Chi gioca non dorme
Una delle tendenze che maggiormente accomuna gli esseri umani è quella che li porta a semplificare la realtà circostante. L’uomo, forse memore di quel dominio sul mondo che perdette con il peccato1, spesso non cerca tanto la conoscenza in se stessa, quanto una forma di sapere che gli permetta di esercitare un pieno e totale controllo sul mondo. Ora, siccome la creazione, tanto nella sua totalità quanto nei singoli ambiti, trascende le umane possibilità di dominio, ecco che ci rifugiamo in versioni semplificate del reale che, quantomeno nella nostra mente, si piegano ad ogni nostro comando.
Uno dei segni più comuni di questa tendenza è la descrizione di un oggetto attraverso coppie di concetti dialetticamente opposti; dovendo, per esempio, descrivere l’uomo, si tenderà a farlo contrapponendo un elemento materiale, il corpo, con uno spirituale, l’anima, ignorando l’infinita e complessa serie di relazione nelle quali questi due aspetti s’intersecano. Non si tratta quindi di condannare l’uso di tali concetti ma di evitare di passare da una distinzione, che non esclude interazioni, ad una divisione; in quest’ultimo caso infatti i due differenti aspetti dell’oggetto diverrebbero invece altrettanti mondi inerenti il medesimo, tanto autonomi quanto distanti.
Ciò che ho appena descritto è quello che, secondo me, accade nell’ambito della narrativa, perlomeno di quella contemporanea. Con questo termine io non intendo riferirmi solo alla letteratura, bensì a tutte quelle forme d’arte che, attraverso la narrazione di una vicenda, vera o immaginaria che sia, cercano di raggiungere il loro fine all’interno di una relazione viva con il loro pubblico. Sto quindi parlando anche del cinema, del teatro, dei fumetti e, estendendo arditamente il concetto, di certa letteratura storica di divulgazione. All’interno di questa categoria vediamo oggi consumarsi una di quelle descrizioni dialettiche di cui sopra nella separazione fra una narrativa impegnata ed una narrativa d’intrattenimento. In breve, con la prima ci si riferisce ad opere il cui fine è quello di descrivere realtà importanti e stimolare su di essere una riflessione guidata dall’autore; con la seconda invece s’intende identificare tutto quel vasto ambito di prodotti il cui scopo è divertire, rilassare e distrarre l’utenza.
Non è difficile rilevare come questa suddivisione abbia solide fondamenta: anche escludendo la più o meno implicita distinzione operata dal mondo della critica specializzata, è sufficiente soffermarsi sullo stato d’animo con cui fruiamo simili opere. Quelle più impegnative certamente ci costringono ad uno sforzo mentale che le rende tanto stimolanti quanto spesso faticose; i prodotti d’intrattenimento invece hanno il potere di garantirci quel prezioso e raro tipo di riposo proprio della mente, più simile forse al gioco che al sonno. Tuttavia, data questa realtà, penso che l’errore si collochi non tanto nei raggruppamenti in sé stessi, quanto nella loro relazione con l’attività dell’utente.
Se da un lato è evidente che la narrativa d’intrattenimento nasce da un fine differente rispetto a quella più impegnata, dall’altro è errato considerare l’essere umano che ne fruisce come diviso in compartimenti stagni. In altri termini, è vero che un volume a fumetti di Batman2, per esempio, ha come obiettivo quello d’intrattenere il lettore con storie avventurose e divertenti, ma è altrettanto vero che nulla gl’impedisce, nel frattempo, di comunicare qualche spunto di riflessione. Ciò è possibile perché la mente di chi legge quell’umile volume a fumetti riposa ma non dorme ed è quindi in grado di cogliere la presenza di contenuti più profondi. Inutile dire che ciò vale anche all’opposto e ci permette di comprendere quanto belle siano quelle opere che, pur avendo lo scopo di farci riflettere, non rinunziano ad una narrativa appassionante3.
Ratcatcher
Questa premessa mi consente di giustificare la seguente affermazione: quando si fruisce di un’opera narrativa d’intrattenimento è non solo possibile ma anche edificante cogliere, laddove presenti, quegli spunti di riflessione la cui profondità spesso trascende grandemente l’opera medesima. Non si tratta, badate bene, di forzare il materiale che abbiamo davanti, di spremerlo di modo da estrarne per forza qualcosa di profondo; è invece il mio un richiamo ad avere una mente aperta ed umile di fronte ad una realtà che, data la sua complessità, può sorprenderci. Il saggio utente quindi, in questo caso, non è colui che riesce a scorgere del profondo in ogni cosa che vede, bensì chi è disposto a lasciarsi stupire dalle isolate perle che gli autori pongono anche nelle opere più semplici. Un simile atteggiamento mentale, il solo credo davvero rispettoso della realtà, apre all’uomo un mondo ben più vasto di quanto possa immaginare, un creato dove la sapienza non risplende solo nella perfezione del cielo ma riluce anche nelle isolate gemme che la terra dona.
