Condividi

Pensieri ed umiliazioni

L’altro giorno, mentre pregavo la Liturgia delle Ore con la mia comunità, mi sono imbattuto nell’ennesimo frammento del salmo 118. Non me ne vogliate, ma spesso faccio fatica a rimanere concentrato cantando questo specifico testo; la ragione, oltre alle mie personali mancanze, sta nel fatto che è talmente lungo da essere stato suddiviso in diverse parti e sparso per tutte le quattro settimane dell’attuale partizione del salterio. Il risultato è che la tematica del salmo, che come naturale riecheggia in ogni sua sezione, finisce per ricomparire davanti agli occhi dell’orante con una certa regolare monotonia.

Per questo sono rimasto abbastanza sorpreso quando, accompagnato dalle familiari note del canto corale, mi sono trovato a rimuginare su due versetti di questo testo biblico, giungendo a prolungare la riflessione attraverso gli spazi di silenzio che separano la fine della preghiera dall’inizio del pranzo. Lascio a voi, cari lettori, l’onere di valutare la ricchezza dei frutti ottenuti, conservandomi tuttavia il diritto d’affermare che, abbondanti o scarsi che siano, sono stati un dono del Signore certo molto gradito.

Prima di andare avanti, penso sia meglio proporvi il testo in questione: «Bene per me se sono stato umiliato, perché impari i tuoi decreti. Bene per me è la legge della tua bocca, più di mille pezzi d’oro e d’argento»1.

Ora, la prima domanda che mi sono posto è quale connessione vi sia fra l’essere umiliati e l’apprendere dei decreti, delle leggi. L’immagine della seconda parte del testo mostra molto bene quanto prezioso sia l’oggetto di quest’apprendimento: il suo valore non viene quantificato ma, attraverso l’immagine iperbolica, viene posto su di un livello totalmente altro rispetto alle ricchezze umane. Mi sembra evidente quindi che il salmista non si riferisce semplicemente alla Legge mosaica in quanto codice legislativo, bensì ai medesimi giudizi intesi come espressione santissima della Volontà e Sapienza di Dio. Detto ciò, la questione rimane: per quale ragione l’umiliazione dovrebbe essere via, e via privilegiata, per l’apprendimento di questi sublimi decreti.

La risposta mi pare rintracciabile nella condizione prima di chi viene umiliato: non si tratta tanto della perdita di dignità o prestigio, effetti certo reali ma conseguenti; la radice dell’umiliazione si trova nella perdita di potere e nella conseguente debolezza. Chi viene umiliato difatti vive, prima ancora delle note conseguenze di tale esperienza, l’evidenza drammatica della propria fragilità e, come se non bastasse, ciò passa necessariamente attraverso la percezione di una potenza a lui superiore. L’umiliazione quindi altro non è che il riconoscimento, da parte dell’elemento più debole, dello squilibrio di forza sussistente all’interno di una relazione.

Vien da sé quindi che questa situazione, posto che rifletta un dato reale, non è in se stessa negativa in quanto rivela un aspetto oggettivo della realtà. Può tuttavia diventare sgradevole se si realizza una di queste due circostanze: da un lato lo squilibro può divenire occasione, per la parte più forte, di esercitare in modo iniquo il suo potere su di noi; dall’altra, riconoscere la nostra debolezza è certamente frustrante per le umane aspirazioni di dominio, legittime o meno che siano.

Quando la relazione in questione è con Dio, i due pericoli di cui sopra divengono, se ben compresi, delle preziose occasioni di crescita. Il fatto che Egli sia Amore e Sommo Bene rende impossibile anche solo concepire un uso illecito, brutale o arrogante della Sua Potenza; d’altro canto, non v’è nulla di più giusto e retto che riconoscere la legittimità del governo di Dio su di noi e quindi, di conseguenza, dismettere ogni pretesa di dominio personale. Ecco che quindi l’uomo umiliato dal Signore si trova arricchito da una duplice consapevolezza: quella dell’intrinseca Bontà dell’Onnipotente e della regalità che, con paterna sapienza, esercita su di noi.
Date queste premesse, non è difficile comprendere come un individuo arricchito in tal modo trovi semplice ubbidire ai comandi di Dio: ai suoi occhi, ogni singolo giudizio sarà infatti tanto legittimo quanto mosso da amorevole e provvida Volontà.

