Con la fama di aver bruciato vivi, in un test, cinquanta soldati dell’Impero armati in Blindati Magitek, un soldato imperiale particolarmente dotato viene inviato in missione nella città di Narshe, al fianco di altri due commilitoni, sulle tracce di un potere antico sul quale l’Impero è ansioso di mettere le mani. Questo soldato è una donna e il suo nome è Terra Branford. Qualcosa, però, non torna: chi la sta controllando?
Questo l’incipit di Final Fantasy VI1, uno fra gli episodi più noti della saga, non solo per una certa struggente poeticità della regia – anche a fronte della pur molto semplice tecnologia dell’epoca –, ma soprattutto per l’emblematicità, divenuta iconica, del suo antagonista principale: lo spietato e folle Kefka Palazzo. Personaggio che, nella piacevolezza di questa avventura, certo attira per l’imprevedibile carisma. È facile perciò sorvolare su quella che può essere la sua reale profondità nell’economia del racconto, liquidandola, di primo acchito, nel fascino dell’attrattiva per un antagonista psicopatico, sostenitore di un nichilismo assolutamente distruttivo. L’idea questa volta è allora quella di tentare una lettura più in profondità di questo personaggio e della simbologia che lo caratterizza. Ciò ci porterà a considerazioni esistenziali molto più interessanti e, per certi versi, quasi a un sorprendente capovolgimento di quel che ci aspetteremmo.
Uno, nessuno, quattordici
Come premessa, è necessario introdurre brevemente la trama, cui si farà accenno anche poi in sede di analisi, perciò chi non vuole particolari anticipazioni è avvisato!
E dunque, un elemento interessante circa lo svolgimento della vicenda è che, effettivamente, un protagonista vero e proprio della narrazione non c’è, o meglio lo sono, in vario modo, chi più e chi meno, i numerosi personaggi – quattordici – che avranno modo di entrare in scena lungo l’intera trama2. Nella spedizione di Terra di cui sopra, qualcosa andrà storto, e la ragazza, inseguita dalle guardie di Narshe, verrà salvata da Arvis e, in particolare, da Locke, un ladr… ehm: un cercatore di tesori che la aiuterà a fuggire dalla città. I due si riveleranno poi essere membri della Resistenza, un’organizzazione segreta di ribelli che mira a contrastare i piani di espansione dell’Impero. Le sue fila si arricchiranno allora di quei numerosi, improbabili personaggi, che finiranno spesso per ridisperdersi nuovamente in gruppetti – a causa sia di circostanze contingenti, come di necessità più specifiche – per perseguire la loro causa.
Roba da pazzi!
Ed eccoci giunti a Kefka. Questo ufficiale dell’Impero, dall’inquietante ed isterica risata, si farà immediatamente notare sin dagli inizi dell’avventura per i suoi modi imprevedibilmente folli, sprezzanti e crudeli, ai limiti della psicopatia (cosa che talvolta metterà in imbarazzo i suoi stessi sottoposti3). Una sorta di Joker, ma collocato agli alti gradi di comando di una immensa potenza militare4, i cui successi in quel campo, anche come stratega, gli ottennero nonostante tutto e ben presto la fiducia dell’imperatore Gestahl. Secondo queste premesse, è facile comprendere come diverrà presto uno dei principali avversari della Resistenza, e dei protagonisti. E sulla scorta della ricerca di quel potere sopito così agognato dall’Impero, al momento opportuno anche la sua fedeltà all’imperatore Gestahl – come non è difficile immaginare visto il personaggio – finirà per volatilizzarsi altrettanto rapidamente. Il che non nasconde la sua molto particolare caratterizzazione: inizialmente, solo un ufficiale, seppur di spicco, di un grande impero, e dalla forza non particolarmente soverchiante, incline spesso alla fuga e a sottili inganni più che a scontri a viso aperto; fino a diventare un nemico oltremodo temibile, e infine il principale oltre ogni immaginazione: al punto di voler giungere a distruggere il mondo intero. Ma perché?
