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Il Silmarillion

Uno dei grandi meriti del cinema, laddove si fa figlio della letteratura, è di saper portare la magia e la saggezza di questa sua antica madre anche a quei cuori ai quali non giungono i sussurri delle sue parole. Uno dei più eclatanti esempi di questo fenomeno, perlomeno nella storia recente, è costituito dai sei film con i quali, dal 2000 al 2014, il regista neozelandese Peter Jackson portò sullo schermo le due opere più celebri di John Ronald Reuel Tolkien, ossia Il Signore degli Anelli e Lo Hobbit1. Questi scritti, già di culto fra tutti gli appassionati del genere fantasy, nonché giustamente siti fra le maggiori opere della letteratura inglese e mondiale contemporanea, acquisirono grazie ai film una fama di proporzione globale, tanto che persone che mai si erano accostate al genere non esitarono a dare inizio alla loro avventura.

Esiste tuttavia anche un’opera del professore di Oxford2 che, nonostante la sua importanza nella produzione complessiva dell’autore, ha ricevuto dal fenomeno cinematografico solo dei vantaggi indiretti. Sto parlando de Il Silmarillion3, testo pubblicato postumo nel 1977 da Christopher Tolkien, figlio dell’autore, in collaborazione con lo scrittore canadese Guy Gavriel Kay. Essendo il professore inglese morto prima di riuscire a dare a questo scritto una composizione unitaria adatta alla pubblicazione, il lavoro redazionale compiuto da suo figlio non si limitò al recupero del materiale ma dovette anche cercare di trasformarlo in un corpus coerente. Il risultato finale consta di cinque parti, di differenti dimensioni, di cui la terza, di gran lunga la più corposa, si presenta ulteriormente divisa in venticinque racconti.

Lo scritto narra le vicende di Arda, il mondo immaginario teatro di tutte le opere dell’autore, dalla creazione fino all’inizio della Terza Era. Il ricco quadro cosmologico e cronologico che così viene a formarsi risulta essere il vero segreto della profondità riscontrata nei più celebri romanzi di Tolkien; Il Silmarillion, grazie alla sua ricchezza ed alla particolare struttura narrativa che lo caratterizza, non è quindi solo una premessa alle opere maggiori, bensì il ricco fondale che rende tanto credibili quei sogni4.

Nonostante la sua importanza ed il sostegno indiretto del cinema, questo scritto rimane legato maggiormente ai circoli di appassionati, al di fuori dei quali è facilmente ritenuto interessante ma di difficile lettura. La causa di ciò è probabilmente il genere letterario cui appartiene: non il romanzo né la novella, bensì il mito, l’epopea, che nella forma scritta simula mirabilmente quell’infinta complessità che appartiene naturalmente solo all’oralità. Il Silmarillion infatti si presenta come la trascrizione del bagaglio mitologico, religioso e culturale di un popolo fittizio, ossia quello elfico, e della sua visione del mondo.

La Grande Musica

Quando, da cristiano, mi sono accostato alla lettura di questo testo, non ho potuto fare a meno di notare un elemento molto particolare: Il Silmarillion, sotto diversi aspetti, somigliava incredibilmente all’Antico Testamento. Approfondendo mi sono in seguito reso conto di quanto grandi fossero anche le differenze fra i due testi, non solo, naturalmente, a livello spirituale, ma anche strutturale e contenutistico. Tanto per fare un esempio, non soltanto l’autore inglese non accenna mai, nel suo scritto, a nulla che assomigli ad un’esplicita rivelazione divina, ma moltissimi elementi strizzano l’occhio a tradizioni pagane politeiste ben distanti da quella cristiana5.

Preso atto di questo, mi parve tuttavia lecito accostare Il Silmarillion all’Antico Testamento perlomeno nel suo porsi come la storia, strutturata attraverso miti e resoconti, del rapporto fra il Creatore ed i suoi figli. Lo stato di questo legame, proprio come nella Scrittura, non solo determina glorie e cadute delle creature, ma è anche in grado di delineare una visione del creato avente come centro e perno Dio in quanto Fine Ultimo.

