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Le beatitudini vengono considerate la carta d’identità dei santi. Non a caso infatti nella solennità di tutti i santi la pagina di vangelo che si proclama durante la liturgia è proprio quella riguardante le beatitudini evangeliche. Esse descrivono innanzi tutto i tratti fondamentali della persona di Gesù, in secondo luogo le caratteristiche fondamentali di coloro che hanno partecipato alla vita di Cristo, cioè i santi.

Nel vangelo di Matteo, al capitolo 5, ad ognuna delle nove beatitudini è associata una promessa di felicità. Essa si realizzerà pienamente nel paradiso, ma già qui nel nostro pellegrinaggio terreno inizia a compiersi. Lo si deduce dal fatto che in due beatitudini la promessa è espressa al presente indicativo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli […] beati i perseguitati a causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli».

In questo articolo vogliamo soffermarci sulla beatitudine dei poveri in spirito, proponendo una riflessione di Eckhart a riguardo. Il discusso domenicano scrive appositamente un’omelia sulla beatitudine che riguarda i poveri in spirito inquadrandola nella sua concezione mistico speculativa. Molto probabilmente il teologo renano avrà voluto approfondire il tema della povertà evangelica per il fatto che essa è anche uno dei tre voti che costituiscono la vita religiosa di cui egli ha fatto parte.

Il mistico renano, inserendosi nel solco della tradizione della chiesa, specifica che esistono due specie di povertà: una fisica ed esteriore, una spirituale ed interiore. L’autore dedica poche righe a quella fisica, dicendo che di per sé è una cosa lodevole se praticata per amore di Gesù Cristo, «poiché egli stesso l’ha esercitata sulla terra»1.

Tutto il resto della predica invece consiste nell’analisi della povertà più importante: quella spirituale, l’unica in grado di portare l’uomo alla piena unione con Dio. All’inizio di questa trattazione il teologo renano dichiara che le argomentazioni che esporrà potranno essere comprese in tutta la loro profondità soltanto da chi ha già la grazia di vivere la beatitudine in questione: «Se non siete conformi a questa verità, di cui ora intendiamo parlare, non potete comprendermi»2.

Secondo Eckhart un uomo raggiunge la vera povertà spirituale quando «non vuol nulla […] non sa nulla e non ha nulla»3. In sintesi quindi la povertà spirituale consiste nel voler nulla, sapere nulla e avere nulla dal punto di vista temporale; per voler tutto, sapere tutto e avere tutto dal punto di vista dell’eternità. Comprendiamo dunque che la povertà spirituale concepita dal filosofo renano consiste in una specie di nullificazione spirituale che si articola in tre punti strettamente connessi fra loro: la povertà della volontà, la povertà della conoscenza e la povertà nei confronti di ogni possesso spirituale.

Perché l’anima deve divenire “nulla” per diventare Dio? La risposta è semplice, perché la natura di Dio consiste nell’essere dissimile da tutto ciò che è creato, quindi l’anima per parteciparvi dovrà anche lei essere dissimile da ogni ente creato. Più l’uomo è prossimo al nulla più è posto nella sostanza di Dio. L’uomo può essere posto nella nuda sostanza di Dio solo quando il nulla si forma in lui. Una volta avvenuto ciò l’anima viene pienamente inglobata nella sostanza divina. Tutto quello che è di Dio è anche dell’anima, poiché essa è completamente povera di sé stessa. Rimuovendo tutto ciò che appartiene all’io egoistico, l’individuo diventa interamente per grazia Dio.

La povertà della volontà

Il filosofo renano scrive che normalmente per i credenti il non voler nulla significa impegnarsi a compiere la volontà di Dio. Questo è un punto di partenza, ma per raggiungere le vette mistiche dell’unione con Dio, bisogna compiere un passo ulteriore. La perfezione soprannaturale non consiste nel compiere la volontà di Dio con la propria volontà, ma far sì che sia Dio stesso a compiere la sua volontà in noi.

