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Storie nello studio

Quando ero bambino, passavo spesso per lo studio di mio padre per utilizzare il bagno annesso. Subito a sinistra dell’ingresso mi accoglieva una colonna disordinata di videocassette, da lui abilmente collezionate attraverso le varie offerte in edicola. Fra di esse quella che mi colpiva di più apparteneva ad un vecchio film, diretto nel 1971 da un giovanissimo Steven Spielberg, intitolato “Duel”. Ritraeva, in quello stile ancora artistico delle locandine degli anni ’70, la motrice brunita di un’autocisterna in corsa, svettante minacciosa sul punto di vista del povero osservatore.

Attratto ed al contempo spaventato dall’idea degli orrori contenuti nel film, mi capitava di prendere in mano la videocassetta e di rigirarmela, quasi fosse un’arma pericolosa il cui solo contatto sapesse trasmettermi parte del suo potere. Naturalmente la cosa mi sembrava avvalorata dalla presenza di un inquietante occhio giallo in fondo a destra, sul retro, recante il divieto ai minori di quattordici anni. Come potete immaginare, per un bambino quel film rappresentava un traghetto pieno di misteri verso un’età che, in modo distorto, sembrava ancora svanire nel mare magnum della maturità.

Fatto sta tuttavia che, quando chiesi trepidante a mio padre il permesso di vedere quel film lui, sempre bravo a spiazzarmi, si fece una risata e mi disse di sì.

Turbamento

Vedemmo “Duel” assieme ovviamente e ciò che il film mi lasciò furono due sensazioni molto chiare: prima di tutto rimasi inspiegabilmente stregato ed affascinato dalla semplicità e brutalità artistica dell’opera, al punto da avere, ancora adesso, difficoltà a definire le fondamenta di quella bellezza che pure percepisco; secondariamente ero perplesso, poiché non capivo dove fosse la ragione del divieto che tanto mi aveva conturbato.

Allora infatti credevo che solo due fossero le ragioni possibili per tenere lontani bambini come me: la violenza, che intendevo nello stile “splatter” dei film dell’orrore degli anni ’80 e ’90, e la sessualità, la cui definizione era per me alquanto nebulosa. Crescendo ovviamente aggiunsi anche alla lista non solo la presenza di tematiche ed esempi pericolosi per i più piccoli, ma anche la proposizione di argomenti necessitanti un elevato grado meditazione.

Tuttavia nessuno di questi elementi sembrava avere a che fare con “Duel”. Difatti il film narra la storia di un semplice impiegato, David, che si mette in viaggio di buon mattino in auto per concludere un contratto di lavoro. Entrato in uno di quelle immense strade americane che sembrano attraversare con impudenza il deserto, David ad un certo punto sorpassa un’autocisterna, vecchia e brunita, ed il suo misterioso conducente. Questo gesto, semplice e naturale, provoca da parte del camionista una reazione tanto violenta quanto inaspettata: egli inizia a dare la caccia al povero David allo scopo non tanto di ucciderlo, quanto di sconfiggerlo su strada. Ciò cui da inizio è appunto un duello, con tanto di armi e campo di battaglia, avente come fine il ristabilimento di una malata forma d’onore.

Come potete vedere, il film è definibile come un thriller psicologico, capace di catturare lo spettatore e di farlo immedesimare nella situazione quasi onirica vissuta dal protagonista. Ma se non potevo trovare la ragione di quel divieto ricercando nella pellicola uno degli aspetti sopra elencati, allora si rendeva necessario esaminare non tanto l’opera quanto le mie reazioni ad essa. Attraverso queste esame introspettivo, ciò che sono riuscito a trovare in me è stato un certo senso di turbamento. “Duel” non spaventa, né travia o comunica concetti immediatamente complessi, tuttavia è capace di lasciare lo spettatore scosso nel profondo.

Siamo ancora nella selva

Si viene turbati quando un dubbio s’insinua all’interno di una certezza sulla quale avevamo costruito un’ampia parte della nostra vita. Possiamo in fondo definirlo come una forma molto sottile di paura, poiché se è vero che ogni uomo cerca la sicurezza della stabilità, perfino il nomade, allora nulla teme più profondamente di qualcosa in grado di togliergliela.

Nel caso specifico, il tarlo maligno insinuato dal film è il seguente: la società che abbiamo costruito ci mette davvero al sicuro dall’arbitrio del male? Infatti, se di fronte all’azione di uno psicopatico ci rassicuriamo ripetendoci quanto remota sia la possibilità di subirla, ciò che davvero c’inquieta è l’incapacità dell’infrastruttura di opporsi ad essa. Vedendo con quale semplicità la follia di uno sconosciuto costringe, nella pellicola, un uomo comune ad un duello nel quale deve rinunziare ad ogni supporto o aiuto, ci rendiamo conto, nel profondo, che la salvezza che ci siamo costruiti è una ben misera difesa.

Come un uomo che, nella selva, si senta al sicuro dai lupi solo per lo steccato che ha costruito attorno alla sua casa, così noi pensiamo che il mero peso della nostra società basti a schiacciare quel tumore spirituale che cova in ognuno di noi; c’illudiamo cioè che quel peccato che è tormento dell’umanità intera possa essere in qualche modo soggiogato dal peso del Leviatano che ci siamo costruiti. “Duel”, e molte storie come lui, ci rammentano la nostra impotenza nei confronti di un male, dal quale non possiamo salvarci e contro il quale ogni controllo è, nel migliore dei casi, parziale.

Ma se per il non credente questa constatazione è fonte di mero turbamento, un tarlo angoscioso da seppellire sotto tonnellate di chiasso, per il cristiano è invece causa di conforto. Il discepolo di Cristo infatti s’identifica in colui che ha riposto nel Signore la sua speranza, affidando all’Onnipotente il peso della sua Salvezza; stando così le cose, egli non può che essere confortato dal fatto che l’umanità intera riconosca, a diversi livelli, quell’insufficienza che sta alla base della fede.

Questo articolo è dedicato a mio padre, Mario, un uomo dotto che nelle storie è diventato saggio (23 agosto 1955 – 05 novembre 2019).

Mario Filippini
A mio padre con amore: Mario Filippini (23 agosto 1955 – 5 novembre 2019).

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Quando il Signore mi venne a cercare, la mia mente vagava confusa nei caldi spazi dell’inedia, talmente carica di nulla da non poter portare altro con sé. Il mio corpo invece si preparava ad un indefinito inverno nella città di Ancona, gioiello del medio Adriatico (si fa per dire). Nella patria del pesce e del “mosciolo”, per un leggiadro scherzo della Provvidenza, sono nato quasi trentadue anni fa con una sentita inimicizia fra me e qualunque carne marina. La chiamata del Signore mi vide studente in storia ed appassionato consumatore di storie: racconti di tutti i tipi e narrati da aedi di tutte le arti. Ora che lo Spirito mi ha indirizzato nella famiglia di San Domenico ho posto questo mio nulla nelle mani della Vergine Maria e del caro Castigliano e chiedo loro quotidianamente di mostrarmi in ogni storia, vera o immaginaria, la traccia del Divino che lì soggiace. Ora che sto a Bologna studio come studiando rendere omaggio a Dio. Per contattare l'autore: fr.giuseppe@osservatoredomenicano.it