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Il calice amaro

La Santa Pasqua, al di là degli squallidi tentativi della società civile di spogliarla dei suoi connotati cristiani, è certamente un momento di grande gioia per tutti coloro che si sanno salvati da Gesù Cristo. Splendido è sperimentare la comunione con il Signore a tutti i livelli, personale, familiare ed ecclesiale, nella consapevolezza che il pegno del quale godiamo risplende già della promessa della vita futura. Eppure c’è un pericolo che, infido come un ratto, minaccia di rodere le radici di questo splendido dono spirituale; non si tratta di un avversario evidente, bensì di un pensiero che, all’ombra della nostra lecita gioia, si espande come una muffa. Sto parlando della convinzione che la Salvezza venga elargita incondizionatamente.

Naturalmente è giustissimo affermare che la Vita ci viene donata da Gesù in maniera del tutto gratuita e che in nessun modo possiamo meritare fino in fondo questo mirabile dono; tuttavia ciò non fa di noi degli enti passivi, dei riceventi in grado solo, come alberi, di bearsi della pioggia che rinfranca le nostre radici. Gesù stesso infatti dice: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà»1; con queste parole Egli ci sprona a considerare la Salvezza non come qualcosa da attendere passivamente, bensì come un dono che, gratuitamente offerto, richiede un cammino per essere raccolto.

Rileggendo il brano citato ci rendiamo conto che Cristo non rappresenta solo la meta del nostro procedere ma anche la guida che rende sicuro il cammino. Il testo di san Marco parla della necessità della croce, il che ci permette di capire immediatamente come il viaggio non sia privo di ostacoli e di disagi; il livello degli stessi viene evidenziato dalla conclusione dell’estratto, nella quale addirittura la vita è posta come prezzo ragionevole per la Salvezza.

Volendo fare un ulteriore passo avanti in questa nostra riflessione potremmo chiederci in quali circostanze l’essere discepoli di Gesù può arrivare a richiedere come prezzo l’estremo sacrificio. La prima risposta che sorge in molti cuori è: «Solo quando strettamente necessario»; si tratta certamente di una soluzione saggia, poiché il discepolo non è colui che disprezza la propria vita, bensì l’uomo che la ama al punto da farne il più prezioso dei pegni. Eppure, anche se questo concetto possiede in sé una sua chiarezza e completezza, credo sia il caso di precisarlo ulteriormente; difatti, se è vero che il cristiano deve sempre essere pronto ad accogliere il martirio quando le circostanze lo richiedono, non così evidenti mi paiono i confini di questa necessità.

In altri termini, fino a che punto è lecito al credente celarsi e farsi piccolo al mondo per la propria sicurezza? La disponibilità a dare la vita che Cristo ci chiede, si riduce davvero solo all’accettazione mesta di quei casi estremi in cui il carnefice ci bussa alla porta? Il Signore pare indicare una via differente quando dice a san Pietro: «Rimetti la spada nel fodero: il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?»2. L’immagine del calice amaro che viene porto a Gesù ben rappresenta quei casi in cui la via aspra del Calvario ci si presenta non come inevitabile esito del nostro cammino, bensì come sentiero impervio che, offerto, volutamente imbocchiamo sin dall’inizio.

Il martire d’Austria

Mi rendo conto che la differenza può apparire sottile, ma penso sia importante comprendere che l’imitazione cui Cristo ci chiama non consiste solo in una disponibilità passiva al sacrificio, bensì nell’ardimentosa scelta d’incarnare un aspetto della Verità lasciando che, nel dono della vita, ci renda davvero vivi. Questa è la vera chiamata che Gesù rivolge ad ogni cristiano, ai discepoli di tutte le epoche, una convocazione che ci vuole in armi3, pronti a rischiare ogni cosa mentre con coraggio guardiamo negli occhi il nemico.

Può essere difficile ai giorni nostri, in Occidente, scorgere la radicalità di quel crocifisso che con troppa superficialità spesso portiamo al collo; rischiamo di non renderci conto che mettersi al fianco del Cireneo sotto la croce implica prepararsi a difendere la Verità senza risparmiarci nulla di quello che Gesù stesso sopportò.

