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Lettori vecchi e nuovi

Una delle esperienze più affascinanti della maturità consiste nel riguardare con occhio critico i racconti dell’infanzia. Si tratta di una retrospettiva che non solo permette di riflettere su contenuti accolti con semplicità nel passato, ma anche di rendersi conto dell’effettiva genesi di storie così preziose. Quest’ultimo punto si rivela particolarmente utile poiché porta a confrontarsi con della letteratura, spesso di comprovata ed ottima qualità, che il filtro dell’infanzia ha semplificato e, perlomeno in parte, privato dell’originaria profondità.

Penso che, perlomeno in occidente, esperienze simili siano abbastanza comuni sin dall’antichità quando, non esito ad immaginarlo, letterati greci e romani si trovavano a riscoprire nella maturità quegli stessi immortali miti che avevano deliziato le loro notti giovanili. Oggigiorno questo processo si è in qualche maniera complicato a causa della pesante rilettura che la società contemporanea ha sentito il bisogno di dare alla propria tradizione. Non è questa la sede per discutere sulle ragioni e sulla convenienza di una simile operazione; limitiamoci a prendere atto della sua realtà e di quanto la The Walt Disney Company1 abbia contribuito alla sua realizzazione.

La compagnia fondata da Walt Disney nel 1923 iniziò, già nel lontano 1937 con Snow White and the Seven Dwarfs, da un lato ad attingere copiosamente al patrimonio favolistico occidentale, dall’altro a modificare queste storie per renderle più facilmente fruibili ad un pubblico contemporaneo. Se nell’ambito delle fiabe i cambiamenti, pur spesso notevoli, lasciarono di solito intatta la sostanza del racconto, già di per se stesso indirizzato ai più piccoli, ben più profondi si dimostrarono i mutamenti apportati ad opere di differente destinazione.

Ciò è particolarmente evidente in The Jungle Book2, diciannovesimo film d’animazione Disney uscito nelle sale nel 1967 per la regia di Wolfgang Reitherman e liberamente ispirato all’omonima raccolta di racconti pubblicata da Joseph Rudyard Kipling nel 1894 ed al suo seguito, The Second Jungle Book, del 18953. Anche se molti personaggi e situazioni sono rintracciabili anche nel lungometraggio animato, un confronto anche rapido rende immediatamente evidente la profondità degli interventi cui il classico inglese è stato sottoposto: non solo la narrazione ma anche l’identità ed il significato di moltissime figure è stata cambiata, dando vita ad una favola a partire da un materiale certo non appartenente a questo genere.

Con ciò non voglio tuttavia condannare l’operato degli animatori e degli sceneggiatori Disney; al contrario, ritengo che l’originalità del racconto da loro proposto a generazioni di bambini non tradisca ma traduca un’opera come quella di Kipling evidentemente destinata a lettori maturi. Mi permetto inoltre di sostenere che in questo caso specifico la trasposizione dei racconti originali ha permesso l’estrapolazione di una morale che, pur forse implicitamente presente nei due libri, non aveva né la chiarezza né l’organicità invece presente nel lungometraggio animato.

King Louie

Anche se probabilmente la maggior parte di voi ben conosce il capolavoro Disney, credo sia più prudente rievocarne brevemente i tratti principali. Mowgli, orfano disperso nella giungla indiana e cresciuto dai lupi, è costretto ad abbandonare il mondo che conosce a causa di Shere Khan4, una tigre del Bengala che, in virtù del suo odio per il genere umano, intende ucciderlo prima che raggiunga l’età adulta. Scortato dal suo amico Bagheera, una pantera, verso il villaggio degli uomini, i soli in grado di proteggerlo, il bimbo, non volendo abbandonare la sua amata giungla, cerca protezione presso diversi animali fino allo scontro finale con la tigre. Scacciato il felino con il fuoco Mowgli, finalmente libero, decide di vivere con gli uomini dopo aver conosciuto una bellissima bambina.

Apparentemente la variopinta sfilata di animali, più o meno amichevoli, di cui si compone il film nasce dalla semplice volontà del nostro piccolo protagonista di guadagnarsi la loro protezione; ad uno sguardo più attento tuttavia risulta evidente che Mowgli non si limita a chiedere di essere nascosto, così da sfuggire dalla grinfie della tigre, ma si spinge molto più a fondo: egli desidera imitare il loro stile di vita. Il ragionamento soggiacente è tanto infantilmente semplice quanto affascinante: se la mia condizione m’impedisce di vivere come e dove voglio, la soluzione più semplice è trasformarmi, assumere l’identità di una creatura che invece ben vi si adatta. Ecco che quindi potremmo definire i divertenti incontri del piccolo come un forsennato e disperato cambiarsi d’abito, sorretto dalla speranza di trovarne uno che s’adatti al suo desiderio.

