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L’assedio dell’Alcazar

Tratto da un episodio realmente avvenuto, “L’Assedio dell’Alcazar” è un film di sorprendente complessità e che merita di essere considerato al di là di ogni possibile preconcetto. La vicenda risale a pochi anni prima della sua realizzazione: la Spagna, che stava precipitando nel gorgo della guerra civile, vive fra gli altri, l’episodio dell’assedio alla fortezza dell’Alcazar di Toledo, in cui si trovava l’accademia militare, da parte delle milizie del fronte repubblicano. Questo è il grande scenario in cui avviene l’assedio. Dalla situazione complessiva, lo sguardo della cinepresa stringe improvvisamente su questa comunità, di quasi duemila persone, che si trova a dover resistere per oltre due mesi alle offensive e ai bombardamenti dei repubblicani, fino all’arrivo dei rinforzi di parte franchista, il 28 settembre 1936.

Uno dei primi “colossal”

Molti sono gli elementi di interesse di questa pellicola: non solo si può considerare per l’epoca, era il 1940, una produzione importante dal punto di vista dei mezzi utilizzati (le riprese si sono svolte a Torino, a Cinecittà e fra le stesse rovine dell’Alcazar), ma emergono con chiarezza nel film sia i differenti generi cinematografici proposti (a tratti sembrano riprese documentaristiche) sia i vari livelli di lettura dati alla vicenda dal regista Augusto Genina. Difatti, la narrazione mostra come, nelle settimane d’assedio, alcuni dei protagonisti principali, fra i quali emerge l’interpretazione di Fosco Giachetti, in qualche modo sembrano rivelare la loro indole ed i loro sentimenti nascosti, celati non solo dietro a una divisa, ma anche a dei “ruoli” da cui può essere difficile affrancarsi in una situazione normale.

La vita è più forte

In questo caso abbiamo un ulteriore approfondimento: se nella prima parte del film i personaggi sembrano essere presentati in maniera a dir poco sommaria (non bisogna scordare l’evidente funzione di propaganda dell’opera), con il dipanarsi della vicenda i toni diventano più intimi, emerge, nel bene e nel male, un’umanità che, dentro e fuori dall’Alcazar, combatte una guerra che non permette alternative. In tutto questo non manca un messaggio di speranza, per nulla ideologico: anche nelle situazioni più disperate, la vita è più forte: pur assediata, è una comunità in cui si nasce, si prega, in cui c’è spazio per discrete storie d’amore, in cui basta una piccola tregua, per poter riallargare lo sguardo sul mondo e desiderare un domani di pace.

In chi poniamo la speranza?

Non era certo questo il tema fondamentale del film, in cui l’influsso ideologico e anche il sottofondo geopolitico non è irrilevante, ma tuttavia possiamo trarne qualche utile spunto di riflessione e di meditazione, soprattutto in questo tempo in cui il Covid 19 ci fa sentire un po’ assediati. La speranza che traspare in questo film non ha nulla a che vedere con la fede intesa come virtù teologale, ma chi avrà il modo di vederlo potrà meditare sul fatto che, mentre la speranza puramente umana è, in qualche modo, l’espressione di un desiderio, anche nei confronti di ciò che può apparire improbabile o addirittura impossibile, la speranza cristiana, quindi la virtù teologale, poggia su due certezze poiché ha in Dio il suo oggetto e il suo termine1: in questo, la Sacra Scrittura ci è maestra. Si pensi, per esempio all’insegnamento del salmista «Beato chi ha per aiuto il Dio di Giacobbe: la sua speranza è nel Signore suo Dio»2 o all’avvertimento del profeta Geremia: «Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, e pone nella carne il suo sostegno, allontanando il suo cuore dal Signore»3. Nella prima, però, ci sono dei flebili, ma inequivocabili «semina spei» (semi di speranza).