Il santo

Rimane tuttavia un dubbio: la reazione consequenziale all’essere umiliati che ho appena esposto è necessaria o solo possibile? Detto altrimenti, tutti coloro che sperimentano la spesso cruda esperienza della propria debolezza vengono posti sulla via del totale affidamento al Signore? Se la risposta fosse positiva, allora dovremmo ammettere che non tutti gli esseri umani si riconoscono come fragili e vulnerabili ma che ve ne sono alcuni capaci di vivere nella convinzione della propria onnipotenza senza mai mettersi in discussione. Questi uomini ipotetici sarebbero infatti necessari per giustificare il gran numero di persone che non credono in Dio né paiono incamminate verso di Lui. Tale ipotesi tuttavia non è accettabile, poiché l’incontro con la propria debolezza è un’esperienza umana universale e fondamentale. Tutti noi infatti, forse anche prima del raggiungimento della completa età della ragione, sperimentiamo in modo drammatico lo iato esistente fra le nostre forze e la schiacciante potenza di una realtà che rifiuta di piegarsi al nostro dominio. Una simile consapevolezza, conscia o meno che sia, è essenzialmente umana, a prescindere dal fatto che si giunga o meno a scorgere nell’altro da sé il volto del Signore.

Da ciò dobbiamo concludere che il percorso esposto dal salmo, che dall’umiliazione porta alla fede è, per quanto splendido, solo un possibilità. La vera domanda che dovremmo porci quindi è quali scelte individuali determinano, sulla base di una medesima esperienza, esiti tanto differenti quanto lo sono le vite di un santo e di un empio. In altre parole, se tutti veniamo umiliati, perché solo alcuni sfruttano l’esperienza per conoscere2 la Legge di Dio?

Per rispondere, torniamo un attimo all’analisi di cui sopra; si è visto che i benefici dell’umiliazione derivano sostanzialmente dal riconoscere nell’altro da noi che ci schiaccia la benevola natura di Dio. Solo in quel caso infatti siamo in grado di considerare la forza percepita come un elemento completamente positivo ed affidabile.

Questo è sostanzialmente l’esito del santo il quale, sulla base della fede che ha ricevuto, trova nella propria debolezza l’occasione tanto per comprendere dove ed in che modo attingere maggiore potenza quanto in quale direzione indirizzarla. Scoprendo a partire dalla propria fragilità la provvida presenza di Dio, il giusto si rende anche conto che da Lui può attingere un vigore ineguagliabile e, cosa ancora più importante, ha finalmente l’occasione di comprendere a cosa davvero serva una tale forza. Nella Legge di Dio, espressione della Sua Volontà, egli trova la via ad una perfetta comunione d’intenti e d’azione con il Signore; questo gli consente di far propri non solo gli obiettivi ai quali la Divina Potenza è indirizzata, ma anche tale Potenza stessa che Dio, nella Sua Bontà, mai farà mancare a coloro che lo servono.

Vien da sé quindi che l’elemento dirimente, capace di rendere fruttuosa o meno l’esperienza dell’umiliazione, è la fede, alla cui luce siamo in grado di scorgere la realtà del mondo e dell’uomo nella sua profonda verità. Sempre grazie alla fede diveniamo anche in grado di rispondere da un lato all’umano desiderio di ovviare alla nostra debolezza e dall’altro alla domanda circa il vero scopo della nostra forza.

L’empio, il grigio ed il tenebroso

Qual è invece l’esito di chi manca nella fede, di coloro che in questo altro da sé possente ed inarrivabile non riconoscono Dio? Questa domanda non è soltanto un’interrogazione oziosa, bensì qualcosa che riguarda tutti noi in una qualche misura. Anche se infatti la Scrittura tende, per evidenti ragioni di efficienza esplicativa, a contrapporre in modo netto l’empio al giusto3 in verità nessuno è totalmente santo o totalmente peccatore4. Ecco che quindi se a volte lo scandalo della nostra debolezza ci porta a scorgere le altezze della Divina Provvidenza, vi sono sempre occasioni in cui invece i nostri occhi si chiudono e di quelle esperienze riusciamo a vedere solo le tenebre. Ecco che quindi comprendere le possibili reazioni ad una simile chiusura potrà permetterci di gettar luce anche su ciò che soggiace ai nostri peccati.

Proverò quindi a presentare tre categorie, tre modalità di reazione ad una visione negativa dell’umiliazione, che vadano ad affiancarsi all’unica davvero positiva, ossia quella del giusto. Se quest’ultimo trova in Dio la sua forza e nella carità il suo fine, le tre risposte negative si configureranno come differenti soluzioni alla necessità di uscire dalla debolezza e di trovare uno scopo al nostro agire.
La prima, e più semplice, è quella dell’empio propriamente detto. Per comprendere bene la genesi di questa specifica risposta, può aiutarci il salmo 48, nel quale troviamo questi due versetti: «Essi (i malvagi, ndr) confidano nella loro forza, si vantano della loro grande ricchezza. […]Ma nella prosperità l’uomo non dura: è simile alle bestie che muoiono»5.