A tal proposito vorrei parlarvi di un film che incarna perfettamente la realtà di cui abbiamo parlato. Si tratta di The Suicide Squad, diretto nel 2021 dal regista statunitense James Gunn ed interpretato da Idris Elba, Margot Robbie, John Cena e Viola Davis. Il film, liberamente ispirato all’omonimo gruppo di antieroi dalla DC Comics, narra la storia di un team di criminali violenti e disturbati, dotati di capacità sovrumane, che, dietro la promessa di una cospicua riduzione della pena, si lanciano in missioni ad altissimo rischio. Il governo degli Stati Uniti, organizzatore dell’iniziativa, li controlla attraverso un ordigno impiantato nelle loro teste e pronto ad esplodere in caso di fuga o ribellione. L’opera cinematografica, così come il fumetto, ha il pregio da un lato d’inserire gli antagonisti delle comuni storie di supereroi in contesti loro estranei, dall’altro di dar vita a racconti carichi di un’ironia e di uno humor nero non comuni nei prodotti del genere4.
Il film sfrutta molto bene le peculiari caratteristiche del gruppo mischiando sarcasmo ed azione ad una divertente dose di follia. Apparentemente si presenta quindi come un semplice prodotto d’intrattenimento, capace di rallegrare una serata proponendo una prospettiva sul genere supereroistico totalmente ribaltata. Eppure c’è anche qualcosa di più.
Il team comprende anche una ragazza, Cleo Cazo, capace, attraverso uno speciale strumento, di richiamare e controllare i ratti. Ella si presenta con il nome di battaglia di Ratcatcher, da lei ereditato da suo padre, geniale quanto povero inventore portoghese che utilizzava questo potere per rubacchiare e sopravvivere in strada con la figlia. La vicenda di questo personaggio viene gradualmente sviluppata dalla pellicola attraverso brevissimi flashback e, nonostante l’ironia e la brutalità propria del film, è in grado di parlare con insospettabile dolcezza e maturità di un tema complesso come quello della paternità. Il primo Ratcatcher infatti, nonostante i suoi limiti e le sue mancanze, è stato in grado non solo di amare davvero sua figlia ma anche di trasmetterle un insospettabile ottimismo nei confronti della vita, un atteggiamento mentale che gradualmente emerge nella narrazione finendo per contrastare il cinismo ed il distorto senso di paternità del protagonista, l’assassino Bloodsport.
È interessante notare come allo svilupparsi della vicenda centrale del film corrisponda anche il graduale svelarsi di questa delicata storia personale. Verso la fine della pellicola infatti, poco prima che Ratcatcher sconfigga l’antagonista di turno con l’aiuto dei suoi ratti, il regista ci propone un brevissimo flashback nel quale Cleo, ancora bambina, sente da suo padre queste parole: «I ratti sono i più infimi e i più disprezzati tra gli animali, amore mio: se hanno uno scopo loro, ce lo abbiamo tutti»5.
Un nuovo mondo
Questa breve frase non è solo il tenero sunto di un complesso rapporto padre-figlia, bensì forse la chiave di lettura dell’intero film; non a caso quindi viene svelata proprio nel momento in cui lo spettatore, di fronte alle imprese dei protagonisti, finisce per dimenticarsi che non sono supereroi quelli che sta guardando. Difatti, al di là dell’ironia che, lo ripeto, pervade l’intera opera, ciò che sta alla base di un’iniziativa perversa come quella della suicide squad è la volontà di dare un senso a vite e potenzialità altrimenti considerate inutili. I criminali, esattamente come i ratti, vengono valutati esclusivamente all’interno di un rapporto di utilità con il resto della società: dimostratisi dannosi, proprio come i roditori, la loro esistenza diventa immediatamente un problema da risolvere e le vie possibili paiono essere solo due, ossia l’eliminazione o il semplice uso.
Naturalmente il genere dell’opera tende ad esasperare questa visione della realtà, dando vita ad esiti volutamente paradossali; tuttavia è un fatto che nel momento in cui un essere umano cessa, per qualche ragione, di essere utile e produttivo per la società, finendo per divenire invece un peso, la questione del giusto rapporto da tenere con lui si pone con prepotenza. L’accostamento di questi ultimi con i ratti, ossia con animali la cui esistenza è il più delle volte percepita solo come un fastidio, porta con se un importante suggerimento di riflessione. Ci aiuta cioè a comprendere come la domanda soggiacente all’intera questione sia in qualche modo esistenziale; volendo semplificare, la si potrebbe così formulare: «Perché Signore consenti a queste persone, a questi ultimi il cui peso rischia di tirarci a fondo con loro, la medesima esistenza che io onoro?».
