Prosegue il racconto Il piccione, la cui prima parte si può leggere su questo link

Porte e profezie

Il piccione si allontanò, forse illudendosi di poter mutare con la tenacia l’ineluttabilità del suo destino. Federico si accasciò sulla panca, improvvisamente stanco, e lo guardò sparire con indifferenza fra i massicci colonnati. Si volse a destra e fissò per alcuni istanti la rivoltante brodaglia biancastra che si rapprendeva sul tessuto rosso dei suoi paramenti. Quando realizzò cosa fosse accaduto, il suo primo pensiero, nato nella prevedibilità dell’istinto, fu di spogliarsi immediatamente; tuttavia ben presto l’avviluppò una strana indifferenza, una calma certamente non figlia semplicemente dell’allontanarsi del volatile.

Per qualche ragione la mente dell’anziano si volse ai racconti degli antichi profeti, a quei gesti folli, ridicoli e ripugnanti con i quali questi uomini di Dio non solo attiravano ma istruivano le folle. Ogni volta che li leggeva e meditava si concentrava sull’effetto che queste catechesi mimiche avevano su chi le osservava, tanto sull’ignaro israelita dell’antichità quanto sull’odierno lettore cristiano; non aveva mai considerato che il profeta stesso potesse, magari nell’intimità della notte, riflettere su di esse. In fondo quegli atti, per quanto da lui compiuti e vissuti, non gli appartenevano davvero ma, simili forse a curiosi accadimenti, invadevano con vigore la sua esistenza lasciandolo certamente pieno egli stesso di domande.

Federico sapeva bene di non essere un profeta, tuttavia si trovò a pensare a quanto l’imbarazzante scontro con il piccione somigliasse al segno vissuto da uno di quegli antichi santi. Forse la sua mente lo stava semplicemente ingannando, cercando un significato in una banalità buona solo per ridere di fronte ad un caffè; eppure quello che sentiva dentro non era né il fuoco dell’irritazione né il sussultante piacere del riso. Ciò che sbocciava lentamente nel suo cuore aveva il suono di quella pace che lo pervadeva quando la nota vibrata da Dio, celata dietro suoni più profondi di molti silenzi, finalmente riempiva il suo animo, lambendo anche tutto il cosmo che passava da quell’uscio.

«E se quella parola che ogni mattina attendo camuffata da fugace pensiero» si chiese l’anziano «avesse oggi scelto un nuovo sembiante?»

A volte le persone scoprono che amare una possibilità è il modo migliore di riconoscere una realtà non evidente. Quello che chiamiamo istinto, figlio d’una sapienza abituale, altro non è in fondo che la capacità di scegliere senza esitare delle verità che, seppur tali, possono apparire velate dall’incertezza. Fra Federico non se ne rese conto, ma quella mattina fu saggio e, senza troppa esitazione, amò la possibilità che quel bizzarro incontro, se ascoltato con fede, avesse qualcosa di alto da dire.

L’elemento che maggiormente lo colpì fu la nuova luce che l’uccello aveva involontariamente gettato sulla bella basilica da lui per decenni servita. Quell’antico edificio, che per tanti era stato, com’era ancora, un luogo di vita, una roccia bagnata d’agognata acqua spirituale, per quel povero animale non era altro che un deserto, un’orrida regione nel cui sepolcrale biancore era già iscritta una sgradita promessa di morte.

Questo bizzarro ribaltamento di prospettiva acquisiva tuttavia un senso più pieno spogliando il piccione della sua semplice realtà animale per svelarne la natura di segno. Quasi per caso lo sguardo del vecchio si posò su di un antico dipinto dove, sospesa sopra un Cristo orante e ieratico, una splendida colomba bianca discendeva portando, inscritta nelle sue piume, la gloria e la potenza dello Spirito Santo. Quell’immagine tradizionale del battesimo evidenziò, al cuore aperto del religioso, il collegamento esistente fra quel mirabile uccello e la vita nuova che, nella potenza del sacramento, infondeva in ogni battezzato una seconda nascita. Se da un lato la bianchezza del volatile ben rappresentava la purezza dell’umanità rinata, dall’altro le sue ali, sempre spalancate nelle rappresentazioni, parevano invocare la mobilità e la libertà proprie dei figli di Dio.

In verità, si disse Federico, non si trattava di elementi separati, bensì di due differenti aspetti della medesima realtà. Se infatti da un lato la purezza, propria di chi compie la Volontà di Dio, non può prescindere dalla necessità dell’amore di muoversi, di tendere verso il suo oggetto, dall’altro il moto dell’uomo è in sé vitale solo se ha sempre come destinazione la carità. Se quindi, concluse il frate con il cuore gonfio, timoroso di smarrire la via imboccata, una colomba rappresenta non solo il Santo Spirito ma anche l’uomo che vive di Lui, cosa dire dell’umile piccione?