Un esempio fra tutti è l’esilarante incontro di Mowgli con l’orso Baloo: quest’ultimo, animato da un ingenuo ottimismo, non solo si propone come protettore del piccolo ma mette in piedi una vera e propria scuola per divenire orsi. Il suo fallimento, consumatosi con avversari tutt’altro che micidiali quali le scimmie, rivela impietosamente quanto sciocco sia questo intento.

La costante tensione di Mowgli ad essere qualcos’altro non risulta evidente nel racconto, al punto da apparire poco più che una suggestione vaga. Ad un’analisi attenta del lungometraggio ci si rende conto però della presenza di un personaggio che, incarnando un desiderio simile, indirettamente esplica le motivazioni del protagonista. Sto parlando di King Louie, l’orangutan che da un tempio in rovina governa su tutte le scimmie. Questo personaggio venne interpretato dal musicista jazz-blues Louis Prima (1907-1978), artista italo-americano nato a New Orleans che non solo si esibì, con la sua band, nella canzone I wanna be like you, scritta da Robert e Richard Sherman, ma ispirò anche, con le sue movenze, gli animatori incaricati di dar vita alla scimmia5. Che King Louie abbia in qualche modo una funzione esplicativa lo comprova la sua assenza nell’opera originale. In The Jungle Book Mowgli viene effettivamente rapito dalle scimmie nel racconto Kaa’s Hunting, tuttavia queste non solo non hanno un sovrano ma non sono neppure orangutan6. L’aggiunta, nella versione Disney, di questo importante personaggio suggerisce che il legame che questi ha con la storia non si fonda sul retaggio dell’opera narrativa, bensì sui contenuti aggiunti dalla trasposizione animata.

Ciò che King Louie ha in comune con Mowgli è l’obiettivo che si è prefisso: egli, proprio come il bambino, vuole diventare qualcos’altro. Se ascoltiamo bene la divertentissima performance dell’orangutan ci rendiamo conto che rappresenta, in qualche modo, l’esatto opposto del nostro piccolo protagonista: se infatti Mowgli è un essere umano che vorrebbe divenire un animale, Louie è una scimmia che desidera essere umana. Ambedue inoltre intendono attuare tale metamorfosi attraverso l’imitazione esteriore di determinati gesti che, a loro modo di vedere, costituiscono il nucleo profondo dell’essenza che vogliono assumere; se quindi il bambino prova a marciare come gli elefanti ed a mangiare come Baloo, King Louie intende appropriarsi del potere che maggiormente incarna, ai suoi occhi, l’umanità: il controllo del fuoco.

Inutile dire che il tentativo è necessariamente fallimentare; difatti, anche se Mowgli avesse davvero insegnato a Louie ad accendere il fuoco, è evidente che ciò non l’avrebbe reso umano, ma solo una scimmia particolarmente abile. Mentre tuttavia il cucciolo d’uomo, come abbiamo detto, non esplica appieno le ragioni profonde, al di là della minaccia attuale di Shere Khan, che lo spingono a rifiutare la sua umanità, il re delle scimmie sente il bisogno di fornire una spiegazione: egli, molto semplicemente, percepisce i limiti imposti dalla sua natura, dal suo essere un orangutan, come in contrasto con gli obiettivi cui la sua volontà l’orienta.

Se la nostra premessa è vera, ossia se King Louie spiega ciò che è implicito in Mowgli, allora comprendiamo la ragione profonda per cui il bimbo desidera mutarsi in animale: la sua volontà si è volta a dei beni posti al di là dei limiti dati dalla natura umana.

