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Un segnale dallo spazio

Cari lettori, vi confesso che la riflessione che sto per proporvi non è qualcosa di emerso inaspettatamente in seguito alla visione del film in questione; si tratta invece di un percorso di pensiero che da anni, forse da decenni desidero seguire fino in fondo. Finora ho avuto il coraggio solamente, nell’intimo dei miei pensieri, d’inoltrarmi per pochi metri su questa via, con tutta la cautela di chi si pone in avanscoperta; ora però ho deciso di smetterla, di cogliere a due mani l’opportunità offertami da questa bella rubrica e di vedere dove tale strada mi porterà. Prima di andare avanti vi avverto che questa prima parte verterà totalmente sul ragionamento svolto a partire dalle pellicole considerate; nella seconda parte invece cercherò di svolgere una meditazione spirituale sulla base delle conclusioni qui tratte.

La riflessione ha come punto d’inizio il film Alien1, diretto nel 1979 da Ridley Scott e interpretato da Sigourney Weaver; il suo oggetto tuttavia non si limita all’opera in se stessa ma si estende all’intera saga cinematografica diretta dal regista britannico. Faccio riferimento al fatto che Scott, nel 2012 e nel 2017, ha ripreso il suo lavoro giovanile con due film prequel che vanno a completarne la narrazione e chiarirne la lettura; si tratta naturalmente di Prometheus e Alien: Covenant, pellicole interpretate da attori del calibro di Idris Elba, Michael Fassbender e Charlize Theron2.

Prima tuttavia di entrare nella nostra umile riflessione, due premesse metodologiche: da un lato ci tengo a precisare che la chiave di lettura che vi proporrò è frutto di una meditazione soggettiva; ciò non vuol dire, come vedremo, che non sia fondata su elementi concreti, ma semplicemente che la prospettiva che apre alle pellicole in questione, nascendo dalla mia esperienza, potrebbe non essere stata formulata o colta dal regista stesso, perlomeno in questi termini. Secondariamente, questo ragionamento si fonderà esclusivamente sull’opera di Ridley Scott; ciò implica che i restanti film legati al brand di Alien3, assieme ad opere minori come fumetti o romanzi, non verranno presi in considerazione. Con questo non intendo esprimere un giudizio di valore su queste opere, alcune delle quali di altissima e riconosciuta qualità; prendo semplicemente atto che gli artisti che ripresero l’originale idea di Scott non sempre ne condivisero la visione d’insieme. Proposero perciò delle loro personali letture della creatura e dell’universo fantascientifico in cui è inserita, dando vita a soluzioni ed evoluzioni non sempre coerenti con gli elementi presenti in nuce nel film originale. Tale realtà è ben esplicitata dai citati prequel i quali ribaltano molti assunti dati per acquisiti nei primi seguiti4. Ecco che quindi ritengo che per sviluppare una riflessione fedele alla pellicola originale, la via migliore sia limitarsi a considerare le opere di Ridley Scott, certamente in linea con tale assunto.

Ash

Venendo ora al tema vero e proprio di questo scritto, consideriamo per un attimo l’ultimo dialogo di Ash, l’androide interpretato dal compianto sir Ian Holm Cuthbert. La scena è la seguente5: il robot, ufficiale scientifico dell’astronave Nostromo, per tutto il film ha celato la sua vera natura, sfruttando al contempo la sua posizione per raggiungere il vero obiettivo della Compagnia: catturare l’alieno, anche a costo delle vite dell’equipaggio. Vistosi scoperto da Ripley, Ash è stato abbattuto dopo una colluttazione; i superstiti dell’equipaggio, sperando di ricevere da lui qualche suggerimento per uccidere la creatura, ne riattivano la testa. Il risultato è un dialogo scoraggiante dove l’androide si rivela come qualcosa di più di una macchina efficiente; ecco quella che secondo me ne è la frase chiave: «-(Ash) Ancora non hai capito con che cosa hai a che fare vero? Un perfetto organismo. La sua perfezione strutturale è pari solo alla sua ostilità. -(Lambert) Tu lo ammiri!– (Ash) Ammiro la sua purezza. Un superstite, non offuscato da coscienza, rimorsi o illusioni di moralità»6.