Aldilà delle caotiche apparenze, dietro al folle comportamento di Kefka si nasconderà una domanda, domanda che si farà sempre più pressante e verrà a galla nel confronto finale con i superstiti della Resistenza. Se nel mondo tutto, prima o poi, viene distrutto, se tutto ciò che esiste, se ogni persona e tutte le sue imprese, prima o poi, perendo, verrà annichilito e scomparirà, che senso ha allora la vita? «Perché la gente insiste a creare cose che finiranno per essere distrutte? Perché le persone celebrano la vita anche se sanno di dover morire? Anche se sanno che tutto ciò che fanno scomparirà con loro?»5. Al che i nostri replicano che l’importante non è la fine, ma trovare una ragione di vita in qualcosa che abbiamo costruito e che vogliamo proteggere. Kefka vuole allora sentire quali sono questi “qualcosa”, e i protagonisti presentano i propri, “l’amore”, “qualcuno da proteggere”, “il ricordo di moglie e figlio defunti”, “un regno in pace”, “una nipotina”, eccetera. La risposta di Kefka allora vien da sé: «Blah! Che melassa! Sembrate i personaggi di una commedia sentimentale da due guil!»6.
Anche lui ha, allo stesso modo, un “qualcosa” per cui vivere: «Quel che voglio io, invece, è […] distruggere ognuna delle vostre patetiche ragioni per vivere!». E distruggere il mondo intero per mostrare che, poiché tutto andrà distrutto, non c’è in realtà proprio nulla per cui alla fine valga la pena vivere, tanto meno desideri e affetti precari come quelli dei personaggi.
L’angelo crudele
Kefka è spiazzante, come al solito, e mostra come la sua ragione nichilistica abbia lo scopo di spazzare via ogni illusione dei suoi avversari, mostra non solo che la loro sconfitta è la sua vittoria, ma anche che essa arriverà in ogni caso, o perché sarà lui a portarla, o perché lo farà, prima o poi, il tempo. E anche questa è, senza altri criteri distintivi, una ragione, la propria, al pari delle altre presentate7: la distruzione della vita come senso della vita. E forse anche più stringente: se la vita è fatta per perire, il suo senso è quello di essere distrutta.
Ma il nocciolo della questione è in modo tacito messo letteralmente in scena nella battaglia finale. In questo scontro i nostri membri della Resistenza si troveranno ad affrontare una serie di avversari in una scalata verticale a tre tappe, che riproduce da vicino una sorta di percorso dantesco evidentemente associabile al trittico Inferno-Purgatorio-Paradiso della Divina Commedia. Alla sommità del “Paradiso”, tuttavia, troviamo Madama e Pacifico, che altro non sono, per posizione e lineamenti, se non una versione distorta della famosa Pietà di Michelangelo, che rappresenta Cristo, morto e deposto, fra le braccia della B.V. Maria. Ora, preso fuor di contesto, il fatto che si debbano affrontare avversari che richiamano da vicino la Pietà può aver fatto storcere il naso a qualcuno. In questo caso, tuttavia, nella rappresentazione contestuale il senso torna, poiché non sono i soggetti rappresentati ad essere oggetto dello scontro. Questa infatti è la realtà come la vede Kefka: dopo aver negato il senso effimero dei “qualcosa” dei protagonisti – impresa facile ché, già di per sé, non ne avevano alcuno, in quanto destinati a perire –, deve però negare il vero “ostacolo” soggiacente al nichilismo di entrambi. Ciò che davvero conferisce senso ed eternità, assieme alla realtà, anche a tutti quei piccoli “qualcosa” che stanno a cuore ai protagonisti, quel “Qualcosa” grazie al quale essi non sono più davvero destinati a perire. Deve negare perciò quel senso ultimo vero e pieno che non è riuscito a trovare: ovvero, Dio.
È infatti emblematico come nella simbolica e distorta costruzione della realtà che Kefka presenta, egli stesso ponga al culmine non Cristo risorto o Cristo in croce, ma Cristo il secondo giorno, nel silenzio della morte; deve cioè negare sia la crocifissione, indice della salvezza scaturita dal sacrificio, sia la risurrezione, con il trionfo sulla morte, per affermare solo la morte di Dio. Fatto ciò, come disse un filosofo, non c’è più un criterio oggettivo di ciò che è bene e di ciò che è male, ma la scelta di un senso e la bontà di esso, qualsiasi esso sia, è arbitraria e frutto della scelta di ciascuno, per cui «è abolita la distinzione tra un dovere e un volere (e l’attributo dell’eticità passa senz’altro al fine scelto, qualunque sia il suo contenuto, fosse esso anche, ad esempio, la distruzione del mondo o dell’esistente)»8. Alla sommità di tutto ciò ecco che come quarto elemento c’è infatti Kefka stesso9 il quale, accumulato il potere proibito di cui si è impossessato, cambia aspetto, ora molto più possente e serioso, pur conservando i suoi tratti, e si erge sopra questa intera rappresentazione e sopra il decretato culmine della morte del divino.