Cosa desiderare

Per capire meglio il concetto può essere utile ricorrere ad un semplice esempio, sempre tratto dal mondo animale. Innegabilmente la capacità di volare è, in generale, un bene; con ciò s’intende dire che si tratta di un talento di riconosciuta ed evidente utilità per chi lo possiede tanto che l’umanità, forte dell’ingegno, se n’è appropriata, dopo averlo sognato per millenni, appena la tecnica l’ha permesso. Questa realtà potrebbe, ad un certo punto, apparire evidente anche ad un pesce il quale, scorgendo la libertà di uccelli ed insetti, finirebbe per desiderare il bene del volo. Notando la somiglianza fra le sue pinne e le ali, il nostro pesce potrebbe provare a saltare e, imitando il movimento degli uccelli, tentare di volare; i fallimenti, più o meno evidenti ma sempre inevitabili, cui andrebbe incontro avrebbero due effetti: da un lato lo porrebbero in un costante stato di frustrazione, la cui logica conseguenza sarebbe l’odiare la propria natura in virtù dei limiti che pone; dall’altro lo accecherebbero, impedendogli di scorgere le ricchezze proprio del suo essere pesce e le bellezze che ne conseguono.

Se proviamo ad analizzare questo semplice racconto ci accorgeremo che l’errore del pesce sta nel non aver considerato che non tutto ciò che è bene in generale è un bene anche quando desiderato. Detto in altri termini, non tutto ciò che è bene è per questo desiderabile, ma solo quelle cose che risultano coerenti con la natura di chi desidera. Per tornare al capolavoro Disney, tanto Mowgli quanto King Louie vedono nell’altro da sé, in chi vive una diversa condizione d’esistenza, l’intrinseca bontà di quegli elementi che lo caratterizzano; non comprendono tuttavia che quei beni, proprio come le ali per il pesce, sono desiderabili solo per chi possiede l’effettiva capacità di fruirne. Per loro invece risultano essere delle trappole che non solo disperdono energie e desideri in mere chimere, ma portano ad odiare quelle benedizioni di cui è invece colma la loro condizione propria.

A ben vedere le vicende di Mowgli e di King Louie hanno degli elementi comuni anche nelle rispettive conclusioni: se infatti la scimmia scopre violentemente quanto sia distante dalla natura umana, attraverso il simbolico crollo della sua reggia, il bambino impara ad amare la bellezza dell’uomo nell’alterità della grazia femminile. La fanciulla che Mowgli scorge non lo attira solo con la sua beltà ma anche tramite le sue parole. Nella breve canzone che intona non dovremmo superficialmente scorgere un’antiquata visione della donna bensì il compendio dell’esistenza umana, una vita fondata su di una carità che la comunione familiare incarna e simboleggia. Ciò che le due esperienze hanno in comune è quindi una netta riscoperta di sé: Louie, nel crollo della sua illusione, si riscopre semplice scimmia e Mowgli, nella soavità della bambina che scorge, vede di riflesso il valore di quell’umanità che in se stesso aveva rifiutato.

Dall’analisi fatta credo sia evidente che ci troviamo di fronte ad un insegnamento solo apparentemente semplice: non si tratta solamente di presentare una generica rivalutazione della propria condizione creaturale ed individuale, né tantomeno di proporre un miope rifugiarsi in relazioni esclusive con individui a noi simili; ciò che il The Jungle Book del 1967 presenta è invece una profonda lezione sul desiderio.

Il concetto fondamentale direi che potrebbe essere così riassunto: «Desiderare qualcosa che, pur essendo in se stesso un bene, non è a noi adeguato conduce alla sofferenza sotto due aspetti: da un lato è doloroso veder frustrati i nostri tentativi di procurarci o di godere di elementi che, sovraccaricati di false speranze, ci deludono al punto da condurci ad abbracciare visione ciniche del mondo; dall’altro la falsa luce di questi beni oscura al punto lo splendore di ciò che davvero ci farebbe crescere in perfezione che, anche non volendo, finiamo per trascurare i nostri più pressanti bisogni». La celebre massima filosofico – sapienziale del Nosce te ipsum, del conosci te stesso, può in questa luce essere riletta come un invito a prendere coscienza di cosa davvero val la pena di desiderare. Fare ciò comporta acquisire previamente una consapevolezza del proprio autentico bene, della propria vera perfezione, tale da consentire di selezionare con saggezza i beni cui ambire e sui quali fondare la lecita speranza di compimento e felicità.

Un discorso simile non comporta alcun tipo di svalutazione né dei beni immediati né di quei desideri che legittimamente possono nascere dal confronto con l’altro; si tratta invece di edificare la propria identità di essere desiderante sulla consapevolezza di dove si trovi la pienezza dell’essere umano, di quale sia il luogo spirituale ove la nostra volontà può finalmente posare il capo. Solo allora gli altri beni troveranno un posto, un ordine, proprio come strade e città in una mappa acquisiscono un senso per noi solamente quando troviamo la nostra meta.