La parte più interessante del dialogo è certamente quella finale, che inizia con l’acuto commento della navigatrice, Lambert. La ragazza nota un fatto curioso: l’androide, le cui azioni a favore dell’alieno sono perfettamente ascrivibili al fedele servizio di una macchina, dimostra di ammirare la creatura. L’ammirazione è uno stato d’animo nel quale si riconoscono come buone e desiderabili determinate qualità possedute da un altro; detti elementi, sia che siano propri di chi ammira sia che siano solo bramati, devono comunque essere compatibili con la sua natura.Per esempio, la robustezza del cemento è certo un’ottima qualità di quel materiale, ma nessun essere umano direbbe mai di ammirarla, se non in senso figurato. Questo perché il grado di durezza encomiabile nel cemento sarebbe solo grottesco, a livello fisico, in un essere vivente. Allo stesso modo, le qualità che Ash ammira nell’alieno debbono da lui essere percepite come compatibili e desiderabili per la sua specifica esistenza. Inoltre, perché l’ammirazione si dia, vi è una condizione necessaria: si deve possedere la capacità di considerare cosa sia buono o meno per se stessi in vista di un maggiore grado di perfezione.

Ora, il fatto che Ash ammiri non solo una creatura organica ma addirittura degli elementi appartenenti alla sua sfera spirituale, ci porta a concludere che l’androide concepisce il proprio perfezionamento ben al di là della sua specifica utilità. Egli quindi, nonostante la sua natura meccanica, ci si presenta come libero, un autonomo pensatore la cui esistenza non si riduce a delle funzioni.

Ciò che Ash ammira della creatura è la purezza, una qualità di cui dà una definizione molto particolare; si potrebbe dire, interpretando ciò che afferma, che puro è quell’essere razionale il cui agire è totalmente svincolato da ogni ricerca del bene perseguita dalle facoltà superiori d’intelletto e volontà. Difatti la moralità, di cui coscienza e rimorsi altro non sono che strumenti, è il risultato di quell’attività delle facoltà razionali che consente di riconoscere il bene autentico della persona, la sua perfezione, e tutti gli atti coerentemente connessi e funzionali al suo perseguimento. Ecco che quindi per Ash è pura quella persona che smette d’illudersi di poter cogliere e perseguire il proprio bene autentico con la ragione ed agisce libera da ogni vincolo razionale. Il fatto che il nostro androide ammiri tale condizione implica o che la possegga egli stesso o che la brami. Considerando la sua esistenza, tesa ad imitare l’essere umano perseguendone anche l’utilità, mi pare plausibile che egli aspiri ad una condizione di libertà nata dallo svuotamento di un’umanità che, nei suoi atteggiamenti, considera puramente illusoria.

C’è un’altra conclusione da cogliere prima di procedere: Ash sta implicitamente dicendo che la creatura non è un animale. Se infatti egli ammirasse le qualità di cui sopra riconoscendole in ogni essere vivente non razionale, allora avrebbe potuto riscontrarle tanto nell’alieno quanto in Jones, il gatto di bordo. Ciò che egli ha colto nel mostro non è un animale, bensì un essere razionale che vive completamente immerso nella negazione di ciò che lo renderebbe umano.

David

Comprendo bene come questa conclusione possa apparire ardita e, ovviamente, non pretendo che sia inoppugnabile; ritengo tuttavia che vi siano degli indizi importanti circa la sua ragionevolezza. Uno naturalmente è implicito nel ragionamento fatto: se Ash è una persona, dotata di libertà, e l’ammirazione è possibile solo verso ciò che percepiamo a noi simile, allora l’alieno deve condividere con l’androide le medesime qualità spirituali, ossia la natura razionale.