Vediamo subito che alla prima necessità l’empio risponde cercando la propria potenza sul piano orizzontale; è indifferente che s’illuda di trovarla in se stesso o in altre persone: la sola cosa che conta è che mai farà affidamento ad un altro da sé che lo trascenda, che si ponga su di un differente livello. Questa scelta lo pone sullo stesso piano degli animali i quali, potendo per natura contare solo sulle proprie forze, sono inevitabilmente destinati alla morte. Inoltre, esattamente come le bestie, l’empio concepisce la propria potenza come finalizzata a procurargli beni e piaceri terreni, i soli che è in grado di concepire.

Possiamo quindi leggere, dietro al termine “ricchezza” del salmo, un riferimento a tutto quell’ambito di beni caduchi cui ognuno di noi tende a volgere il cuore. Intendiamoci, non si tratta solo di cose futili e disprezzabili ma anche di elementi, come la famiglia, cui giustamente tributiamo una grande importanza. Tuttavia, e questo è il punto, sono tutti beni caduchi, destinati a passare e che quindi non possono davvero rispondere a quella brama di bene perfetto che muove l’uomo6.

Se l’atteggiamento empio, nella sua totale chiusura al divino, segna certamente il punto più basso, ferale appunto, cui un essere umano può giungere, le altre due possibilità, proprio per la loro parziale, e quindi apparente, apertura al Signore sono molto più insidiose. Partiamo da quello che mi piace chiamare il santo grigio. Si tratta di persone che, per una qualche via, giungono a comprendere che solo nell’amore, nella caritatevole apertura verso il prossimo, ogni potenza umana trova la sua vera ragion d’essere. Nell’amare, tanto nel piccolo quanto nel grande, sperimentano l’illusione dell’infinito poiché soluto pare loro il paradosso d’una carità che vuole riempire l’uomo chiedendogli di svuotarsi. Il vero problema è che cercano la forza necessaria ad amare nell’uomo.

Ricordiamoci che queste persone, o meglio quest’insidioso atteggiamento così comune al giorno d’oggi, giungono da una mancanza di fede, dal rifiuto di affidarsi a quella Divina Potenza percepita ma non riconosciuta. Quando pretendiamo di scalare le impervie vette della carità con le nostre sole forze, siamo simili a quegli stolti che affrontano l’Everest solo con cappotto, scarponi e snack; arriverà senza dubbio, presto o tardi, il momento in cui le nostre energie verranno meno e allora, quando cadremo, la nostra rovina sarà grande7.

Commettiamo questo errore di solito quando pensiamo che l’aiuto del Signore ci serva solo per alcuni atti d’amore e non per altri; ci convinciamo cioè che Dio sia una sorta di aiuto da casa da utilizzare solo in caso di emergenza e non comprendiamo invece che ogni seme di carità è sterile senza di Lui. Penso che questo sia tragicamente evidente nel matrimonio: molti coniugi si uniscono promettendo d’amarsi fino alla morte, in qualunque circostanza, ma non riflettono sul fatto che questo, senza l’aiuto di Dio, è praticamente impossibile.

A questo punto avrete compreso che il terzo ed ultimo atteggiamento negativo è quello di coloro che colgono la necessità di affidare la propria debolezza ad un potere superiore ma non si volgono ad una vita di carità; questi possiamo chiamarli i santi delle tenebre. Ciò che va a loro merito è l’aver compreso che l’umana fragilità è parte essenziale della creaturalità e che ciò comporta un’inevitabile dipendenza da quello che, o da colui il quale, è naturalmente forte. Il problema è che non comprendono la vera natura, il reale scopo di questa potenza; ancora ferali, la vedono semplicemente come uno strumento utile per procurarsi quei beni di cui si sentono manchevoli. L’assurdo paradosso di cui sopra non solo non viene da loro risolto ma è addirittura rifiutato, rigettato a favore di una forza concepita non per servire ma per dominare, non per dare ma per prendere. Inutile dire che una simile finalità renderà per loro impossibile accettare il rapporto con Dio così come la fede cristiana lo propone. Tanto Cristo, pateticamente debole sulla croce, quanto i vaneggiamenti dei suoi servi8saranno derisi e rifiutati a favore di un dio che risponda alle loro aspettative.

