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Prima di tutto, non si tratta di un libro per specialisti delle icone o appassionati delle icone. Non si tratta infatti di affrontare un tema, come potrebbe essere quello dell’arte, marginale nella vita cristiana, quasi a volergli trovare a tutti i costi un posto, un senso in rapporto alla teologia. Anzi, quello che il libro documenta è proprio come nella questione delle icone – e in particolare dell’icona di Cristo – si giochi in realtà l’alternativa tra l’“intendimento” e il “fraintendimento” del cristianesimo nella sua essenza. Non a caso, questa questione, che fu l’oggetto principale di uno dei grandi concili ecumenici (il Niceno II, nel 787), non venne affrontata minimamente né da un punto di vista estetico né da un punto di vista disciplinare, ma esclusivamente come questione dogmatica, quale essa è. Il punto è che la fede nel Verbo incarnato, che noi adoriamo, «non viene – così sintetizza Schönborn il pensiero dei padri – soltanto dall’udito ma si imprime anche mediante la vista nel cuore di coloro che contemplano Cristo»1. E questo a causa della sua «natura di Verbo incarnato» – così direbbero i copti – o, meglio, della sua «ipostasi composta»2.

Così la questione dell’“icona di Cristo” si rivela in realtà come una questione su chi è Gesù Cristo. Il punto è più che altro che ruolo ha l’umanità nella persona di Gesù Cristo. Una prima posizione sosterrebbe – neo-platonicamente – che l’umanità, e ancor di più la corporeità, siano semplicemente il male in cui il Verbo si sarebbe immerso per potercene strappare. Un’altra posizione, un po’ più moderata, intende l’umanità come un semplice mezzo, di per sé neutro, per condurci altrove. Questa posizione, per quanto sottilmente convincente, è in realtà – mostra Schönborn sulla scia di autori come san Cirillo di Alessandria, san Massimo il Confessore, san Germano di Costantinopoli, san Giovanni Damasceno, san Niceforo di Costantinopoli, san Teodoro Studita – incompatibile con la reale unità personale delle due nature in Cristo. Infatti, come ha aiutato a far emergere la disputa iconoclasta, «secondo l’umanità, che è divenuta visibile nella persona come umanità individuale, è circoscritta la persona di Cristo» (parole di san Teodoro Studita)3.

L’imperatore Costantino V, infatti, poneva come argomentazione della sua tesi iconoclasta, poi fatta approvare da un impressionante sinodo di vescovi nel 754, quella secondo cui la persona di Cristo sarebbe stata incircoscrivibile, perché di lui sarebbe stato possibile circoscrivere l’umanità in quanto finita, ma non la divinità: in questo modo coloro che producevano e veneravano le icone dovevano ammettere o di separare l’umanità dalla divinità in Cristo, rappresentando solo la prima, o di concepire le due nature come mescolate e confuse tra loro (due eresie già solennemente condannate dai concili precedenti). In realtà, la risposta ortodossa, che emerse in modo teologicamente soddisfacente solo dopo il secondo concilio di Nicea, in occasione di una nuova ondata di iconoclastia imperiale, colse nel segno chiarendo che l’icona non solo non vuole rappresentare, ossia circoscrivere, la natura divina, ma neanche la natura umana, che rimane anch’essa incircoscrivibile, e perciò irrappresentabile, in quanto tale. È, dice sempre Teodoro, «la persona dell’eterno Verbo […] [a dare] in sé stessa sussistenza alla natura umana con tutte le sue qualità che la distinguono dagli altri uomini»4. Cioè, è solo nell’ipostasi, nella persona, che la natura umana riceve la sua individuabile concretezza.

Questo vuol dire non solo che la persona di Gesù Cristo è rappresentabile, e senza alcuna separazione, dato che l’unità è garantita dall’unione di fatto delle due nature in Cristo, ma vuol dire anche che l’intera rivelazione di Dio, che risiede nel Verbo, passa attraverso i tratti individuali della sua precisa umanità. Per questo, secondo i padri, il rifiuto delle icone è rifiuto di Cristo, cioè rifiuto di Dio per come si è dato a conoscere tramite la sua economia salvifica, vuol dire rifiutare la salvezza, rifiutare la verità e chiudersi nella vera idolatria, quella della superbia.

Quindi, è impossibile rapportarsi con Dio senza passare attraverso il divinamente umano amore di Cristo, che si dà a conoscere e ad accogliere nelle determinazioni della sua concreta umanità. Un Cristo ridotto a mero concetto anaffettivo non salva: l’immagine dell’adorabile volto di Cristo ci è necessaria. Questo libro ti può fornire le argomentazioni forti per difendere la dimensione affettiva, oltre che concettuale, del tuo rapporto con Cristo. Inoltre, può esserti utile se vuoi convincere il tuo parroco a rendere meno iconoclasta l’edificio parrocchiale.

Un libro non per imparare a fare le icone, ma per imparare a diventare icone di Cristo.

L’icona di Cristo
Christoph Schönborn
Edizioni San Paolo
250 pagine
14,00 €


1 Christoph Schönborn, L’icona di Cristo, San Paolo, Cinisello Balsamo 2003, p. 162

2 Tommaso D’Aquino, Summa theologiae, III, q. 2, a. 4, ESD, Bologna 2013, p. 49

3 Cfr. Ch. Schönborn, Op. cit., p. 199

4 Cfr. Ivi, p. 198

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Lombardo, nato e cresciuto fra i rami del lago di Como, ha frequentato il liceo classico A. Volta di quella città, percorso comunicazione, dove ha imparato ad amare il greco – è un appassionato lettore dei vangeli nella loro forma originale – e le lingue in genere, non ultimo il proprio dialetto brianzolo. Ha poi recitato, all’età di 19 anni, il suo primo “Addio ai monti” per trasferirsi presso il Seminario ambrosiano di Seveso, ex convento domenicano e luogo in cui Carino da Balsamo col suo falcastro dava la morte a S. Pietro primo martire domenicano. Discernendo poi una chiamata più speciale, è entrato nell’Ordine dei predicatori. Ha emesso la sua prima professione religiosa il 3 settembre 2016. Baccelliere in filosofia, prosegue il suo studio della teologia. Per contattare l'autore: fr.stefano@osservatoredomenicano.it