Gesù, nostra speranza

San Paolo nella prima lettera a Timoteo si presenta così: «Paolo, apostolo di Cristo Gesù per comando di Dio nostro salvatore e di Cristo Gesù nostra speranza»4. Gesù Cristo, dunque, è la nostra speranza. Nel film si vede la differenza tra chi combatte, confidando nel Signore e chiedendo, pur essendo assediato, la presenza di un sacerdote per la celebrazione della Santa Messa, e chi combatte per imporre il proprio dominio, confidando sull’ideologia della forza e dell’annientamento dell’altro. Al netto del contenuto di propaganda, che è innegabile, quello che si può trattenere è proprio il fondamento della speranza. Nella sua enciclica Spe Salvi, Benedetto XVI puntualizza, fin dalle prime righe che: «il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino»5. La speranza cristiana non è l’infantile e ingenua mentalità dell’andrà tutto bene, su cui molti hanno confidato nei primi mesi della pandemia, come per eludere la difficoltà e il dolore di questi tempi, compresi quelli che ancora ci attendono.

Una speranza con gli occhi aperti

La speranza cristiana è allo stesso tempo realista e capace di guardare l’oggi e l’eterno; «chi non conosce Dio, pur potendo avere molteplici speranze, – scrive Benedetto XVI – in fondo è senza speranza, senza la grande speranza che sorregge tutta la vita»6. In quest’ottica possiamo vedere come, attualmente, il Covid 19 non sia il nostro unico assediante, ma solo uno degli assedianti; è quello più visibile ed evidente. Nel film, l’assedio non è condotto solo dai miliziani che bersagliano le mura dell’Alcazar, ma anche da quelli che scavano una galleria per arrivare alle fondamenta della fortezza per minare e fare esplodere il torrione. E quali sono le mine dei nostri assedianti? Il confidare in ciò che da solo non può salvare: la presunzione di un razionalismo senza ragione, la freddezza di un’ideologia senza umanità, di uno scientismo senza sapienza7, di un funzionalismo che riduce la dignità di un uomo alle sue capacità di prestazioni e di successo. Sono idoli falsi che «Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono»8 e non solo, sono, ma rendono ciechi coloro che, vanamente, li adorano. La speranza cristiana, invece, è fatta di fede e ragione: il cristiano può dire di sapere bene in chi ha riposto la sua fiducia, nel solo che ha «parole di vita eterna»9.


1 CCC, 1817 La speranza è la virtù teologale per la quale desideriamo il regno dei cieli e la vita eterna come nostra felicità, riponendo la nostra fiducia nelle promesse di Cristo e appoggiandoci non sulle nostre forze, ma sull’aiuto della grazia dello Spirito Santo. «Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è fedele colui che ha promesso» (Eb 10,23). Lo Spirito è stato «effuso da lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, Salvatore nostro, perché, giustificati dalla sua grazia, diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna» (Tt 3, 6-7).

2 Sal 146, 5

3 Ger 17, 5.

4 1Tm 1, 1.

5 Benedetto XVI, Spe salvi http://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/encyclicals/documents/hf_ben-xvi_enc_20071130_spe-salvi.html

6 Ibidem.

7 Annota san Giovanni Paolo II, in Fides et ratio: «Nell’ambito della ricerca scientifica si è venuta imponendo una mentalità positivista che non soltanto si è allontanata da ogni riferimento alla visione cristiana del mondo, ma ha anche, e soprattutto, lasciato cadere ogni richiamo alla visione metafisica e morale. La conseguenza di ciò è che certi scienziati, privi di ogni riferimento etico, rischiano di non avere più al centro del loro interesse la persona e la globalità della sua vita. Di più: alcuni di essi, consapevoli delle potenzialità insite nel progresso tecnologico, sembrano cedere, oltre che alla logica del mercato, alla tentazione di un potere demiurgico sulla natura e sullo stesso essere umano».http://www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/encyclicals/documents/hf_jp-ii_enc_14091998_fides-et-ratio.html

8 Sal 115, 5.

9 Gv 6, 68.

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Frate domenicano, appassionato di San Tommaso e San Paolo e di troppe altre cose. Serio ma non troppo. Mi piacciono i libri, i gatti e imparare da quelli che sanno più di me. Per contattare l'autore: fr.giovanni@osservatoredomenicano.it