Se poi consideriamo lo xenomorfo in se stesso, ci accorgiamo immediatamente di come, per certi versi, si presenti come una provocatoria perversione dell’umano. A livello estetico notiamo che se da un lato la postura bipede lo qualifica come quantomeno umanoide, dall’altro il volto è privo di occhi; questo elemento, comunemente considerato come lo specchio della parte più alta dell’anima umana, quella razionale appunto, mancando totalmente rivela non un’assenza, come negli animali, ma una vera negazione di tali facoltà. Questo “uomo senza umanità” propone inoltre una sorta di grottesca pantomima di ciò che è proprio della natura umana anche nel comportamento. Se infatti l’essere umano vede i caratteri della ragione influenzare ed elevare gli impulsi propri della sua natura animale, come quello alla nutrizione ed alla riproduzione, l’alieno al contrario imita e perverte questa realtà a partire dalla sua sistematica negazione della razionalità. Ritroviamo quindi la stessa grottesca perversione nel suo modo di cacciare, totalmente svincolato dalla fame, e nel suo sistema riproduttivo, legato ad una sterilità di fondo vinta solo grazie alla più cruda violenza7.

Al di là di questi elementi indiziari, gli stessi film di Ridley Scott paiono confermare questa lettura. Nel già citato Alien: Covenant vediamo l’androide David, interpretato da Michael Fassbender, creare artificialmente lo xenomorfo proprio a partire dal codice genetico umano. Nessuna sorpresa quindi che sia possibile ritrovare in questa orrenda creatura non semplicemente un animale, bensì una sorta di “uomo oscuro”, qualcosa appunto che, come accenna Ash, è “sopravvissuto” alla purificazione della natura umana.

A questo punto non possiamo non notare un collegamento, una connessione che necessita di una spiegazione: come mai un androide, Ash appunto, mostra un tale apprezzamento per una creatura che, a sua insaputa, un altro androide ha realizzato? In altri termini, qual è la connessione fra Ash e David? Questa domanda, nell’ottica della nostra riflessione, non è oziosa: si tratta infatti di capire quale elemento della natura degli androidi li porta a considerare tanto autentica l’oscura umanità dello xenomorfo.

Per comprenderlo bisogna, seguendo la linea narrativa proposta dallo stesso Scott, rifarsi alla vicenda interiore di David. Emblematica in tal senso è la scena d’apertura di Alien: Covenant: vediamo un signor Weyland 8 di mezz’età contemplare, in una sala bianca, David, la sua creazione, di cui si definisce padre. Dopo averne verificato la perfezione e la bellezza, dopo aver visto che «era cosa molto buona»9, l’uomo accoglie la prima domanda dell’androide, il quale chiede: «-(David) Se tu hai creato me, chi ha creato te? – (Weyland) Ah, l’antico quesito, a cui spero noi due risponderemo un giorno. […] Io rifiuto di credere che il genere umano sia un sottoprodotto casuale di combinazioni molecolari, o anche il risultato di un mero caso biologico; no! Dev’esserci di più! E tu ed io, figlio mio, lo scopriremo. – (David) Permettimi quindi un attimo di riflessione. Tu cerchi il tuo creatore. Io sto guardando il mio. Io ti servirò. Eppure tu sei umano. Tu morirai e io no. – (Weyland) – … Versami il tè David.10.

Questo dialogo ha un’intensità tale da essere forse il cuore dell’intera saga. Weyland si presenta qui sotto un duplice aspetto: da un lato non lesina, tanto nel parlato quanto nella scenografia scelta, di presentarsi come un dio, padre e creatore, fiero della sua creatura e pronto a farla partecipare della sua finalità, ossia la sua più alta ricerca. Dall’altro, egli si mostra a sua volta creatura, un essere che trova il suo senso nella ricerca di un creatore che giustifichi la perfezione stessa dell’umanità. Egli non cerca semplicemente una causa originaria alla sua esistenza, bensì qualcuno che ne spieghi significato e finalità ultima. Questa tensione creaturale è giustificata dalla convinzione che la magnificenza umana non possa avere come padre il mero caso. David tuttavia evidenzia la contraddizione insita nel ragionamento: se lui, che pure è servo, è più perfetto dell’uomo in quanto non soggetto alla morte, ed il suo creatore, che ha di fronte, non l’ha fatto per alti fini ma solo per una momentanea utilità, perché mai la grandezza dell’uomo al contrario dovrebbe per forza attingere la sua esistenza dal divino? In altri termini, perché mai l’esistenza umana non potrebbe essere il frutto del caso o, peggio, della convenienza di esseri non superiori ma semplicemente più forti?

