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Aristotele diceva che la conoscenza rigorosa è «scire per causas», conoscere le cose seguendo la linea dei perché. Le cose si presentano come boccioli richiusi, che non lasciano vedere l’interno. È perché non sono esse la risposta: anzi sono altrettante domande. Sono le domande che ci fanno e le risposte che ci suscitano a guidarci alla risposta alla domanda che esse sono. Sapere che le cose stanno come stanno non è per noi un capire: vogliamo sapere perché.

Questo suppone che una volta giunti alla causa, essa sia capace di sprigionare una sensatezza tale non solo da rendere superfluo andare oltre, ma anche da strabordare su tutto ciò di cui è causa, fornendone il senso. Questa causa prima è ciò che il fenomeno religioso intende omaggiare col nome di “Dio”.

Ma che cosa vediamo noi nella lingua italiana? Certamente non – come forse per molti stranieri – solo la possibilità di ordinare delle pizze correttamente (il che comunque non è da sottovalutare). Perché conservare la lingua italiana? A cosa è utile? Per leggere Dante in lingua originale? Perché, la Divina Commedia serve a qualcosa? A che cosa? A far bella figura? A passare il tempo? A sviluppare il quoziente intellettivo per poi essere assunti da una grande azienda di marketing? Ad andare sulla luna? Forse; ma forse ci sono sistemi migliori, e più rapidi. No, non è niente di tutto ciò.

Dio prese del fango, pianse su di esso lacrime di commozione e poi vi alitò sopra la voce del suo canto infinito. Maria diede inizio alla musica, ed ecco spuntare nel suo svolgimento la voce nasale di Durante, il tono scazonte di Lissander, il timbro acuto di Giovanén1. Così Dio creò la lingua italiana. Perché ci piace tanto? Perché sa di casa, sa di vita: sì, di vita eterna! «Cantare favorisce il sistema immunitario, diminuisce lo stress, aiuta la respirazione e il rilassamento muscolare»: ma non si canta per questo, si canta perché cantare assomiglia alla mèta, assomiglia a ciò che ispira la vita, a ciò che ispira l’universo, assomiglia alla sapienza divina, assomiglia a una varietà infinita, alla coreografia dei pensieri di Dio, assomiglia a Dio. Per lo stesso motivo si parla italiano. Ci sono lingue molto più efficaci dell’italiano nel difendere il sistema immunitario.

Perché ci teniamo alla lingua italiana? Perché in essa vediamo Dio. Sì, ecco cosa ci affascina di essa, ecco perché per noi vale tanto, ecco che cosa ci vediamo: ci vediamo Dio. E Dio non serve a nulla, e proprio per questo è il senso di tutto. Lui, il Sommo Inutile. Quis ut Deus? Chi più inutile di lui?

Dio è più inutile di ciò che resta, più inutile di ciò che passa, più inutile dell’istante immaginario, più inutile delle variazioni cromatiche dell’asfalto, più inutile di qualsiasi passato dimenticato, più inutile di ciò che non vedremo mai, più inutile di ciò che vediamo sempre, più inutile di ciò che vi è di più inutile, o di più utile, o di più inutile ed utile assieme, più inutile dei consigli degli amici, più inutile dell’ora legale.

L’inutilità di Dio è diagnosticabile da due versanti: il primo è che non c’è nessuno che possa utilizzarlo – al massimo ci si può illudere di farlo –; il secondo è che non c’è nessun fine per cui possa servire, dato che non c’è nulla di superiore a Lui. Anche la Sua grazia, la Sua azione, la Sua rivelazione non ci recano altro vantaggio che coinvolgerci in ciò che Lui è: dunque Dio non ci serve a nulla, ma fa in modo che tutto – anche per noi – serva a raggiungere Lui. E non siamo noi a giovarci di Lui, ma Lui ad agire in noi. Né il nostro perfezionamento – il nostro raggiungerlo – è il fine di Dio: come sappiamo, tutto si compie e tutto Egli compie “per la Sua gloria”, una gloria che non viene accresciuta, ma in modo del tutto gratuito si diffonde. Dio è, in senso stretto, “fine a sé stesso”: anzi, è l’unico a esserlo veramente. La nostra felicità consiste appunto in questo: nel pieno coinvolgimento nella sua inutilità.

Dio non serve a nulla, è pura bellezza, è il viola che abbraccia questo verde, troppo utile (o inutile) per dare pace.


1 Con questi tre nomi si fa ironicamente un lombardo omaggio ad altrettanti giganti della letteratura italiana: Dante Alighieri, Alessandro Manzoni e Giovannino Guareschi.

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Lombardo, nato e cresciuto fra i rami del lago di Como, ha frequentato il liceo classico A. Volta di quella città, percorso comunicazione, dove ha imparato ad amare il greco – è un appassionato lettore dei vangeli nella loro forma originale – e le lingue in genere, non ultimo il proprio dialetto brianzolo. Ha poi recitato, all’età di 19 anni, il suo primo “Addio ai monti” per trasferirsi presso il Seminario ambrosiano di Seveso, ex convento domenicano e luogo in cui Carino da Balsamo col suo falcastro dava la morte a S. Pietro primo martire domenicano. Discernendo poi una chiamata più speciale, è entrato nell’Ordine dei predicatori. Ha emesso la sua prima professione religiosa il 3 settembre 2016. Baccelliere in filosofia, prosegue il suo studio della teologia. Per contattare l'autore: fr.stefano@osservatoredomenicano.it