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Le imprese del mattino

Fra Federico girò per l’ennesima volta la chiave nella toppa ricevendo, nel prezioso silenzio del mattino, la solita irriverente risposta. La piccola serratura metallica, poco più di un bottone opaco sull’enorme porta di legno intarsiata, rimase ostinatamente ferma nella sua posizione, rifiutandosi infantilmente di piegarsi a quel pur ragionevole ordine. L’anziano frate, pesantemente appoggiato sull’asettico bastone tripodico, liberò la piccola chiave e si drizzò lentamente, ignorando i borbottii indispettiti della sua schiena. Gli pareva di essere lì da ore anche se probabilmente non dovevano essere trascorsi che pochi minuti dal suo arrivo. Ogni mattina sperava che quella maledetta porta si aprisse al primo tentativo e quasi ogni volta si ritrovava a masticare imprecazioni come se quel piccolo oggetto lo deridesse fra i denti.

Federico imprecò fra sé, la voce sommessa ed il tono borbottante di chi non s’aspetta d’essere udito; si rigirò la chiave fra le dita e, non senza una certa feralità, la conficcò con violenza nella serratura. Abbandonò la sicurezza del tripode e, facendo forza con ambedue le mani, cercò di vincere la resistenza di quell’ostinato guardiano. La lotta andò avanti alcuni secondi, durante i quali il religioso si trovò quasi a desiderare che quella dannata chiave si spezzasse: almeno, così si disse irritato, avrebbe avuto una scusa per chiamare qualcuno senza sembrare un inetto. Stava quasi per mutare quella speranza in proposito quando, inaspettatamente, la serratura cedette e la grande porta, estranea alla miserabile contesa, si aprì con ostentata indifferenza.

L’anziano recuperò la chiave, spalancò l’ingresso e, nuovamente assicurato al fido bastone, varcò la soglia. Immediatamente la frescura della grande basilica l’assalì, penetrando familiare fra gli indumenti e strappandogli, nonostante il caldo, un leggero brivido. Mentre la porta si richiudeva alle sue spalle, fra Federico si fermò qualche istante sospirando pesantemente. Lui, che da giovane era stato ammirato per la sua pazienza, finiva sempre più spesso per imbruttirsi, vinto dall’irritazione, a causa di gesti o situazioni che prima non avrebbe degnato d’attenzione.

Solitamente gli altri frati mantenevano, nei suoi confronti, un’ostentata pazienza e deferenza, degli atteggiamenti che, senza dubbio, erano figli d’un serio desiderio di carità; eppure Federico sapeva bene la verità. Non tanto per averne percepito i sussurri, quanto perché rammentava il sapore che, decenni prima, questa aveva avuto sulle sue stesse labbra. Dietro a quella cortesia si celava il fastidio, la difficoltà nel tollerare gli atteggiamenti e le pretese nati dalla sua irritabilità. Ogni volta che l’anziano agiva spinto da quello stato d’animo, appariva ai loro occhi villano e prepotente, distante dalla serafica calma che ci si aspettava dall’età. Federico non li biasimava, non quando era abbastanza sereno da considerare razionalmente la situazione. Loro non capivano, loro non potevano comprendere e, questo gli aveva insegnato l’esperienza, chi non capisce difficilmente perdona davvero. Solo nei suoi coetanei leggeva sguardi di complicità, di vera misericordia, solo in occhi di fronte ai quali il mondo aveva la stessa espressione ostile con cui aveva imparato a convivere.

Da alcuni anni infatti ogni cosa gli risultava estremamente difficile. Ogni atto o necessità, anche le più banali, richiedevano tanto tempo ed energia da lasciarlo spesso stanco e frustrato. Nessuna sorpresa quindi che anche le più piccole difficoltà o i più semplici imprevisti lo irritassero al punto da spogliare il suo agire di molta dell’antica gentilezza: se infatti per chi era in forze costituivano solo fastidi, per lui erano eventi, circostanze capaci di mutare anche pesantemente la traiettoria della sua giornata.

Simili considerazioni non erano né sorprendenti né nuove, tanto che poté ruminarle dirigendosi soprappensiero verso l’ampio presbiterio della basilica. Rilucenti sul legno scuro di uno dei banchi che circondavano il maestoso altare, i paramenti liturgici l’attendevano, ben piegati e disposti laddove il frate sacrista li aveva lasciati per lui la sera prima. Federico li raggiunse senza fretta, lanciando furtive occhiate al suo vecchio orologio: erano appena le sei e un quarto del mattino e mancava più di un’ora all’inizio della messa; aveva quindi tutto il tempo per attendere nel silenzio la voce di Colui nel quale sempre trovava conforto.

Con gesti lenti, faticosi ma ben rodati, Federico indossò i paramenti e, posto il bastone alla sua sinistra, si lasciò pesantemente cadere sul banco. Fece un profondo sospiro, lasciando che i resti della frescura notturna lo liberassero da ogni accaloramento, chiuse gli occhi ed attese che la Parola di Dio, brezza leggera, lo raggiungesse, camuffata come al solito da semplice pensiero errante. Fu in quel momento, proprio quando gli parve d’udire il sussurro, che sentì un frullio d’ali di fianco a sé.

