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Siamo in Giappone al tempo dei Signori della Guerra; Kubo è un giovane bambino, per l’esattezza un cantastorie dai poteri straordinari, ereditati dall’antica e potente madre: arpeggiando un mandolino orientale è capace di animare la carta dandole ogni forma.

Veri e propri origami viventi con cui racconta vecchi miti su un certo Re Luna e il samurai Hanzo, che si scopriranno più reali di quanto lui stesso non pensasse. Un’antica minaccia, infatti, lo costringeva prima a vivere solitario sulla cima di un monte, poi a fuggire, fino a quando l’arcano Re Luna stesso, nientemeno che suo nonno, non riesce finalmente a trovarlo con lo scopo di accecarlo. Per quale ragione?

La compassione

Per quanto possa essere strano il vecchio nonno fosforescente non è un uomo malvagio. Sì, ammetto che sia uno strano modo di manifestare il proprio affetto quello di cavare gli occhi ai nipotini, ma la sostanziale differenza fra un uomo che compie il male ed uno malvagio è nel motivo: il primo fa il male che non vuole (magari per un obbiettivo più alto); il secondo vuole il male che fa. Il nonno di Kubo non è un sadico, ma crede sadica la vita: “Sai perché lo voglio? Finché terrai tanto a quello sciocco e inutile occhio non potrai venire a vivere con me, su nei cieli: sarai intrappolato qui in questo inferno a guardare con l’unico occhio che hai tanto odio e tristezza e sofferenza e morte. Dove voglio portarti non c’è niente di tutto questo” [Re Luna]. In un film che ha il sapore di una ruminata mitologia, l’accecamento non può che essere un simbolo. Perché la condizione di abitare nei cieli è quella di essere ciechi? A mio avviso chi volesse introdurre qui il tema della fede come salto nel buio o altro, prenderebbe un grosso granchio (per quanto dotto, certo, è comunque un granchio). Tutto il discorso che segue col protagonista ha tema nella sofferenza.

Il punto non è essere ciechi, quindi non vedere più in assoluto, ma chiudere gl’occhi alla miseria dell’uomo, essere ciechi di fronte ad essa. Non vedere più il limite che affligge le cose è come non essere più limitati e per questo dice: “Tu sarai immortale, tu sarai infinito” [Re Luna]. Forse l’ha presa un po’ troppo alla lettera, ma la morale del vecchio nonno è un classico “occhio non vede, cuore non duole”. Assomiglia un po’ all’apatia predicata da alcuni filosofi: ignorare il dolore, è come non soffrire. Vi è, però, un sottile inganno che il giovane smaschera subito: “No ti sbagli, non infinito: tutte le storie hanno una fine” [Kubo]. Non basta non vedere una cosa, perché essa non ci sia più. Anzi, chiudere gl’occhi di fronte al dolore dell’uomo, significa rinunciare al suo unico sollievo: la compassione. Quest’ultima è il primo grande contenuto del film, Kubo la definisce: “Guardare negl’occhi dell’altro e vedere la sua anima”.

Non basta non vedere una cosa, perché essa non ci sia più. Anzi, chiudere gl’occhi di fronte al dolore dell’uomo, significa rinunciare al suo unico sollievo: la compassione.

La memoria

La follia dell’indifferenza non è una soluzione di fronte al dolore dell’uomo. Tuttavia non è sufficiente dire sbagliata una risposta per rispondere. Come affrontare il grande limite della morte? Qui vi è lo scambio di battute centrale del film. Kubo dice: “Quaggiù per ogni cosa orribile, ce ne è un’altra molto più bella”. Un’altra appunto, dove va a finire quella che abbiamo amato? Perciò incalza il vecchio: “Tutto ciò che amavi è scomparso, tutto ciò che sapevi ti è stato portato via”. Il giovane si ribella: “No è nei miei ricordi, il più potente genere di magia che ci sia, ti rende più forte di quanto sarai mai. Questi sono i ricordi di coloro che abbiamo amato e perduto e se custodiamo le loro storie nel profondo del cuore, tu mai e poi mai potrai portarcele via”. Ecco la risposta di Kubo: la memoria.

Ammetto che qui sono rimasto deluso: mi sembra un po’ uno specchietto per le allodole. Ma questa è la tesi fondamentale del film: vita e ricordo coincidono. Hanzo, il padre di Kubo, ne è la prova vivente: chi lo ha privato di tutti i ricordi, nel privarlo lo ha trasformato in uno scarabeo, in altro da sé, in meno di sé, praticamente un insetto. Certo, lo scarabeo è lo stemma di Hanzo, ma questo aumenta l’ironia: lui l’ha sotto il naso e non lo sa. La tesi, poi, si accentua. In alcuni punti chiave della storia (fra cui inizio e fine) Kubo dice: “Vi avverto, se vi muovete, se guardate altrove, se vi dimenticate una parte del racconto, anche per un istante, il nostro eroe di sicuro perirà”. Si istituisce una dipendenza fra la vita del protagonista di una storia e il ricordo/attenzione dell’ascoltatore. Ora, se noi siamo i nostri ricordi e le persone che amiamo fanno parte di essi, ne consegue che in una certa misura noi siamo loro e loro sono noi. Così, pur morendo, essi sopravvivono in noi fino ad entrare nell’immortalità del mito. Questa è la grande magia di Kubo: la memoria.