Questa considerazione può essere una valida prospettiva per meditare la vicenda umana e la santità del beato Franz Jägerstätter, mirabilmente raccontata nel film La vita nascosta – Hidden Life, diretto nel 2019 da Terrence Malick. Il beato, nato a Sankt Radegund, nell’Alta Austria, il 20 maggio del 1907, perse il padre durante il I Conflitto Mondiale e la madre, Rosalia Huber, si risposò con il fattore Heinrich Jägerstätter, il padre adottivo di Franz. Nel 1933 il Nostro ereditò la fattoria; la sua vita rimase lontana dalla fede fino al 1935, anno in cui incontrò sua moglie Franziska Schwaninger. La ragazza, profondamente cattolica, condusse Franz non solo alla conversione ma anche ad un’intensa vita spirituale e sacramentale, che lo portò a diventare sacrestano della sua parrocchia, Terziario Francescano e uomo di preghiera molto affezionato alla Scrittura.

Divenuto padre di tre bambine, il beato Franz, dopo l’Anschluss del 1938, giunse alla conclusione che la fede cristiana fosse profondamente incompatibile con il nazismo; questo, nonostante l’entusiasmo dei suoi compatrioti, lo portò prima ad una resistenza passiva, fatta di silenzi e del mite rifiuto di ogni sostegno o risorsa proveniente dal Regime, e poi ad una presa di posizione netta. Il 23 febbraio del 1943, alla terza convocazione d’arruolamento nella Wehrmacht, dovette presentarsi in caserma e lì si rivelò come obiettore di coscienza, rifiutando di prestare servizio e di giurare fedeltà ad Hitler. Dopo un duro periodo di detenzione ed un processo, approfondito ma dall’esito inevitabile, il beato Franz venne condannato a morte; la sentenza venne eseguita il 9 agosto del 1943 a Brandeburgo sulla Havel. Papa Benedetto XVI lo proclamò beato il I giugno del 2007, riconoscendo nella sua opposizione al nazismo e nella sua morte un mirabile martirio in difesa della fede cristiana4.

L’amore per i lupi

Il film, che con grande responsabilità ha raccolto l’eredità di questa splendida vicenda umana e cristiana, è un mirabile esempio dello stile del regista: dolce e delicato, pare lasciare alla vicenda il tempo di svilupparsi da sé, celando dietro un artistico realismo quella chiave di lettura, suggerita ma non imposta, che distingue l’agiografia dall’arida cronaca storica. Il risultato il racconto di un’identità interiore, di una coscienza che si sviluppa in un mondo che non ha bisogno di urlare il nome di Cristo, poiché ne respira il suono in ogni istante.

Magistrale in tal senso è il modo in cui viene reso il radicarsi della decisione che porterà il beato alla morte: non un proclama dichiarato, né il risultato di chissà quale alta riflessione, bensì una realtà, palese come il sole e le stelle, che il cristiano deve solo imparare ad osservare.

Su quest’ultimo punto mi soffermerei per un momento di riflessione. Se ci pensiamo bene il più grande onere che viene dall’accogliere Cristo nella nostra esistenza è proprio la luce nuova con la quale siamo costretti a vedere il mondo. Come il cieco nato che, aperti gli occhi grazie all’incontro con Gesù, fu chiamato a difendere da solo se stesso e la Grazia ricevuta5, così noi, una volta abbracciata la fede, veniamo gravati della responsabilità derivante dal non poter più annegare nell’ignoranza la verità di ciò che ci circonda. Il cristiano è colui che conosce la Via, che segue la Verità e che per questo capisce meglio degli altri dove la Vita affondi le radici; per tale ragione non può permettersi di cercare quegli ombrosi ripari nei quali gli uomini mediocri rifuggono la sferzante calura del deserto, poiché ogni incupirsi della luce in cui vive è per lui un abbassamento, l’inizio della sconfitta.

