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Avessi avuto una pipa, ne avrei certamente rosicato il beccuccio, rannuvolando i miei pensieri di un buon tabacco, così, gettandomi in vestaglia (magari di velluto) dentro un grembo di poltrona. Ci sarebbe voluto anche un po’ di penombra, un camino, quel baluginio di fuoco che si diverte fra i ceppi e che concilia qualsiasi pensiero o sogno in tarda sera… ma in effetti non avevo né una pipa, né una vestaglia, né un camino (per altro non fumo), soltanto una domanda…

Temi tu la morte?” [Davy Jones]. Beh, così d’istinto, diciamo che non ci farei le vacanze insieme, insomma…Vi immaginate? In spiaggia con la Morte… Tuttavia, si voglia o non si voglia, un viaggetto senza ritorno con lei bisogna proprio farselo. Questa è l’amara verità, che ci è stata data “la vita in prestito, come danaro, senza fissarne la scadenza. […] A tale condizione tu l’avevi ricevuta” [Cicerone, Discussioni Tuscolane I, XXXIX, cur. Nino Marinone, utet, Torino 2014, p. 511]. Non che alla nascita abbia avuto proprio tutto il tempo per limare i dettagli di un simile contratto, però, in effetti, sotto quest’ottica la domanda diviene tremendamente pertinente. Temi tu la morte? Come la restituirai, questa vita? Usata? Lo spero. Sciupata?

La promessa di Davy Jones

Ma un regista come Gore Verbinski, autore dei primi film de I Pirati dei Caraibi, non attribuisce una parola così rilevante ad un personaggio qualunque. Anche perché essa tira i fili dell’intera trilogia: lo scenario della saga, in bilico fra ironia ed epicità, è un continuo rivolgimento di trama fra uomini che cercano a diversi titoli la medesima cosa: Jack Sparrow brama la vita eterna, William Turner e Elisabeth Swan un amore eterno, Barbossa una ricchezza che non si esaurisca e tutto ciò in uno sfondo inneggiante l’ideale piratesco della libertà. Tuttavia ad essi si oppone lo stesso limite, sebbene con diversi volti: l’obbiezione all’eternità porta il nome di morte. E quindi a quella di libertà: perché, se il cuore dell’uomo tende all’eterno, che significato ha esseri liberi senza un desiderio da realizzare, senza la possibilità per farlo? Lo spessore della libertà, infatti, è il desiderio.

Gore Verbinski
Foto di Drew Gurian/Invision/AP

Ed è qui che subentra Davy Jones: un corsaro degl’abissi, una figura centaura, con una chela di granchio per braccio ed il volto di piovra. Il suo vascello fantasma è il leggendario Olandese Volante. Ecco, l’unico personaggio che abbia un’alternativa al morire: “Temi la morte? Temi l’idea dell’oscuro abisso? Ogni tua azione scoperta, ogni tuo peccato, punito! Io ti posso offrire uno scampo!” La ‘salvezza’ in cambio di 100 anni di schiavitù sulla sua nave. Tuttavia chi è costui, capace di ingannare la tomba?

Chi, Davy Jones, sarebbe dovuto essere?

Il film ci rivela che fu un uomo, non uno qualunque, in effetti, ma un pirata antico, capace di essere l’amante di una dea pagana, Calipso. Egli è, dunque, un pirata al pari del grande Ulisse. Ma chi sia fino in fondo non ci viene rivelato. Soltanto: “Molte cose sei stato, Davy Jones, ma mai crudele. Tu hai corrotto il tuo compito… e corrotto te stesso, e hai nascosto a me ciò che per sempre doveva essere mio” [Tia Dalma]. Curioso, lui è il capitano, da caput in latino, cioè capo, dalla cui caduta la caduta di tutta la ciurma che ne condivide i lineamenti bestiali e la natura ferita… Vista così pare quasi un rimando al peccato originale, quanto meno un’allusione che chiederebbe un’analisi del peccato di Davy Jones, un peccato, guarda caso, d’amore… Ma ora ci porterebbe fuori dal nostro intento: la massima della strega Tia Dalma dice qualcosa di profondissimo. Se la corruzione del compito è corruzione di sé, identità e vocazione coincidono. Noi siamo anzitutto ciò che siamo intimamente chiamati ad essere.

Così il grande pirata ha cessato di traghettare le anime morte in mare verso l’al di là, per rapirle all’oceano e arruolarle. Curioso… ogni singolo membro della ciurma fantasma dell’Olandese, come il suo capitano, è un ibrido, metà uomo, metà pesce. La perdita progressiva di umanità trasforma prima in bestie, poi in oggetti inanimati. Ecco l’esito del motto dell’Olandese Volante: “Parte della nave, parte della ciurma”. Ma non va preso in senso metaforico. I marinai più antichi diventano un tutt’uno con il legno del vascello, fusi con esso ne condividono l’identità: da bestie che erano, sono ridotti a cose. Ecco il risultato della corruzione.

