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Corrette atrocità

A partire dall’8 settembre del 1966 il canale statunitense NBC iniziò a trasmettere la prima stagione di “Star Trek”, serie televisiva fantascientifica ideata da Gene Roddenberry1. Giunto in Italia nel 1979, il programma proponeva dei racconti di fantascienza, racchiusi in episodi da meno di un’ora di durata, inquadrati da una solida cornice narrativa. L’intento più evidente era di riprendere e portare in televisione le radici letterarie del genere fantascientifico americano, profondamente legato alla periodizzazione in riviste specializzate.

Nonostante questa sua origine popolare, e forse proprio grazie ad essa, Star Trek assunse sin da subito una forte connotazione sociale. I diversi episodi infatti, nonché la medesima cornice proposta, consentivano agli sceneggiatori di affrontare questioni e problematiche molto sentite, come il razzismo, il sessismo e la minaccia nucleare, protetti dalla finzione narrativa2.

In questa sede vorrei parlarvi del ventitreesimo episodio della prima stagione, dal titolo “A Taste of Armageddon”, diretto da Joseph Pevney e scritto da Robert Hamner; fu trasmesso per la prima volta negli USA il 23 febbraio del 1967 e in Italia, con il titolo “Una guerra incredibile”, il 17 gennaio del 1980. La trama è molto semplice: il capitano James T. Kirk e compagni sono costretti ad atterrare sul pianeta Eminiar VII, altrimenti precluso ai visitatori da altri mondi. Essi scoprono che la popolazione sta portando avanti, ormai da secoli, un conflitto nucleare con un mondo vicino, Vendikar. I due contendenti non si sono ancora autodistrutti perché i bombardamenti sono condotti in maniera virtuale: due calcolatori, uno per pianeta, simulano un vero bombardamento e, ricevuti i dati delle presunte distruzioni, comunicano la lista delle persone decedute. Per mantenere il tutto, la diligente popolazione si reca, in giornata, nella più vicina camera di suicidio, dove la morte giunge nel modo più asettico ed indolore possibile.

Inutile dire che l’eroico equipaggio dell’Enterprise scardinerà il sistema e ne mostrerà l’assurdità. Al di là tuttavia dello svolgimento narrativo, che non esce dai canoni dei prodotti d’avventura, ciò che è interessante è il messaggio lanciato. Kirk, in uno dei suoi lirici discorsi finali, mostra come un male tremendo, quale la guerra, risulti inaccettabile solo se visibile. Nel momento in cui invece viene spogliato di quegli elementi esteriori che lo rendono così aberrante, il male, nelle sue diverse forme, sfuma, quasi integrandosi nel paesaggio.
Ciò che l’episodio afferma, in un contesto storico di guerra fredda ed in riferimento alla minaccia nucleare, può essere, a mio parere, applicato ad ogni forma di male: è possibile che molte delle atrocità che tolleriamo si nutrano dell’asetticità con la quale entrano nella nostra quotidianità?

L’inevitabilità delle tenebre

La questione è tutt’altro che oziosa. È un fatto che il rifiuto, individuale e sociale, verso situazioni ed azioni ingiuste nasce, prevalentemente, dal contatto diretto con gli effetti delle stesse. Solo nel momento in cui la sofferenza, prima e più tragica conseguenza del male, tocca le nostre vite, allora ci accorgiamo di quanto intollerabile sia il male stesso.

L’episodio in questione tuttavia va anche più a fondo. Analizzandolo con attenzione, ci accorgiamo che gli abitanti dei due mondi, anche solo nel perdere una persona cara, sono immersi nel dolore, eppure non vi si sottraggono. Significativa è la facilità con cui i nostri eroi scardinano l’intero sistema, sintomo del fatto che solo una sorta di apatia morale ha permesso a quel male di sussistere. Facendo quindi un ulteriore passo in avanti, possiamo concludere che anche la sofferenza è, in se stessa, insufficiente a generare una reazione che non sia solo occasionale. Troppo facilmente infatti essa diviene un tremendo elemento dello sfondo, qualcosa che fatalisticamente accettiamo come inevitabile. È in quel momento che il male, nelle sue differenti forme, riesce ad annidarsi nelle nostre vite, fingendosi inevitabile come l’alba.

Questa apatia tuttavia non nasce dal nulla, bensì ha origine nella mancanza di speranza. Provate, per esempio, a pensare alla fame nel mondo: all’iniziale e sdegnato rifiuto, inevitabile di fronte allo scempio che provoca nei deboli, segue la mesta considerazione che nulla possiamo fare per debellarla del tutto. Magari, dopo averla accettata come ineliminabile, potremmo pensare di fare la nostra parte sconfiggendola nella vita di un singolo, o di pochi; tuttavia, nella maggior parte dei casi, anche questa risoluzione non supera qualche intervento marginale perché, ci diciamo, come potremmo noi, miseri e colmi di problemi, farci davvero carico della vita di un altro?