Mi rendo conto che questa prospettiva sull’opera può facilmente  e legittimamente essere ricusata, poiché lo sguardo di fede potrebbe certamente avermi indotto ad attribuire un peso eccessivo a determinati elementi. Tuttavia, a parziale difesa dell’importanza che il soggiacente pensiero cristiano ricopre ne Il Silmarillion, credo sia corretto ribadire il fatto che Tolkien era, nella vita privata, un fervente cattolico. Ciò traspare molto bene dalla sua corrispondenza dove, ad esempio, leggiamo simili frasi riferite all’Eucaristia: «Dall’oscurità della mia vita, così frustrata, ti offro l’unica grande cosa da amare sulla terra: il Santissimo Sacramento […]. Qui troverai fascino, gloria, onore, fedeltà e l’autentica via per tutti i tuoi amori sulla Terra e ancora di più»6. Ciò non implica che la fede sia stata il solo perno e motore della sua attività letteraria, ma che una lettura su di essa fondata è quantomeno legittima.

Questa premessa è utile per giustificare la riflessione che ho intenzione di proporvi su di uno dei brani iniziali de Il Silmarillion. Ci troviamo nella prima parte dell’opera, l’Ainulindalë, o La musica degli Ainur7; si tratta del racconto della creazione posto significativamente, proprio come nella Sacra Scrittura, prima di ogni altro accadimento. Tale posizione non gli pertiene solo per mere ragioni cronologiche: proprio come nel Libro della Genesi, anche qui i fatti narrati costituiscono il principio causale dello stato d’esistenza del creato sperimentato dall’immaginario redattore.

Se vi è un innegabile parallelismo fra questo racconto ed il testo biblico, non si può negare che le immagini proposte comunicano uno sviluppo dell’atto creativo differente. Dio, qui chiamato Eru o Ilúvatar, «[…] creò per primi gli Ainur, Coloro che sono santi, progenie del proprio pensiero, ed erano con lui prima che ogni altra cosa fosse creata»8. Tali creature, in quanto definite “sante”, sono accostabili agli angeli9; tuttavia finiscono per assumere anche dei tratti che li avvicinano agli dei pagani, come si evince da un brano della seconda sezione dell’opera: «Poi essi vestirono gli indumenti della Terra e discesero in essa, e vi dimorarono»10. Questi Ainur, o Valar, come verranno in seguito chiamati, paiono creati dal nulla, frutto solo del pensiero di Ilúvatar e, in quanto prime creature, vengono coinvolte nella creazione del resto del cosmo.

A questo punto il professore di Oxford propone un’interessantissima immagine: la comprensione del Creatore di cui gli Ainur sono stati beneficati viene da loro espressa attraverso una musica. Questa non è né la mera esaltazione della creatura né il frutto di un meccanico controllo da parte del Creatore; si tratta invece di un vero rendimento di gloria, nel quale una Divina Perfezione viene lodata in se stessa ed in quanto partecipata dalla creatura. A questo punto Ilúvatar, desideroso di trasformare i suoi figli da semplici cantori isolati in un vero coro, rivela loro una musica grande e possente che solo assieme possono conoscere e cantare11. Egli così li invita: «Del tema che vi ho esposto, ora io voglio che facciate, uniti in armonia, una Grande Musica. […], voi esibirete le vostre potenze, adornando il tema stesso, se lo desiderate, ognuno con i propri pensieri ed i propri artifici»12.

Questo tema maestoso, parto della mente di Dio, altro non è che il cosmo e la Grande Musica, esecuzione del tema stesso, è il mezzo attraverso il quale esso viene posto in essere. Tale connessione sfuggì anche agli Ainur, ai quali Ilúvatar dovette mostrare come la perfezione che avevano colto in note ed accordi aveva, se scorta con la vista, l’aspetto della mirabile sfericità del mondo13. Al di là dei risvolti teologici portati da un’analisi puntuale di questa splendida raffigurazione della creazione, ciò che m’interessa sottolineare è che le creature, pur senza divenire creatori, vengono rappresentato come coinvolte nella creazione stessa, invitate non solo ad eseguire dei comandi ma ad interiorizzarli, facendone una propria mirabile partecipazione, una personale e libera comunione di volontà.