Forse senza volerlo, l’opera Disney suggerisce un’altissima risposta a quale sia questo luogo misterioso verso il quale ogni essere umano, in un modo o nell’altro, viaggia. Nella splendida visione della carità prospettata dalla fanciulla al fiume, sintetizzata in una sommessa e dolce immagine familiare, comprendiamo come l’amore sia non un mezzo per essere felici bensì la sede della felicità stessa. Non si parla qui di un semplice sentimento, intenso e passeggero come il vento, bensì di una multiforme condizione spirituale che ha nella comunione con l’altro il suo cuore stabile e pulsante.

Il cristiano, qui come altrove indegno custode delle risposte alle domande dell’uomo, porta a compimento questa intuizione ponendo a fondamento di ogni cosa la più alta forma di carità, ossia quella con la quale rispondiamo all’infinito Amore di Dio. Egli e non altri è, nella comunione che apre alle Sue creature, quel Bene proprio nel quale la natura umana stessa trova il suo pieno compimento; Egli è il solo degno di quel trono interiore dal quale comprendiamo noi stessi e ciò che è davvero desiderabile. Chi rifiuta Dio, chi preferisce veder vacante quel regale seggio, sceglie di vedere se stesso deformato, distorto da una specchio scheggiato e contorto nel quale ogni bene è desiderabile ma nessuno, al fine dei conti, ha davvero senso.


1 Per tutte le notizie sulla compagnia cf. la voce «The Walt Disney Company» in Wikipedia, consultata il 14/12/2022.

2 Cf. la voce «The Jungle Book (film 1967)» in Wikipedia, consultata il 14/12/2022.

3 Cf. la voce «The Jungle Book (novel)» in Wikipedia, consultata il 14/12/2022.

4 La tigre Shere Khan è certamente il principale antagonista tanto dell’opera di Kipling quanto del film Disney. La The Kipling Society afferma che il significato del suo nome è, approssimativamente, The chief among tigers. Anche se il lungometraggio ne fa un antagonista affascinante ma tutto sommato anonimo, nel libro Shere Khan è descritto come un maschio di tigre menomato per una zampa paralizzata dalla nascita e abitualmente dedito a cacciare esseri umani. Probabilmente questo background nasce dai racconti circa i temuti “mangiatori di uomini”, ossia grandi felini che, spinti da debolezza o menomazioni, abbandonano le loro prede abituali per attaccare gli uomini. Una vicenda di questo genere è quella che sconvolse, nel 1898, la regione del Kenya presso il fiume Tsavo dove due leoni maschi, privi di criniera, e quindi svantaggiati nella competizione con i loro simili, uccisero circa un centinaio di persone. Cf. le voci «Shere Khan (english)» e «Mangiatori di uomini dello Tsavo» in Wikipedia, consultata il 15/12/2022.

5 Cf. le voci «King Louie (english)», «Louis Prima (english)» e «I wanna be like you (english)» in Wikipedia, consultata il 19/12/2022.

6 Cf. la voce «The Jungle Book (novel)» in Wikipedia, consultata il 19/12/2022.

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Quando il Signore mi venne a cercare, la mia mente vagava confusa nei caldi spazi dell’inedia, talmente carica di nulla da non poter portare altro con sé. Il mio corpo invece si preparava ad un indefinito inverno nella città di Ancona, gioiello del medio Adriatico (si fa per dire). Nella patria del pesce e del “mosciolo”, per un leggiadro scherzo della Provvidenza, sono nato quasi trentadue anni fa con una sentita inimicizia fra me e qualunque carne marina. La chiamata del Signore mi vide studente in storia ed appassionato consumatore di storie: racconti di tutti i tipi e narrati da aedi di tutte le arti. Ora che lo Spirito mi ha indirizzato nella famiglia di San Domenico ho posto questo mio nulla nelle mani della Vergine Maria e del caro Castigliano e chiedo loro quotidianamente di mostrarmi in ogni storia, vera o immaginaria, la traccia del Divino che lì soggiace. Ora che sto a Bologna studio come studiando rendere omaggio a Dio. Per contattare l'autore: fr.giuseppe@osservatoredomenicano.it