Questo diveniva, alla luce di simili riflessioni, immagine perfetta dell’uomo immerso nel peccato. Nel grigio del suo piumaggio era difatti ben semplice scorgere il simbolo d’una bianchezza perduta, tanto antica da essere dimenticata, divenuta forse incomprensibile se non nella sua assenza. D’altro canto un animo aperto ai Divini Sussurri era in grado di scendere anche più in profondità, leggendo nell’erratico moto dello sfortunato volatile il segno del vano consumarsi della vita del peccatore. Chi infatti non cerca d’amare Dio vive vagando la prima sua condanna, un tormento di cui spesso non si rende conto finché, spoglio di forze e di speranze, non inizia a vedere nella vita stessa una perversa prigione, un deserto la cui indifferenza abbraccia anche l’accasciarsi ed il morire.

Fra Federico ringraziò nell’intimo il Signore per simili riflessioni ma non si mosse dal posto: qualcosa di profondo gli sussurrò che ancora non era finita, che la profezia doveva essere ancora sciolta del tutto. Comprese il senso di quel muto richiamo quando ripensò alla basilica, al suo essere per quel volatile crudele deserto.

«È possibile» si domandò l’anziano «che il luogo dove, ricolma dello Spirito, l’anima impara a volare si tramuti anche nel sepolcro ove essa deperisce?»

Una domanda inquietante, la cui risposta gli richiamò alla mente non tanto una facile condanna di quel prezioso contesto ecclesiale dove l’uomo rinasce in Cristo, quanto uno sguardo inquieto su quelle porte che pretendono di delimitarne i confini. L’uomo nuovo, puro e libero di compiere il bene che il Signore gli pone fra le dita, può infatti prosperare nella Chiesa solo se non incontra portali chiusi, se questa concepisce come proprio limite esclusivamente la Divina Volontà. Ecco che allora coloro che decidono di sigillare il loro nuovo io nella buia sicurezza d’un contesto circoscritto altro non fanno che preparare due tombe: una per la vita nuova, costretta a sfibrarsi in un volo senza scopo e nutrimento, ed una per la vecchia che, nuovamente priva di ali, altro non può che gettarsi in mare.

Fra Federico udì la serratura della grande porta girare docilmente all’educata udienza richiesta da una nuova chiave. Si alzò, poggiandosi pesantemente al bastone, e volse il capo in direzione dell’uscio senza riuscire a mascherare un sorriso. L’irritazione di poco prima, assieme all’agitazione che l’aveva accompagnata, gli parve improvvisamente sciocca, banale come il capriccio d’un bambino. Provò a rammentare perché avesse avuto una tale fretta, ma senza successo; ricordava d’esser stato invaso dalla bruciante necessità di muoversi, di cercare, come se il tempo fosse poco e la via giusta ancora lontana dall’essere trovata. Che il suo cuore fosse in verità chiuso al Signore al punto da divenire un arido sepolcro, un luogo nel quale la vita che gli era stata donata si dimenava braccata dalla morte? Forse era proprio questo il vero volto dell’odierna fretta: un disperato timore che il tempo fosse troppo poco per trovare quella pace posta al di fuori di esso.

Fra Federico ringraziò Dio, anche se non era certo di come l’avesse salvato stavolta. Con calma e serenità si diresse dal giovane confratello appena arrivato, desideroso di togliersi la casula sporca; prima però andò verso il portone della basilica e con gioia l’aprì.

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fr. Giuseppe Filippini
Quando il Signore mi venne a cercare, la mia mente vagava confusa nei caldi spazi dell’inedia, talmente carica di nulla da non poter portare altro con sé. Il mio corpo invece si preparava ad un indefinito inverno nella città di Ancona, gioiello del medio Adriatico (si fa per dire). Nella patria del pesce e del “mosciolo”, per un leggiadro scherzo della Provvidenza, sono nato quasi trentadue anni fa con una sentita inimicizia fra me e qualunque carne marina. La chiamata del Signore mi vide studente in storia ed appassionato consumatore di storie: racconti di tutti i tipi e narrati da aedi di tutte le arti. Ora che lo Spirito mi ha indirizzato nella famiglia di San Domenico ho posto questo mio nulla nelle mani della Vergine Maria e del caro Castigliano e chiedo loro quotidianamente di mostrarmi in ogni storia, vera o immaginaria, la traccia del Divino che lì soggiace. Ora che sto a Bologna studio come studiando rendere omaggio a Dio. Per contattare l'autore: fr.giuseppe@osservatoredomenicano.it

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