La facoltà umana diventa il mezzo con cui Dio stesso compie il suo volere, divenendo così un contenitore completamente pieno della volontà di Dio. Tra la volontà di Dio e quella dell’uomo si forma una tale sintonia e unione che ogni iniziativa non ha come primo motore l’uomo, ma Dio. È Dio stesso che agisce nell’uomo e vuole compiere la sua volontà: «Finché l’uomo possiede la volontà di compiere la dilettissima volontà di Dio, non ha la povertà di cui vogliamo parlare, poiché quest’uomo ha una volontà con la quale vuole soddisfare la volontà di Dio, e questa non è la vera povertà. Infatti, se l’uomo dev’essere veramente povero, dev’essere anche così spoglio della sua volontà creata com’era quando non esisteva»4.

L’anima umana prima di essere creata da Dio era una cosa sola con il Creatore, nel senso che era un suo pensiero e, come tale, Dio l’aveva concepita perfetta.
In quanto pensiero di Dio l’anima era nella beatitudine perfetta dell’essere assoluto e quindi ogni suo desiderio era già pienamente soddisfatto: «Ciò che volevo lo ero e ciò che ero lo volevo, e là ero libero da Dio e da tutte le cose»5.
Il fine dell’uomo a cui conduce la povertà della volontà è quello di ritornare all’unità primordiale con la Deità, cioè di essere perfetto come era nel pensiero della Deità prima di essere creato.

In altri termini l’autore vuole far passare il messaggio che l’uomo raggiunge la vera povertà spirituale quando si svuota completamente della propria volontà creata, raggiungendo la condizione ideale che Dio aveva pensato per lui prima che iniziasse a esistere nel tempo. La volontà creata, legata all’io egoistico, passa in secondo piano perché l’uomo è riuscito a conseguire il grado di perfezione che Dio aveva pensato per lui da tutta l’eternità. In questo modo ha raggiunto una pienezza d’essere maggiore, anzi divina come quella di Dio.

La povertà della conoscenza

«In secondo luogo è povero un uomo che non sa nulla»6.L’uomo deve abbandonare ogni forma di conoscenza umana imperfetta, poiché «quando l’uomo era nell’eterno essere di Dio»7in lui viveva solo Dio. Anche in questo caso lo spogliarsi di ogni sapere meramente umano significa impoverirsi e quindi perdere i limiti della realtà temporale per acquistare la ricchezza della realtà eterna: «L’uomo dev’essere così spoglio del proprio sapere come quando non esisteva, e lasciare che Dio operi ciò che vuole e che l’uomo resti vuoto»8.
Successivamente il discorso prosegue analizzando «in che cosa consista essenzialmente la beatitudine»9. Alcuni teologi affermano che consiste nel conoscere Dio, altri nell’amarlo, altri ancora sia nel conoscere che nell’amare Dio. Secondo Eckhart la vera beatitudine non consiste in nessuna delle tre tesi precedentemente esposte, nel senso che non è fondamentalmente un’operazione delle potenze dell’anima: «Esiste qualcosa da cui fluiscono conoscenza e amore, e ciò non conosce né ama come le altre potenze dell’anima»10.

Il filosofo renano sta dicendo che la beatitudine dell’uomo è qualcosa che trascende le potenze conoscitive dell’uomo, essa riguarda principalmente il Fondo dell’anima. Esso è infatti sempre in atto per partecipazione all’essere divino. In questo senso nessuna delle potenze conoscitive rientra nell’operazione della beatitudine per cui l’uomo «ignora anche che Dio agisce in lui»11. L’individuo perde la conoscenza umana immergendosi nella beatitudine della conoscenza divina che lo porta a godere «di sé in se stesso secondo il modo di Dio»12.

In definitiva la povertà spirituale della conoscenza, cioè la privazione di ogni forma di conoscenza umana, consente all’uomo di essere assimilato da Dio nella conoscenza divina, cioè nella conoscenza per se stessa sussistente. Perciò non è più l’uomo che conosce, ma è Dio che conosce nell’uomo: «un uomo povero è colui che non sa nulla delle opere che Dio compie in lui»13.