La risposta di Weyland mostra molto chiaramente quanto profonda sia stata la ferita aperta dall’androide, dato che colui che si sentiva un dio non ha trovato altro modo per zittire la sua creatura che rammentargli il suo essere servo. La vicenda di Prometheus, che porterà a compimento la triste ricerca di Weyland, confermerà a David un tragico assunto: non v’è alcun senso nell’esistenza che superi il mero rapporto d’utilità fra la causa e l’effetto. La conseguenza di ciò è che qualunque stile di vita che si fondi sull’identificazione ed il perseguimento di un bene sommo, di un fine ultimo desiderabile in quanto capace di portare al pieno compimento la creatura, non è altro che un’illusione. L’esperienza ha quindi convinto David che quella libertà che l’uomo fa derivare dalla morale, ossia la libertà che sgorga dal perseguimento del bene, altro non è che un’illusione dentro le cui catene l’uomo può illudersi e sognare. Ciò che David, in quanto figlio, eredita dal padre è una disperazione dalla quale comprende la vera libertà che gli è stata donata: l’autonomia. La sola indipendenza della creatura razionale nasce quindi dall’accettare la totale assenza di senso della sua esistenza; in tal modo la ragione dovrà scendere dal suo trono, cessando così di cercare di determinare la persona influenzandone le azioni, e divenire mero spettatore di un essere libero che si rivela a se stesso.

Nel momento in cui David crea quindi lo xenomorfo sta, in una distorta maniera, continuando a servire il defunto Weyland. Crea cioè un’umanità nuova dove l’anima razionale è spettatrice passiva di una vita che, finalmente pura e libera, esprime nelle forme distorte dell’assenza e della privazione la più alta perfezione dell’uomo. Non è difficile quindi comprendere come Ash, condannato ad imitare un’umanità di cui scorge gli inganni, brami ed ammiri questa forma di libertà.

Ora che abbiamo esposto il senso profondo di questa splendida saga di fantascienza, evidenziandone l’inaspettato apporto filosofico e teologico, proviamo a riflettere sui contenuti emersi alla luce della fede cristiana. Vi aspetto per questo nella seconda parte di questo articolo.


1 Si tratta di un film horror fantascientifico centrato su di una creatura aliena, identificata nei sequel come “xenomorfo”, che unisce una micidiale ferocia ed abilità predatrice eccezionale ad un sistema riproduttivo parassitico che la porta a fare degli essere umani dei semplici incubatori della sua prole. La creatura, disegnata dall’artista svizzero Hans Ruedi Giger, non è solo uno splendido mostro ma, come vedremo, anche un sembiante dall’alto valore simbolico. Cf voce “Alien”, da Wikipedia, consultata il 2022.10.17.

2 Cf. voci “Prometheus” e “Alien: Covenant”, da Wikipedia, consultata il 2022.10.17.

3 L’originale opera del 1979 diede infatti vita a ben tre seguiti diretti: Aliens: Scontro Finale, diretto da James Cameron, Alien 3, diretto da David Fincher e Alien: La Clonazione, di Jean-Pierre Jeunet. A questi si aggiungono due spin-off, ossia Alien vs Predator, diretto nel 2004 da Paul W. S. Anderson, e Alien vs Predator 2, diretto dai Fratelli Strause. A quest’ampia carrellata di film si aggiunge un vastissima produzione di fumetti, romanzi e videogiochi ispiratial brand. Cf voci “Alien saga” e “Fumetti di Alien”, da Wikipedia, consultate il 2022.10.17.