Penso che proprio da questo senso di responsabilità, dall’intima coscienza della chiamata di Cristo, si possa comprendere la testimonianza del beato Franz. La resistenza cristiana al mondo ed alla storia non s’inserisce in una visione dialettica della realtà, che vede contrapporsi in ogni ambito due universi umani e culturali del tutto separati; nasce invece dalla sapiente capacità di distinguere ciò che allontana da Cristo da ciò che, pur non appartenendogli, può esservi ricondotto. Il cristiano, sul modello del beato austriaco, può concepirsi come un pastore d’atti e d’idee, pronto a ricondurre all’ovile le pecore smarrite e, al contempo, a riconoscere i lupi infiltrati fra di esse. Questi ultimi possono essere mode, ideologie, prassi e, come nel caso del nazismo, incarnarsi anche in persone e gruppi specifici. Contro di essi il discepolo di Gesù è chiamato a dismettere ogni compromesso, a rinunziare ad ogni dialogo, per il semplice fatto che dietro la loro attualità non si cela solo un errore da correggere fraternamente, ma anche e soprattutto una scelta di fondo che nega Cristo e la stessa Carità.

Non a caso il film non esita ad identificare Hitler ed il nazismo con l’Anticristo6, ossia una figura che non si limita a propagare degli errori, ma costruisce un sistema che, coscientemente o meno, nega direttamente l’insegnamento del Vangelo. Non v’ingannate però: i lupi contro cui combattere, quei calici amari che quasi mestamente il Signore ci porge7, non sono sempre rari ed evidenti come a noi oggi appare il III Reich. Si tratta di pensieri, sistemi e modelli etici che s’incarnano nei nostri vicini, in amici e fratelli, che non esitano a fiorire sui volti deturpati delle persone e delle comunità amate. Non v’illudete, poiché sarà proprio l’amore che ci lega a queste persone a lasciarci soli sul Calvario, ad imporci di difendere la Verità fino al punto di perderci nella notte come lampade solitarie. In quei momenti ciò che ci permetterà di andare avanti, di concedere al disgustoso vino un altro sorso, non sarà la nostra forza né quella che potremo trarre dai pochi che ancora saranno al nostro fianco; a consolarci resterà solo la consapevolezza che l’unico modo d’amare realmente il prossimo è ostinarsi a guardarlo come Dio lo contempla.

Credo sia per questa ragione che così spesso la lotta contro questi lupi voraci conduce al martirio: non c’è infatti nulla di più tremendo per chi vive nelle tenebre di scorgere, riflessa negli occhi dell’altro, la bellezza che la Luce rivelerebbe in lui. Non solo infatti spoglierebbe la sua attuale miseria d’ogni artifizio, ma rivelerebbe che il mondo che con fatica si è costruito altro non è che una triste cella gonfia di follia. A noi quindi il compito di sciogliere l’inganno, di amare a tal punto il prossimo in Cristo da poter morire dicendo: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede»8.

1 Mc 8, 34-35.

2 Gv 18, 11.

3 Cf Rm 13, 12.

4 Cf Wikipedia, Franz Jägerstätter, consultata il 12/04/2022.

5 Cf Gv 9.

6 Cf 1Gv 2, 18.

7 Cf Mt 20, 22-23.

8 2Tm 4, 7.

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Quando il Signore mi venne a cercare, la mia mente vagava confusa nei caldi spazi dell’inedia, talmente carica di nulla da non poter portare altro con sé. Il mio corpo invece si preparava ad un indefinito inverno nella città di Ancona, gioiello del medio Adriatico (si fa per dire). Nella patria del pesce e del “mosciolo”, per un leggiadro scherzo della Provvidenza, sono nato quasi trentadue anni fa con una sentita inimicizia fra me e qualunque carne marina. La chiamata del Signore mi vide studente in storia ed appassionato consumatore di storie: racconti di tutti i tipi e narrati da aedi di tutte le arti. Ora che lo Spirito mi ha indirizzato nella famiglia di San Domenico ho posto questo mio nulla nelle mani della Vergine Maria e del caro Castigliano e chiedo loro quotidianamente di mostrarmi in ogni storia, vera o immaginaria, la traccia del Divino che lì soggiace. Ora che sto a Bologna studio come studiando rendere omaggio a Dio. Per contattare l'autore: fr.giuseppe@osservatoredomenicano.it