So bene che nessuno si è mai posto un simile quesito in questi termini, ma so anche, per personale esperienza, che la mente di tutti coloro che hanno dovuto portare il peso degli ultimi si è, prima o poi, trastullata con qualcosa di simile. Non importa che questi emarginati siano detenuti, anziani o semplici malati; il punto è che la difficoltà che incontriamo nel portare il peso della loro fragilità rischia sempre di divenire un assoluto, di ridurre la loro stessa esistenza, almeno nelle nostre menti, alla fatica generata dalla loro presenza. Se vogliamo, si tratta anche qui di una riduzione, della tragica semplificazione della realtà che ci porta a riassumere intere vite, tutta la perfezione di un essere umano, nel peso che la sua presenza aggiunge alla nostra croce.
Seguendo questa riflessione il film pare quasi cambiare aspetto. Riusciamo a vederlo non più solo come la divertente storia di un gruppo di cattivi che cercano di fare gli eroi, bensì come lo splendido racconto di un manipolo di esseri umani il valore della cui esistenza si rivela, nel momento del bisogno, proprio a quelle persone che in modo perverso cercavano di ovviare alla loro inutilità.
La dolce massima di Ratcatcher, facendosi carico dell’intera vicenda umana del film, finisce per mostrarci un mondo luminoso, ricco, pieno di tesori preziosi spesso celati allo sguardo dei più. Seguendo questa piccola perla di saggezza finiamo con il sentirci spinti non tanto a cercare un valore negli altri, quanto a confidare fiduciosi nella sua presenza. Il cristiano, di fronte ad un simile invito, non può non ricordare le parole del Vangelo: «Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri!»6. Molto simile è il contenuto profondo di questi versetti di san Matteo e dell’umile citazione del nostro film: in ambedue i casi siamo spronati a scorgere l’intrinseco valore in tutto ciò che esiste, avvenimento o creatura che sia. Le parole del Signore tuttavia esplicano il fondamento profondo di questa fiducia, quello stesso che, ne sono convinto, soggiace ad un qualche livello anche alla frase in questione: l’Amore di Dio, che si manifesta nella Sua Provvidenza, è il motore dell’esistenza di ogni cosa, tanto delle grandi quanto delle più umili; per questo possiamo con fiducia vivere sapendo che la medesima Divina Volontà ha ordinato al bene sia la forza che la debolezza, tanto i primi quanto gli ultimi.
Non penso sia il caso di andare oltre; confido che questo piccolo spunto possa essere la base della personale riflessione di ognuno. Concludo semplicemente dicendo che la prospettiva proposta da Ratcatcher è, in fondo, quella che ogni credente dovrebbe avere: uno sguardo luminoso, semplice e penetrante, di fronte al quale il mondo non è una mera bilancia di forza bensì uno straordinario affresco nel quale ogni pennellata, anche la più piccola, vale quanto la perfezione del tutto.
1 Gen 1, 26.
2 Si tratta del noto supereroe creato da Bill Finger e Bob Kane per la DC Comics nel 1939 ed apparso per la prima volta nel numero 27 di Detective Comics. Vera icona del genere, ha avuto differenti incarnazioni cartacee e cinematografiche negli anni, opere capaci di far sbocciare il talento di scrittori, disegnatori, registi ed attori. Ciò testimonia perlomeno la ricchezza e la profondità del personaggio, le cui incarnazioni hanno mantenuto sempre un alto grado di connessione con la realtà sociale corrispondente; cf Wikipedia, voce “Batman”, consultata l’11/09/2022.
3 Se ne potrebbero fare numerosissimi esempi in ogni ambito narrativo; a mio parere è indicativo in tal senso un film come Interstelllar, diretto nel 2014 dal regista britannico Christopher Nolan. Le differenti tematiche emergenti dalla pellicola sono portante avanti da un ritmo narrativo appassionante e coinvolgente che rende la fruizione anche piacevole; cf Wikipedia, voce “Interstellar”, consultata l’11/09/2022.
4 Cf Wikipedia, voce “The Suicide Squad”, consultata l’11/09/2022.
5 In lingua originale la frase suona così: «Rats are the lowliest and most despised of all creatures, my love. If they have purpose, so do we all».
6 Mt 10, 29-31.