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Il respiro del buio

Avete mai provato a vivere la vera notte? Non quella belva addomesticata e stanca che le nostre città ci propongono, ma la fiera indomita e misteriosa che un tempo osservava l’umanità appena oltre i confini di un focolare. Quando il buio ci avvolge, sentiamo gli occhi che si contraggono fino a far male, come polmoni alla disperata ricerca dell’aria, e la mente che inizia ad affondare negli abissi del suo stesso oceano. La cosa forse peggiore, però, è il respiro della notte: è ritmico e regolare, un empio coro dove suoni disincarnati e semplici incubi s’uniscono in una tremenda armonia. In quel momento il mondo, quel luogo sicuro di cui siamo i signori, si contrae attorno a noi al punto che quasi sentiamo il caldo respiro di una belva sul nostro collo.

La paura del buio è talmente radicata negli animali diurni, qual è l’uomo, da prescindere sia dalle circostanze che dalla forza. Per chi di voi ha familiarità con i documentari naturalistici, sarà nota l’immagine del comportamento degli elefanti: di giorno sono i dominatori del mondo, capaci di cacciare un branco di leoni per puro disprezzo, ma di notte si stringono l’uno all’altro gridando di paura, improvvisamente consci della vacuità della corona.

Quando una reazione emotiva è naturale ed innata come quella verso il buio, altrettanto naturale è, nell’uomo, l’associazione di questa ad elementi spirituali. Le tenebre sono da sempre state utilizzate, a livello simbolico, per definire i confini del mondo, i limiti oltre i quali la vita, e quindi l’uomo stesso, cadono in balìa di altro. Ecco che quindi risulta semplice il collegamento fra l’impossibilità di vedere, e quindi di esercitare il dominio fisico sul creato, con l’impossibilità di scorgere il bene e l’ordine, con conseguente smarrimento del dominio sul proprio intimo. Tali elementi sono il cuore di un film apparentemente banale ma sul quale vorrei provare a costruire una riflessione che, a mio parere, riluce appena sotto la superficie.

La notte dei naufraghi

La pellicola di cui sto parlando è “Pitch Black”, film diretto nel 2000 dal regista David Twohy ed interpretata dal noto attore d’azione Vin Diesel. Quest’opera nasce dal topos fantascientifico del naufragio su di un pianeta alieno; abbiamo quindi uno sparuto gruppo di sopravvissuti, un mondo estraneo ed ostile da comprendere ed affrontare ed una meta, fonte di salvezza, da raggiungere. Questo schema narrativo, comune a molti prodotti del genere, si sviluppa sull’idea originale di un’eclissi totale e prolungata: il mondo alieno, solitamente illuminato da tre soli, cade in una tenebra impenetrabile e duratura durante la quale il suo morente ecosistema scatena tutta la sua furia contro i poveri naufraghi.

A questi elementi propriamente avventurosi, il film ne aggiunge due originali, solo apparentemente slegati fra loro: un antieroe ed il senso del divino. Il protagonista della narrazione è Riddick, un assassino in viaggio, sotto custodia, a bordo della nave e naufragato assieme ai passeggeri. Come tutti i personaggi di questo genere, anche lui deve il suo fascino al bisogno di essere compreso dallo spettatore: mentre l’eroe, infatti, basa le sue azioni su di una consequenzialità che logicamente deriva dalla sua dirittura morale, l’antieroe agisce in apparente contraddizione con se stesso; per questa ragione è un elemento di grande interesse per il fruitore, che si sente spinto a comprendere una complessità che non può in alcun modo banalizzare.

Ma l’elemento forse più originale ed unico è quello religioso. Chi ha una certa familiarità con la fantascienza sa che questo genere, sia per la cultura che l’ha partorito sia per le premesse sulle quali spesso si fonda, raramente legge il futuro in ottica spirituale. Ancora più raro è che la religiosità, dove presente, sia una coerente trasposizione di quella reale, quasi una sua proiezione nel tempo. Qui invece colpisce subito il realismo della presenza di un devoto islamico in viaggio con la sua famiglia che, lungi dall’essere un semplice elemento folkloristico, suggerisce una chiave di lettura alla vicenda fondata sulla concezione del male.

