamo spediti, altre volte il nostro passo è incerto, ci fermiamo e possiamo anche cadere, ma sempre restando in cammino. Quindi, la formazione in quanto discepolato accompagna tutta la vita del ministro ordinato e riguarda integralmente la sua persona, intellettualmente, umanamente e spiritualmente. La formazione iniziale e quella permanente vengono distinte perché richiedono modalità e tempi diversi, ma sono le due metà di una sola realtà, la vita del discepolo chierico, innamorato del suo Signore e costantemente alla sua sequela»11.

Consapevole di quanto tutto questo possa non essere cosa semplice, non voglio terminare questo mio scritto senza chiedere a quanti avranno modo di leggere le mie parole il dono della preghiera per tutti i sacerdoti e per quanti, come me, si preparano a diventarlo. Del resto «La vita santa dei Presbiteri esige il conforto della preghiera di tutto il Popolo di Dio adunato nel nome della Santa Trinità. I Sacerdoti sono per vocazione «esperti di Dio» e per questo — nella preghiera e attraverso la preghiera — hanno un valido aiuto per rendere sempre viva la loro identità e rimotivare la loro missione, rendendo profetico il loro ministero della parola, degno il servizio della fede, fervorosa la loro carità pastorale»12. E quando, caro lettore, suo malgrado, le capiterà nuovamente di ascoltare una di quei milioni di omelie alle quali ogni domenica non è concesso di far perire la Chiesa la invito a non cedere alla tentazione di mettersi a recitare il Rosario mentalmente o, peggio ancora, di fuggire infastidito dalla chiesa nel bel mezzo della celebrazione. Piuttosto, terminata la proclamazione del Vangelo, dopo aver detto “Lode a te, o Cristo”, mentre si siede rivolga una breve, ma sentita invocazione allo Spirito Santo affinché «illumini la mente del sacerdote perché dica delle cose giuste e belle, e che apra il nostro cuore e la nostra mente a capire le letture, come ha fatto Gesù con i discepoli di Emmaus»13.

1 Ger 15,16
2 Ibidem
3 Congregazione per il Culto divino e la disciplina dei Sacramenti, Direttorio omiletico, 13
4 Ibidem
5 Ibidem
6 Direttorio omiletico, 14
7 Benedetto XVI, Esortazione apostolica “Sacramentum Caritatis”, 141
8 ibidem
9 Papa Francesco, Esortazione apostolica “Evangelii Gaudium”, 138
10 Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione “Sacrosantum Concilium”, 11
11 Papa Francesco, discorso alla plenaria della Congregazione per il Clero, 2014
12 Card. Dario Castrillon Hoyos, Lettera inviata ai presidenti delle Commissioni per il Clero delle varie Conferenze Episcopali in preparazione alla Giornata di Preghiera per la Santificazione dei Presbiteri 6 giugno 1997 – Festa del Sacro Cuore di Gesù.
13 G. Zaccaria “La Messa spiegata ai ragazzi”, Edizioni Ares, Milano 2018, 57.

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Fr. Alessandro Amprino, secondo i documenti proviene da Torino, città dove è nato l’8 aprile 1991. Tuttavia, coloro che lo conoscono meglio sanno che preferisce definirsi originario di Cumiana, piccolo paese del Piemonte apprezzato nel corso dei secoli dai tanti forestieri che soggiornandovi vi hanno trovato “buon’aria, buon vino e gente umana”. Nell’ottobre 2012 inizia il suo cammino di formazione alla vita religiosa e sacerdotale sulle orme di san Domenico. Studente di teologia, si interessa in modo particolare di Liturgia. Il 1 giugno 2019 è stato ordinato Sacerdote. Consapevole che la Sapienza è un lauto banchetto imbandito da Dio per il suo popolo ha servito tra i banchi della scuola media Sant'Alberto Magno di Bologna come docente di Religione.