Il suo aspetto quasi angelico, dalle sei ali, ricorda appunto quello di un serafino, ma se ben si osserva, mentre le prime due paia di ali sono piumate come ci si aspetterebbe, l’ultima coppia presenta invece il tipico aspetto dell’iconografia demoniaca. È evidente come questi aspetti facciano riferimento alla figura di Satana, assieme all’esplicito richiamo presente nel nome di uno degli assalti più temibili di Kefka in questo stato, Angelo Crudele, più esplicitamente reso, nelle prime versioni, con un termine equivalente a quello di Angelo Caduto. Il fondamento del male di Kefka si concretizza in particolare, ancor più che nell’ostilità verso i suoi avversari, in questa sua apostasia luciferina, in grado di mostrarci, con limpida coerenza, le conseguenze cui conduce la completa negazione di Dio. Ma essa non cancella la sua domanda e necessità, quella di un fondamento, di un “Qualcosa” di vero e stabile, che dia un senso ad ogni cosa, quasi a sfondare la quarta parete e ad interrogarci direttamente. Ed anche dopo tutti i dialoghi di cui sopra (che si rivelano infatti inconcludenti, poiché non toccano il punto) essa resterà, e si mostrerà, ancora una volta, inevasa, in tutta la sua cristallina purezza: «La vita… I sogni… Le speranze… Da dove vengono? E dove vanno? […]»10.
1 Videogioco di ruolo giapponese pubblicato nel 1994 dalla, ai tempi, Square (oggi Square Enix) per Super Nintendo (ma oggi disponibile per numerose altre piattaforme), e diretto da Yoshinori Kitase e Hiroyuki Ito. Lo storico direttore della saga, Hironobu Sakaguchi, in questo caso ha rivestito il ruolo di produttore. Capitolo diventato a posteriori, per inventiva, uno fra i più apprezzati della saga, è stato celebrato in particolare anche per la raffinatezza della colonna sonora di Nobuo Uematsu, considerata fra le più pregevoli del compositore nipponico.
2 Non tutti peraltro necessari, visto che sarà possibile, volendo, saltare bellamente il recupero di molti di essi e giungere al termine con, al limite, addirittura solamente tre personaggi.
3 Cosa che si rivelerà anche alquanto comica, essendo Kefka solito ripetere, quando qualcuno lo contraddice o agisce in modo da lui imprevisto, «roba da pazzi!».
4 Poiché fu infatti il primo a sottoporsi ai primissimi esperimenti di una nuova tecnologia, sviluppata dall’Impero, per creare dei soldati “Magitek” (capaci di usare nuovamente la magia, capacità che si credeva perduta), alcuni ritennero che, nonostante il successo della procedura, poiché ancora in fase sperimentale, sia stata essa a contribuire alla definitiva compromissione del suo equilibrio psichico.
5 Kefka, nei dialoghi che precedono il confronto finale.
6 I guil sono la valuta di fantasia del mondo in cui è ambientata la saga.
7 Ciò richiama il concetto letterario giapponese mono no aware, indicante quella partecipazione estetica alla melanconica bellezza delle cose che vengono meno – tangente forse, ma non del tutto, le lacrimae rerum di Virgilio – alla beltà segnata dall’impermanenza, come il volatile splendore dei fiori di ciliegio, la cui contemplazione porta con sé l’ombra di un momento irripetibile che non tornerà più e presto avrà fine. A cui si può reagire, come Kefka, con un deciso nichilismo, o, come i personaggi, con il, per così dire, sereno e rassegnato disincanto di una dolceamara accettazione.
8 G. Bontadini, Conversazioni di metafisica. Volume primo, Vita e Pensiero, Milano 1971, p. 145.
9 Che queste (Inferno-Purgatorio-Paradiso-Kefka) siano le quattro parti di un’unica rappresentazione è testimoniato anche da Dancing Mad, la lunga composizione, principalmente d’organo e divisa in quattro movimenti, che accompagna le quattro parti della scalata.
10 Dalle ultime parole di Kefka prima dello scontro finale.