Il mito

Poi ahimè hanno scoperto l’alzheimer e tanti saluti a tutti. Certo, la memoria è una grande consolazione, ma non è una soluzione: bastassero i ricordi di gioventù per togliere le rughe in più e le creme di bellezza sarebbero tutte a base di fosforo. “Ma no, essere protagonisti di una storia che si tramanda nei secoli è come essere immortali!”. È come e il come dice sempre una metafora appunto: anche il ghiaccio brucia, proprio come il caldo, però nessuno va in Antartide coi bermuda. Questa è la realtà: il mito eterna gli eroi, non le persone. Achille non respira un grammo d’aria in più perché mi piace leggere l’Iliade. Anzi, oserei dire che a noi interessa più l’Achille mitico che quello reale. Di questo non si conserva nessuna memoria: forse, l’unica cosa speciale che aveva era una leggendaria tallonite. Ma è normale che sia così: l’eroe è un simbolo, uno specchio in cui ciascun uomo vede il prodigio che è in quanto uomo. Ciò che quindi tramanda il mito non è qualcuno, ma qualcosa di ognuno e lo fa attraverso un nome.

La risposta cristiana

Certamente la memoria umana non risolve il problema: ma non bisogna neppure sottovalutarne l’aspetto consolatorio. Da un lato essa è il fondamento della tradizione di qualsiasi valore. Dall’altro, nel momento in cui lo Spirito Santo mette nel Suo biglietto da visita l’epiteto Consolatore, ogni consolazione assume un’eco divina. È un nuovo ordine di idee: si passa dalla memoria al Memoriale. Che cos’è? L’Eucaristia, che viene detta così, perché con essa facciamo memoria del Sacrificio di Cristo: non tanto nel senso che riportiamo alla mente un fatto accaduto duemila anni fa, ma nel senso che siamo noi ad essere come trasportati a quell’evento che si rende attuale: “Quando la Chiesa celebra l’Eucaristia, memoriale della morte e risurrezione del suo Signore, questo evento centrale di salvezza è reso realmente presente e «si effettua l’opera della nostra redenzione»” [San Giovanni Paolo II, Ecclesia de Euc. 11]. Non è la tradizione di ciò che fu, ma di ciò che è: quanto si tramanda è un perenne presente. In una sola parola? Si perpetua il sacrificio di Cristo (CCC 1382). Ma Cristo non si rende presente a noi senza coloro che lo amano: “Nessuno poteva comprendere quel cantico se non i centoquarantaquattromila, i redenti della terra. Questi […] seguono l’Agnello dovunque va” (Ap 14, 4). Quale consolazione maggiore vi potrebbe essere, se non quella di ritrovare per un eterno istante (quello liturgico) coloro che abbiamo amato e perduto… e ora ritrovato? Ma questo non è un’ombra del passato: più che essere un ricordo, è un raccordo… un nuovo incontro che colgono solo gl’occhi della Fede.

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Chi sono? In verità non ne so molto più di voi. Del resto, vivo anche per scoprirlo. Ma giustamente chi legge questo genere di presentazioni, si attende una sfagiolata di dati anagrafici. Essia! Sono nato all’Ospedale Maggiore di Bologna quel glorioso 9 settembre del 1994 (glorioso per ovvie ragioni). Chi non mi ha mai veduto senza barba, ipotizza che mi trassero dal ventre di mia madre proprio tirandomi dalla barba… inquietante, ma non smentirò questa leggenda. Frattanto in questi 25 anni di vita ho frequentato il liceo scientifico Malpighi, mi sono appassionato a Tolkien, alla Filosofia, alla Poesia medioevale e novecentesca, infine alla cinematografia, su cui amo diffondermi in raccolte meditazioni crepuscolari. Cosa ho compreso saldamente? Ad una sola vita, un solo modo per viverla. Per questo appena conseguita la maggiore età, ho fatto domanda di entrare nell’Ordine dei Frati Predicatori. Attualmente mi nutro di studi di San Tommaso, di spiritualità e di metafisica (sto affrontando un densissimo filosofo Polacco, Przywara … la pronunciabilità del nome è direttamente proporzionale alla sua chiarezza). Per contattare l'autore: fr.pietro@osservatoredomenicano.it