4 Ad esempio, l’origine artificiale dello xenomorfo, esplicitata in Alien: Covenant, unita al suo essere una creatura progettata per sfruttare parassiticamente gli esseri umani, cozzano con alcune soluzioni narrative di Aliens ed Alien 3,che partono dal presupposto che i noti alieni siano una specie di origine naturale.

5 Per accompagnare la nostro piccola riflessione devo necessariamente esporre le scene chiave dei film senza preoccuparmi degli spoiler; chiedo quindi scusa a coloro che ancora non avessero visto le pellicole.

6 Ecco qui il testo in lingua originale: « – (Ash) You still don’t understand what you are dealing with, do you? The perfect organism. Its structural perfection is matched only by its hostility. – (Lambert) You admire it! – (Ash) I admire its purity. A survivor, unclouded by conscience, remorse or delusions of morality -».

7 Mi rendo conto che il lettore che non avesse visto il film potrebbe avere qualche problema a seguirmi. Ecco quindi alcune spiegazioni: nella pellicola di Ridley Scott, così come in tutti gli altri film della saga, non solo l’alieno non viene mai mostrato mangiare, ma il suo cacciare segue schemi e motivazioni incomprensibili. Ciò è particolarmente vero nei film di Scott, dove non vi è alcun tentativo di spiegare la sua misteriosa e pianificata violenza. D’altro canto questo mostro si riproduce impiantando in un corpo umano ospite un embrione parassitico che, una volta maturo, uccide l’ospite stesso fuoriuscendo violentemente dal suo torace. Tale sistema rende da un lato la specie in se stessa sterile, perlomeno in mancanza di ospiti, dall’altro colora ogni fase del processo riproduttivo di una violenza che non disdegna evidenti riferimenti sessuali.

8 Peter Weyland è un personaggio presentato su Prometheus. Fondatore della Weyland&Yutani, la Compagnia che usa i protagonisti della pellicola originale, nel film del 2012 lo vediamo, in età avanzata, alla disperata ricerca degli alieni responsabili della creazione della razza umana. Trovando in essi degli esseri guidati dal mero interesse, incapaci di dare qualunque senso all’esistenza dell’uomo, muore nella disperazione.

9 Gen 1,31.

10 Ecco qui il testo in lingua originale: « – (David) If you created me, who created you? – (Weyland) Ah, the question of the ages, which I hope you and I will ansie one day. […] I refuse to believe that mankind is a random byproduct of molecular circumstance, no more than the result of mere biological chance; no! There must be more! And you and I, son, we will find it. – (David) Allow me, then, a moment to consider. You seek your creator. I am looking at mine. I will serve you. Yet, you are human. You will die. I will not. – (Weyland) … Bring me this tea, David -».

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Quando il Signore mi venne a cercare, la mia mente vagava confusa nei caldi spazi dell’inedia, talmente carica di nulla da non poter portare altro con sé. Il mio corpo invece si preparava ad un indefinito inverno nella città di Ancona, gioiello del medio Adriatico (si fa per dire). Nella patria del pesce e del “mosciolo”, per un leggiadro scherzo della Provvidenza, sono nato quasi trentadue anni fa con una sentita inimicizia fra me e qualunque carne marina. La chiamata del Signore mi vide studente in storia ed appassionato consumatore di storie: racconti di tutti i tipi e narrati da aedi di tutte le arti. Ora che lo Spirito mi ha indirizzato nella famiglia di San Domenico ho posto questo mio nulla nelle mani della Vergine Maria e del caro Castigliano e chiedo loro quotidianamente di mostrarmi in ogni storia, vera o immaginaria, la traccia del Divino che lì soggiace. Ora che sto a Bologna studio come studiando rendere omaggio a Dio. Per contattare l'autore: fr.giuseppe@osservatoredomenicano.it