I tre volti della belva

Il film infatti fornisce tre esempi di male che finiscono per intrecciarsi nello svolgimento della trama; la lettura spirituale degli stessi non viene esplicitamente fornita dall’uomo di fede, ma suggerita attraverso la sua presenza. Questi finisce per essere quindi lo specchio che permette di leggere una realtà interiore implicita negli eventi narrati.

Prima di tutto abbiamo il mondo alieno, rappresentante del male fisico, dell’ostilità della natura; esso assume la connotazione di una sconfinata ed opprimente casualità, quasi il segno che il cosmo o non ha senso o ne possiede uno che non è bene conoscere.

Secondariamente troviamo il male dell’opportunismo, la piccolezza dell’animo umano che si nasconde dietro una forza solo fisica allo scopo di celare un indicibile terrore. Questo è rappresentato da Johns, il cacciatore di taglie che, frutto di un edonismo autodistruttivo, trova il suo epilogo in una solitudine che svela implacabilmente la debolezza dell’uomo di fronte al mondo.

Infine vi è la disperazione, un tipo di male sottile che teme di riconoscere il bene; esso è rappresentato da Riddick stesso, l’uomo che vive nel buio e che solo lì trova la sua dimensione. Solo nelle tenebre infatti l’uomo può illudersi di aver il mondo stretto nel pugno della sua comprensione: questo miraggio appare talmente fondamentale al disperato che è disposto, pur di mantenerlo vivo, a leggere il creato come un luogo orribile, una terra tetra e crudele che però può sperare di controllare. Ciò che il disperato teme maggiormente è proprio il bene, non come idea, che può smontare o ignorare, ma come segno concreto che, in virtù della sua stessa intensità spirituale, non può permettersi di trascurare.

L’epilogo della vicenda personale di Riddick, sempre illuminato dall’implicito raffronto con Dio, costituisce la vera somma della condizione dell’uomo peccatore, al punto che gli altri due mali possono essere letti come sue conseguenze. Se infatti da un lato l’immagine del mondo come luogo ostile, come terra di ululati solitari, scaturisce proprio da questo sguardo di disperazione in rapporto a ciò che è esterno, dall’altro l’opportunismo non è altro che una disperazione interiore molto radicata. L’uomo che vede al buio, l’antieroe, diviene quindi il simbolo del peccatore condannato a voler cercare Dio ma a non trovare la luce necessaria ad illuminare il suo sguardo; la tragedia dell’umanità ferita è quella di contentarsi di un mondo buio, tetro, nel quale ciò che si distingue è distorto dal soggiacente rifiuto di un bene scorto non come luce che illumina ma come faro crudele capace di strappare anche il patetico velo dell’illusione.

Non senza saggezza, il film suggerisce come soluzione il sacrificio, la croce cristianamente intesa come offerta volontaria e disinteressata all’altro. Di fronte a questo, anche il disperato deve aprire gli occhi e rinunziare alle sue illusioni che, oramai, contraddicono la sua stessa esistenza.

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Quando il Signore mi venne a cercare, la mia mente vagava confusa nei caldi spazi dell’inedia, talmente carica di nulla da non poter portare altro con sé. Il mio corpo invece si preparava ad un indefinito inverno nella città di Ancona, gioiello del medio Adriatico (si fa per dire). Nella patria del pesce e del “mosciolo”, per un leggiadro scherzo della Provvidenza, sono nato quasi trentadue anni fa con una sentita inimicizia fra me e qualunque carne marina. La chiamata del Signore mi vide studente in storia ed appassionato consumatore di storie: racconti di tutti i tipi e narrati da aedi di tutte le arti. Ora che lo Spirito mi ha indirizzato nella famiglia di San Domenico ho posto questo mio nulla nelle mani della Vergine Maria e del caro Castigliano e chiedo loro quotidianamente di mostrarmi in ogni storia, vera o immaginaria, la traccia del Divino che lì soggiace. Ora che sto a Bologna studio come studiando rendere omaggio a Dio. Per contattare l'autore: fr.giuseppe@osservatoredomenicano.it