Il duello

Federico aprì gli occhi di scatto ed alzò la testa: proprio sopra di lui volava erraticamente un piccione. Sì alzò fin quasi a raggiungere la cima dell’alta cupola sovrastante il presbiterio per poi, con noncuranza, lasciarsi cadere fino a poter percorrere in volo l’intera lunghezza della navata. Il vecchio frate lo segui con lo sguardo, più sorpreso che infastidito, finché da un inconfondibile rumore non comprese che l’animale aveva urtato una delle alte finestre della basilica, forse tentando di uscire. Immaginare quello stupido uccello schiantarsi contro un vetro gli fece tornare in mente alcuni vecchi cartoni animati riuscendo, malgrado tutto, a strappargli un sorriso. Ogni gioia tuttavia morì quando scorse il piccione volare a ritroso verso l’altare e, con una virata stretta e mal calcolata, atterrare pesantemente sul suo stesso banco.

L’animale appariva decisamente provato: il piumaggio grigio e nero, arruffato e sporco, spuntava scarmigliato da un corpo incapace di nascondere la magrezza che l’attanagliava. I suoi movimenti inoltre, anche se ancora frenetici, manifestavano un’erraticità nella quale tragicamente si rivelava una profonda e disperata spossatezza. Ciò che tuttavia più di ogni altra testimoniava la gravità della sua situazione era il comportamento: invece di rifuggire prudentemente gli esseri umani, cercando magari di sfruttarli a distanza, quel piccione si era avvicinato al punto che se il vecchio frate fosse stato più giovane avrebbe, con un po’ di fortuna, potuto quasi afferrarlo al volo.

Queste considerazioni infiammarono in pochi istanti la mente di Federico senza tuttavia generare neppure un minimo moto di compassione. Il vecchio frate fissava invece il povero animale con quel misto di schifo e paura che, cautamente prossimo al panico, solitamente lascia le persone bloccate in un’immobilità carica di speranze. Mentre l’uccello zoppicava sul banco, la piccola testa corrugata scossa da frenetici scatti esplorativi, il religioso si chiedeva con sempre maggior preoccupazione cos’avrebbe fatto se il suo ospite non si fosse quanto prima allontanato da solo. L’anziano non aveva mai fatto mistero, nella sua non breve vita, di provare un certo ribrezzo per i piccioni e, più in generale, per tutte quelle creature volanti le quali, vero o falso che fosse, davano l’impressione di essere sempre sul punto di sbagliare una manovra e venire addosso alle persone. Nulla quindi l’avrebbe reso più felice di vedere quella bestiaccia volarsene abbastanza lontana da non poterlo in alcun modo urtare per errore.

Dopo qualche minuto d’imbarazzato confronto con quell’inaspettata minaccia, fra Federico si alzò e, improvvisamente dimentico del tripode, arretrò allontanandosi un poco dall’animale. Invece di trarre sollievo da questo gesto, il volatile ne parve quasi infastidito: fissando il corpulento religioso con quel suo malevolo occhio ambrato, fece qualche audace passo nella sua direzione concludendo il tutto con un arrogante tubare. Federico arretrò ancora finché non urtò il piccolo mobiletto dove il frate sacrista teneva i consumati libri dei canti.

Imprecando fra i denti, il vecchio spaventato si trovò a maledire la scempiaggine del confratello il quale, dal suo punto di vista, era il solo ed ingiustificabile responsabile dell’ingresso di quella creatura. In verità non era certo la prima volta che un piccione, entrato magari dagli ingressi della basilica lasciati aperti per il caldo, rimaneva bloccato all’interno, incapace di uscire e troppo spaventato per lasciarsi condurre fuori prima di morire di stenti; la colpa non era di nessuno e queste piccole tragedie si consumavano, banali ed assurde al contempo, nella divertita pazienza della comunità.

Mai tuttavia era accaduto che uno di loro violasse quel prezioso spazio di preghiera che il vecchio frate si ritagliava ogni mattina aggiungendo al disturbo, come se già non bastasse, anche una simile agitazione. Fu quando la sua irritazione si mutò in rabbia che agì: afferrò uno dei libri di canti alle sue spalle, lo sollevò e lo scagliò con tutta la sua forza contro il malcapitato uccello. La soddisfazione che il religioso trasse da un simile gesto fu più simbolica che altro: il piccione si alzò in volo ben prima di essere colpito ed il libro, lontano dall’essere mai stato una vera minaccia, scivolò scompostamente a terra.

In ogni caso, il volatile se n’era andato. Fra Federico, guardingo ma vittorioso, tornò a sedere e, pur infastidito dal girovagare dell’uccello, respirò profondamente e chiuse gli occhi cercando di recuperare la perduta pace. Fu in quel momento, mentre sperava di poter davvero ritrovare la nota che Dio stava suonando nel suo cuore, che l’umido rumore di feci calde sulla casula segnò definitivamente la sua sconfitta.

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Quando il Signore mi venne a cercare, la mia mente vagava confusa nei caldi spazi dell’inedia, talmente carica di nulla da non poter portare altro con sé. Il mio corpo invece si preparava ad un indefinito inverno nella città di Ancona, gioiello del medio Adriatico (si fa per dire). Nella patria del pesce e del “mosciolo”, per un leggiadro scherzo della Provvidenza, sono nato quasi trentadue anni fa con una sentita inimicizia fra me e qualunque carne marina. La chiamata del Signore mi vide studente in storia ed appassionato consumatore di storie: racconti di tutti i tipi e narrati da aedi di tutte le arti. Ora che lo Spirito mi ha indirizzato nella famiglia di San Domenico ho posto questo mio nulla nelle mani della Vergine Maria e del caro Castigliano e chiedo loro quotidianamente di mostrarmi in ogni storia, vera o immaginaria, la traccia del Divino che lì soggiace. Ora che sto a Bologna studio come studiando rendere omaggio a Dio. Per contattare l'autore: fr.giuseppe@osservatoredomenicano.it