Scegliere la morte in odio alla morte

Ma per comprendere davvero questa conseguenza bisogna tornare alla figura di Davy Jones. Qual era il suo compito? Traghettare le anime dei morti in mare. In effetti… sa un po’ di citazione: “Ed ecco verso noi venir per nave / un vecchio, bianco per antico pelo, / gridando: «Guai a voi, anime prave!»” [Dante, Inferno, Canto III, vv. 82-84].  Il rimando ad un clima infernale è schietto e non ad uno qualunque, ma a quello della Divina Commedia. Cosa che si rinforza con l’ambientazione bestiale che anima la nave: quell’inquietudine salsa e corrosiva della disperazione e il nome stesso del capitano, Davy, che è un diminutivo di David, ma curiosamente ambiguo rispetto al più classico Dave, perché assonante con devil, cioè diavolo.

Dante. Virgilio sulla barca di Caronte
Dante e Caronte

A questo punto non può passare inosservato che la ciurma divenga piano piano fagocitata dalla nave. Ora, qual è punto della Divina Commedia dove le persone diventano legno? Il canto XIII dell’inferno, che guarda caso è quello dei suicidi, i quali crescono come spenti alberi in una fitta selva di involucri legnosi. Ecco come si chiude il cerchio, ecco il potente messaggio iscritto nella figura di Davy Jones: tradire il proprio compito, la propria vocazione, non è solo corrompere se stessi, ma suicidarsi.

I cannot rest from travel: I will drink / Life to the lees… [Alfred Tennyson, Ulysses]

Se è vero questo, l’alternativa alla morte, che il mefistofelico corsaro offre, è una menzogna della morte stessa: ed è da qui che i miei piccoli ingranaggetti mentali hanno iniziato a frullare vorticosamente… In effetti una vera citazione artistica non è mai ripetizione, ma variazione: il vegliardo infernale dantesco diviene nocchiero dei dannati, perché ha corrotto il suo compito, quello di angelo. Se, infatti, è detto dimonio [Ivi, v. 109], è stato prima angelo. Come angelo sarebbe dovuto essere araldo dell’Eterno Padre, come angelo avrebbe dovuto guidare le anime al cielo. Ora, invece, le traghetta nell’abisso. Al contrario, Davy Jones è divenuto mostruoso, perché ha smesso di farlo.

Le prospettive sono totalmente invertite, il che mi suggerisce che bisogna invertire la nostra comprensione del concetto di morte. La domanda di Davy Jones è: “Temi tu la morte?” E chi non la teme? Tuttavia, se proprio la sua paura della fine lo ha reso mostruoso e spaventoso, forse la morte non è così spaventosa e mostruosa com’egli suggerisce. Al contrario, lo è sfuggirle. Dunque, che cos’è la morte nei Pirati dei Caraibi? Mi colpisce una scena: nel pieno della tempesta, dove il gorgo voraginoso inghiotte ogni cosa [immagine molto plastica di ciò che comunemente intendiamo come morte], il capitan Barbossa contro ogni aspettativa fionda l’agile Perla Nera verso l’occhio del ciclone. Nel grembo marino dell’impeto si scontra con il vascello di Davy Jones, guarda caso, compiendo il contrario di ciò che questi intima: “Temi tu la morte?”. Barbossa non la teme, perché? “È il giorno della morte che dà alla vita il suo valore” [Barbossa].

Ecco cos’è la morte per I Pirati dei Caraibi: non è la cessazione dell’esistenza, ma è l’epilogo senza il quale la vita non ha valore. La morte, dunque, è ciò in cui l’esistenza acquisisce senso. Allora la domanda di Davy Jones muta considerevolmente: “Temi tu la morte” non significa affatto “Temi tu il nulla”, perché essa non è nulla per I Pirati dei Caraibi. Infatti, l’annullamento livella tutto, ammanta tutto, il corsaro leggendario è lucidissimo nel dire che la morte scopre tutto. È, perciò, il contrario. “Temi tu la morte?” significa, dunque: “Temi tu il tuo senso?” Sottrarsi al senso dell’esistenza non è forse suicidarsi?

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Chi sono? In verità non ne so molto più di voi. Del resto, vivo anche per scoprirlo. Ma giustamente chi legge questo genere di presentazioni, si attende una sfagiolata di dati anagrafici. Essia! Sono nato all’Ospedale Maggiore di Bologna quel glorioso 9 settembre del 1994 (glorioso per ovvie ragioni). Chi non mi ha mai veduto senza barba, ipotizza che mi trassero dal ventre di mia madre proprio tirandomi dalla barba… inquietante, ma non smentirò questa leggenda. Frattanto in questi 25 anni di vita ho frequentato il liceo scientifico Malpighi, mi sono appassionato a Tolkien, alla Filosofia, alla Poesia medioevale e novecentesca, infine alla cinematografia, su cui amo diffondermi in raccolte meditazioni crepuscolari. Cosa ho compreso saldamente? Ad una sola vita, un solo modo per viverla. Per questo appena conseguita la maggiore età, ho fatto domanda di entrare nell’Ordine dei Frati Predicatori. Attualmente mi nutro di studi di San Tommaso, di spiritualità e di metafisica (sto affrontando un densissimo filosofo Polacco, Przywara … la pronunciabilità del nome è direttamente proporzionale alla sua chiarezza). Per contattare l'autore: fr.pietro@osservatoredomenicano.it