Proprio su questa chiamata, su questo invito di Dio, si gioca il dramma del peccato. A Melkor, l’Ainur cui «[…] erano state concesse le massime doti di potenza e conoscenza», «[…], con il progredire del tema, […] sorse l’idea d’interpolare motivi di propria immaginazione che non erano in accordo con il tema di Ilúvatar; così facendo, egli cercava di accrescere la potenza e la gloria della parte che gli era stata assegnata»14.

Chi pecca è solo

Le differenti conseguenze di questa iniziativa sono riassumibili in una sola parola: disarmonia. Attorno a Melkor infatti «[…] fu subito discordanza, e molti che vicino a lui cantavano si scoraggiarono, […]: ma alcuni incominciarono ad accordare la propria musica alla sua anziché al pensiero che avevano avuto da principio»15.

Questo splendido racconto porta in sé una sottile riflessione teologica sulla natura del peccato e, di conseguenza, sul corretto modo di concepire la libertà della creatura. Come abbiamo visto, la richiesta che Ilúvatar fa agli Ainur non è di essere semplici esecutori del suo tema, bensì liberi interpreti. Se spogliamo tale invito delle immagini utilizzate da Tolkien, scopriamo celato in esso il cuore della chiamata che Dio rivolge all’uomo. Questa consiste nel far sbocciare ogni bene, ogni perfezione di cui siamo stati ricolmati, vivendo la Divina Volontà non come una potenza esterna all’io ma come Via lungo la quale la nostra Vita fiorisce nella Verità16. Con la sua immagine quindi il professore di Oxford ben rappresenta la principale realtà antropologica e spirituale dell’umanità, ossia che la nostra libertà consiste non nell’essere autonomi da ogni cosa, anche da Dio, ma nel riflettere per libera scelta la Sua Perfezione. Noi, Sue creature, ci realizziamo veramente solo nel momento in cui la nostra volontà diviene strumento che glorifica Dio.

Su questa comprensione possiamo cogliere il significato spirituale della dissonanza di Melkor: egli non pretese di aggiungere nulla al bene che aveva ricevuto, anche perché gli sarebbe stato impossibile, ma volle che la sua melodia esaltasse quella perfezione non in quanto dono di Ilúvatar, ma come entità autonoma. È come, per fare un esempio, se uno specchio, riflettendo l’immagine di una bella donna, non fosse lieto di poter comunicare una simile beltà, ma volesse esaltare attraverso essa solo la perfezione della sua fattura. L’origine del peccato viene colta, dall’autore inglese, non tanto nel voler essere in ogni cosa come Dio, desiderio che rasenterebbe la follia, quanto nel desiderare, proprio come pertiene all’Onnipotente, di trarre solo da se stessi la propria gloria17.

Se provassimo a riflettere sulle nostre colpe, grandi o piccole, e le confrontassimo con ciò che la Rivelazione c’insegna in merito circa la Volontà di Dio, scopriremmo che all’origine di simili atti soggiace l’oscura convinzione che vi sia maggiore perfezione nell’agire prescindendo da Dio che nel far nostro il Suo Disegno. Quei cibi deliziosi18 di cui il male ci fa gustare l’odore ci paiono tanto appetitosi non perché la nostra ragione non ne colga gli indubbi limiti, bensì perché ci sembrano strumenti efficaci per appropriarci di quell’Autonomia che consente al Signore di bastare a Se Stesso.

Purtroppo l’esperienza c’insegna che spesso a nulla valgono gli innumerevoli fallimenti, poiché l’incancrenirsi del cuore in questa via porta la ragione a perdersi in tragiche illusioni. Spesso, pur di non ammettere la nostra dipendenza da Dio, splendida conseguenza della nostra creaturalità, preferiamo annientarci in tragiche visioni dell’uomo, triste marinaio destinato a naufragare. Eppure basterebbe tanto poco per iniziare a guarire, anche solo un pensiero fugace, un dubbio in grado d’incrinare questo muro d’arroganza. E se l’uomo non fosse chiamato ad essere l’agricoltore, per il cui lavoro ogni cosa cresce ordinata, bensì il fiore, la cui perfezione sta nel coronare con la sua bellezza l’opera del contadino? Se così fosse, allora queste parole di Cristo acquisirebbero un nuovo significato, un’essenzialità cui è imperativo rispondere: «Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita»19.