La luce della croce

Da questa breve, e certamente semplicistica, analisi possiamo concludere che per poter sperare di affrontare il male, in noi e nel mondo, sono necessarie due premesse: la diretta esperienza della sofferenza che provoca e la speranza, pur flebile, di poter contribuire alla sua sconfitta. Simili condizioni sono ardue per tutti, tanto che non facciamo fatica ad attribuire l’appellativo di eroe a chi riesce a farle proprie.

Eppure per il cristiano esse dovrebbero essere estremamente semplici da rintracciare. Chi infatti abbia trovato e trovi in Cristo la sua vita è costantemente chiamato a tenere lo sguardo fisso sul crocifisso e, in quei tremendi momenti di sofferenza, scorgere tutto l’intollerabile prezzo che il Signore ha pagato per le nostre colpe. Come c’insegnano grandi santi, fra cui non ultimi san Domenico da Caleruega e san Francesco d’Assisi, l’edificazione propria del pregare di fronte a Gesù inchiodato sulla croce non sta solamente nell’emotiva partecipazione alle sofferenze patite, ma anche, e maggiormente, nel contemplare, riflessi in quel legno, i frutti di dolore delle nostre colpe, quei pomi amari che con tanta facilità rifiutiamo.

Tuttavia, il cristiano che si fermi a contemplare il crocifisso non vi troverà solo terribili patimenti, ma anche speranza. La croce è trono di gloria, e questa sua natura ha una preminenza, non cronologica ma di perfezione, sul suo essere patibolo. In Gesù morente e morto il credente scorge già la speranza della Risurrezione, di quella Pasqua di salvezza nella quale ogni male trova la sua fine.

La contemplazione, silenziosa e paziente, del sacrificio di Cristo ci consente di scorgere come in esso non sia racchiusa solo la vittoria finale, ma anche le condizioni perché quel male, che normalmente accoglieremmo con servile accettazione, venga visto per ciò che è: inaccettabile tumore della nostra esistenza.

Purtroppo Star Trek è, nel pensiero e negli orizzonti, molto vicino a posizioni atee, tanto che anche il discorso di Kirk ai leader dei due mondi ha, come fonte di speranza, solo un’indistinta grandezza dell’uomo. Il credente non può non scorgere la fragilità di simili posizioni e, al contempo, riesce forse ad immaginare cosa avrebbe detto trovandosi al posto dell’intrepido capitano: «Non perseverate, fratelli, in questa lotta, perché la guerra e la morte non sono inevitabili. Rifiutatele, con fermezza e coraggio, perché di fronte al loro potere non ci siete voi, con la vostra debolezza, ma Colui che ha vinto il mondo».


1 Tutte le informazioni sulla serie e sugli episodi sono reperibili alla pagina Wikipedia dedicata, da me consultata il 26/03/2021; riporto di seguito il link: https://it.wikipedia.org/wiki/Star_Trek_(serie_televisiva).

2 Non solo l’equipaggio di plancia dell’Enterprise è un perfetto esempio di multietnicità, ma gli stessi contenuti furono all’epoca molto all’avanguardia. Basti pensare all’episodio della terza stagione “Plato’s Stepchildren”, del 1968, che contiene una delle primissime scene televisive di bacio interrazziale fra un uomo bianco (Kirk) ed una donna di colore (il tenente Uhura).

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Quando il Signore mi venne a cercare, la mia mente vagava confusa nei caldi spazi dell’inedia, talmente carica di nulla da non poter portare altro con sé. Il mio corpo invece si preparava ad un indefinito inverno nella città di Ancona, gioiello del medio Adriatico (si fa per dire). Nella patria del pesce e del “mosciolo”, per un leggiadro scherzo della Provvidenza, sono nato quasi trentadue anni fa con una sentita inimicizia fra me e qualunque carne marina. La chiamata del Signore mi vide studente in storia ed appassionato consumatore di storie: racconti di tutti i tipi e narrati da aedi di tutte le arti. Ora che lo Spirito mi ha indirizzato nella famiglia di San Domenico ho posto questo mio nulla nelle mani della Vergine Maria e del caro Castigliano e chiedo loro quotidianamente di mostrarmi in ogni storia, vera o immaginaria, la traccia del Divino che lì soggiace. Ora che sto a Bologna studio come studiando rendere omaggio a Dio. Per contattare l'autore: fr.giuseppe@osservatoredomenicano.it