Un simile atteggiamento, abbastanza comune nella concezione pagana del rapporto con il divino, ai giorni nostri trova due possibili incarnazioni: una, abbastanza frequente, è quella di chi distorce l’immagine di Dio trasmessa dalla Chiesa, riducendoLo al mero fornitore di servizi che desidera. Questa semplificazione del Mistero non appartiene solo a coloro che, pur affermando di credere, rifiutano la complessità della Rivelazione, ma anche a quei cristiani che, inconsciamente, vivono tanto la preghiera quanto i sacramenti semplicemente come occasioni per chiedere favori. Costoro, in fondo, non cercano di costruire un vero rapporto con Dio, che abbracci l’interezza della loro esistenza, bensì solo di sfruttare la Sua Potenza per avere qualcosa altrimenti al di fuori dalla loro portata.

L’altra incarnazione è quella dei maghi, ossia di tutti coloro che, consciamente o meno, fanno affidamento sulle potenze diaboliche per ottenere la conoscenza ed il potere utili ai loro scopi. Anche se la confusione fra il divino ed il preternaturale è certo più grave e pericolosa della semplice riduzione di Dio, dobbiamo ricordare che il ragionamento che muove ambedue gli errori è il medesimo: il divino serve a rendere possibile quel bestiale desiderio d’onnipotenza che l’uomo condivide con ogni animale.

L’ho detto e lo ripeto: guardando con onestà alla nostra vita spirituale, tutti potremo riconoscere ognuno di questi tre errori nel nostro agire e volere, pur se in diversa misura, così come potremo scorgere anche la luce dell’unica scelta corretta. Se quindi questa mia piccola analisi vuole essere anche uno strumento utile ad ognuno per comprendere la profondità dei propri moti interiori, non dobbiamo mai dimenticare che una di queste quattro vie finirà inevitabilmente per rappresentarci. Il cristiano quindi, pur riconoscendo con quanta facilità può scivolare verso una delle tre visioni erronee, dovrà sempre ricordare che la sua lettura dell’umana fragilità è, e deve rimanere, quella di Cristo. Egli dovrà sempre sforzarsi di scorgere nella sua croce il principio della manifestazione della Potenza di Dio, la splendida alba dalla quale sorgerà il perpetuo astro della carità, alla cui luce ogni fragilità è potenza.


1 Sal 118 (119), 71-72.

2 Nella terminologia biblica la parola “conoscere” non indica semplicemente il possedere una nozione ma, in modo molto più ampio, aver fatto dell’oggetto conosciuto una parte della propria esistenza. Ecco che quindi Adamo, nel conoscere Eva in Gen 4, 1, sperimenta la profondissima unione del rapporto carnale matrimoniale e Cristo, nuovo Adamo, affermando di conoscere ed essere conosciuto dal Padre in Gv 10, 15, parla della perfetta comunione della Vita Trinitaria. Allo stesso modo l’apprendimento di cui parla il salmista non è di tipo semplicemente nozionistico ma implica un’interiorizzazione sapienziale della Legge.

3 Cf Sal 36 (37), 12 e 32.

4 Cf Lc 18, 9-14.

5 Sal 48 (49), 7 e 13.

6 La famiglia per esempio, il cui amore certo perdura nella vita beata, tuttavia nella sua piacevole e desiderabile forma di relazione terrena è destinata a finire, vuoi con la nostra morte o con quella dei familiari.

7 Cf Mt 7, 24-29. L’immagine delle due case, una sulla roccia ed una sulla sabbia, ben comunica il problema di fondo di questa via. I santi grigi hanno colto la bontà del fine, l’edificazione della casa, ma hanno sbagliato nello scegliere dei mezzi, il terreno sabbioso appunto, inadeguati. Il crollo è inevitabile.

8 Cf Lc 23, 35 e 2Cor 12, 10.

Non perderti nessun articolo!

Per restare sempre aggiornato sui nostri articoli, iscriviti alla nostra newsletter (la cadenza è bisettimanale).

Quando il Signore mi venne a cercare, la mia mente vagava confusa nei caldi spazi dell’inedia, talmente carica di nulla da non poter portare altro con sé. Il mio corpo invece si preparava ad un indefinito inverno nella città di Ancona, gioiello del medio Adriatico (si fa per dire). Nella patria del pesce e del “mosciolo”, per un leggiadro scherzo della Provvidenza, sono nato quasi trentadue anni fa con una sentita inimicizia fra me e qualunque carne marina. La chiamata del Signore mi vide studente in storia ed appassionato consumatore di storie: racconti di tutti i tipi e narrati da aedi di tutte le arti. Ora che lo Spirito mi ha indirizzato nella famiglia di San Domenico ho posto questo mio nulla nelle mani della Vergine Maria e del caro Castigliano e chiedo loro quotidianamente di mostrarmi in ogni storia, vera o immaginaria, la traccia del Divino che lì soggiace. Ora che sto a Bologna studio come studiando rendere omaggio a Dio. Per contattare l'autore: fr.giuseppe@osservatoredomenicano.it