La povertà nei confronti di ogni possesso spirituale

Trattiamo ora della terza povertà, «la povertà somma: quella di chi non possiede nulla»14. Eckhart cita i maestri di vita spirituale, i quali dichiarano che l’uomo «dev’essere libero da tutte le cose e da tutte le opere, interiori ed esteriori»15, in modo da poter diventare un luogo dove Dio può operare. Il mistico renano parte da questi presupposti spingendo la povertà spirituale ad un grado ancora più estremo. Egli afferma che se Dio trova nell’uomo un luogo diverso da Dio stesso, non può riversare in esso tutta la sua vita.

Quindi l’uomo raggiunge la povertà più elevata quando tutta la sua umanità diventa come un contenitore vuoto e privo di ogni elemento temporale: solo quando Dio vede queste condizioni interiori nell’uomo vi riversa pienamente la sua vita, «a tal punto che Dio, se vuole operare, sia egli stesso il luogo dove vuole operare»16: «Dio, quando trova l’uomo così povero, compie la sua propria opera, e in tal modo l’uomo patisce Dio, e Dio è il luogo proprio della sua operazione per il fatto che Dio opera in sé stesso. Qui, in questa povertà, l’uomo ritrova l’essere eterno che egli è stato, che è ora e che rimarrà sempre»17.

La povertà spirituale libera dunque l’uomo da tutto ciò che impedisce la sua unione con la Deità, cioè tutto ciò che è incluso nei limiti del divenire. Se l’uomo riceve la grazia di conseguire questa povertà spirituale, viene elevato al di sopra di tutte le schiere angeliche ed immerso nel flusso della vita della Deità.

A ben guardare, l’atteggiamento interiore determinato dalla povertà spirituale e dall’umiltà conducono l’uomo ad avere una visione profonda della verità. Anche le cose che sembrerebbero essere un nostro possesso personale, come l’essere, in realtà sono un dono di Dio. La creatura infatti non è l’essere (che esiste e sussiste in virtù della propria essenza), ma ha l’essere per partecipazione. A questo proposito san Paolo afferma nella prima lettera ai Corinzi: «Che cosa possiedi che tu non l’abbia ricevuto?» (1 Cor 4,7). Concludiamo questo nostro articolo augurando a tutti di raggiungere la vera povertà spirituale, per essere ricchi solo di Dio!


1 M. Eckhart, sermone Beati Pauperes Spiritu in Trattati e prediche, traduzione italiana G. Faggin, Rusconi, Milano 1982, p. 365.

2 Ibidem.

3 Ibidem.

4 Ivi, pp. 366, 367.

5 Ibidem.

6 Ibidem.

7 Ibidem.

8 Ibidem.

9 Ibidem.

10 Ivi, p. 369.

11 Ibidem.

12 Ibidem.

13 Ivi, pp. 369-370.

14 Ivi, p. 370.

15 Ibidem.

16 Ibidem.

17 Ibidem.

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Sono nato a Crema il 12 luglio 1991. Ho iniziato a farmi domande serie sulla fede e sulla mia vocazione intorno ai 19 anni, una volta finite le scuole superiori. Queste domande mi portarono ad approfondire i contenuti della fede cristiana, iniziai a leggere personalmente i vangeli e successivamente, come mi consigliò un mio amico, lessi anche il Catechismo della Chiesa cattolica. Inoltre incominciai a frequentare le iniziative della parrocchia, e fu proprio qui che, durante gli incontri di catechismo per gli adulti tenuti dal viceparroco, sentii per le prime volte i nomi di san Tommaso d’Aquino e di santa Caterina da Siena, nomi che suscitarono in me un forte interesse di approfondire il loro insegnamento. Piano piano, continuavo a sentire in me sempre più intenso il desiderio di diventare religioso: fu così che, una volta avuti i contatti per il percorso di discernimento vocazionale nell’Ordine, intrapresi un percorso che mi ha portato ad essere un frate dell’Ordine dei Predicatori. Ho emesso i voti semplici il 15 settembre 2019.