1 La trasposizione di ambedue le opere seguì uno schema ternario, andando a formare due rispettive trilogie. Il Signore degli Anelli, le cui pellicole uscirono fra il 2000 ed il 2003, ben si prestava a questa suddivisione, data la mole ed il frazionamento già operato all’interno dell’opera letteraria. Lo Hobbit invece, la cui trasposizione cinematografica uscì fra il 2012 ed il 2014,  essendo un romanzo molto più snello e leggero, risentì di un’eccessiva diluizione del contenuto, che andò a favorire alcuni cambiamenti di tono rispetto all’opera scritta. Ciò probabilmente fu la causa del minore successo di critica di questa seconda trilogia, che tuttavia non gl’impedì di riscuotere un ampio consenso di pubblico. Per ulteriori informazioni cf Wikipedia, Voce Peter Jackson, consultata il 19/02/2022.

2 John Ronald Reuel Tolkien, nato in Sudafrica nel 1892 e morto in Inghilterra nel 1973, fu professore di antico inglese e di lingua e letteratura inglese fra il 1925 ed il 1959 all’Università di Oxford. Accanto alla brillante carriera accademica, egli portò avanti, dal 1917 fino alla sua morte, una continuata e prolifica attività letteraria che, fra le altre cose, gli valse un posto di primordine fra i padri del fantasy moderno. Cf Wikipedia, Voce J. R. R. Tolkien, consultata il 19/02/2022.

3 L’edizione italiana di riferimento sarà J. R. R. Tolkien, Il Silmarillion (trad. a cura di Francesco Saba Sardi), Bompiani, Milano 2017.

4 Per ulteriori informazioni sull’opera cf Wikipedia, Voce Il Silmarillion, consultata il 19/03/2022.

5 Ad esempio, la seconda delle cinque sezioni dell’opera, intitolata Valaquenta, presenta nel dettaglio le figure dei Valar e dei Maiar che, pur essendo sotto certi aspetti associabili agli angeli, presentano molti caratteri in comune con le divinità pagane; cf Tolkien, Il Silmarillion, pp. 63-74.

6 Lettera 43 a Michael Tolkien, 6-8 Marzo 1941, in  J. R. R. Tolkien, Lettere 1914/1973 (trad. a cura di Lorenzo Gammarelli), Bompiani, Milano 2018, p. 87.

7 Cf. Tolkien, Il Silmarillion, pp. 47-60.

8 Ivi, p. 47.

9 Cf. Sal 89, 6 e Mc 8, 38.

10 Tolkien, Il Silmarillion, p. 63.

11 Cf. ivi, p. 47.

12 Ivi, pp. 47-48.

13 Cf. Tolkien, Il Silmarillion, pp. 51-52.

14 Ivi, p. 49.

15 Ibidem.

16 Cf. Gv 14, 6.

17 Cf. San Tommaso d’Aquino, Somma Teologica, I Pars, q. 63, a. 3, resp.

18 Cf. Sal 141, 4.

19 Mt 11, 29.

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Quando il Signore mi venne a cercare, la mia mente vagava confusa nei caldi spazi dell’inedia, talmente carica di nulla da non poter portare altro con sé. Il mio corpo invece si preparava ad un indefinito inverno nella città di Ancona, gioiello del medio Adriatico (si fa per dire). Nella patria del pesce e del “mosciolo”, per un leggiadro scherzo della Provvidenza, sono nato quasi trentadue anni fa con una sentita inimicizia fra me e qualunque carne marina. La chiamata del Signore mi vide studente in storia ed appassionato consumatore di storie: racconti di tutti i tipi e narrati da aedi di tutte le arti. Ora che lo Spirito mi ha indirizzato nella famiglia di San Domenico ho posto questo mio nulla nelle mani della Vergine Maria e del caro Castigliano e chiedo loro quotidianamente di mostrarmi in ogni storia, vera o immaginaria, la traccia del Divino che lì soggiace. Ora che sto a Bologna studio come studiando rendere omaggio a Dio. Per contattare l'autore: fr.giuseppe@osservatoredomenicano.it