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Le due apocalissi

Nel corso degli ultimi cinquant’anni la tematica apocalittica è riuscita, pur all’interno di molteplici mutamenti, a mantenere una notevole presa sulla cultura popolare, sia nella letteratura che nel cinema. Scaturita forse dal trauma del Secondo Conflitto Mondiale, e certamente consolidatasi nei decenni di paura prodotti dalla Guerra Fredda, questa forma culturale ed artistica tende ad esorcizzare la terrificante consapevolezza della caducità della nostra civiltà. Le “apocalissi” sociali rappresentano non tanto la fine di ogni cosa, quanto il rovinoso crollo dell’Occidente, inteso più come stile di vita che come blocco politico1.

Già da queste pochissime parole il lettore può rendersi conto di quanto tali opere siano distanti dall’apocalittica ebraico – cristiana in generale e dall’Apocalisse di san Giovanni in particolare. Senza volerci addentrare eccessivamente in questa ambito, possiamo dire che nei testi rivelati l’apocalisse è la fine non di una civiltà, ma di tutto il creato così come lo conosciamo e, in un’ottica di purificazione e redenzione, l’inizio di qualcosa di nuovo.

Nonostante quindi i toni spesso cupi ed evocativi, propri ad esempio del testo giovanneo2, il fine di tali scritti è quello di confortare il fedele rafforzando la sua fede nella sconfitta del male e nell’instaurazione di un autentico ed immutabile regime di pace e giustizia.

Proprio la diversità di fini che queste due forme di apocalittica, una sacra ed una profana, si pongono rende, a mio modo di vedere, ogni tentativo di sintesi estremamente interessante e passabile di poche pagine di riflessione; è questo il caso del romanzo di cui vi sto per parlare.

La Profetessa ed il Tizio che Cammina

L’opera in questione è The Stand, romanzo pubblicato dallo scrittore statunitense Stephen King nel 1978 e riedito nel 1988 in una versione integrale oggetto anche di ampi rimaneggiamenti3.

Il corposo scritto inizia descrivendo una classica, seppur originale, apocalisse profana: una terrificante versione dell’influenza prodotta dall’esercito degli Stati Uniti, e nota con il nomignolo di Captain Trips, si diffonde per sbaglio negli States. La sua altissima mortalità, superiore al 99%, unita alla rapidissima diffusione, fanno sì che l’intera umanità sia spazzata via nel giro di pochi, tragici mesi. Dal silenzio terrificante che segue, emergono dei sopravvissuti, pochi fortunati misteriosamente immuni al virus.

A questo punto della narrazione, dopo essersi esibito in un’ardita, anche se non sempre riuscita, descrizione del crollo della civiltà umana, King introduce la sua apocalittica sacra. I sopravvissuti, ovunque siano e qualunque cosa stiano facendo, iniziano a fare tutti gli stessi due sogni: in uno vedono una vecchia casa di campagna e la rassicurante figura dell’anziana Mother Abagail che li invita a raggiungerla; nell’altro invece scorgono la scintillanti rovine di Las Vegas e l’inquietante figura dell’Uomo in Nero, il Tizio che Cammina4, che li invita a porsi sotto la sua ala.

Proponendo un simbolismo di facile decodificazione, King nasconde in questi due individui altrettante figure profetiche: mentre la centenaria Mother Abagail viene tratteggiata con il carisma misterioso ed indecifrabile del profeta veterotestamentario, Randall Flagg, l’Uomo  in Nero, possiede tutti i tratti del falso profeta dell’Apocalisse5, ossia una sorta di stregone mandato dal demonio per sottrarre ai giusti la salvezza.

Esprimendo la loro libera scelta, i superstiti si radunano presso l’uno o l’altro messo, dando origine a due società ben distinte: la Zona Libera e Vegas. Le due città riflettono due visioni complementari della scomparsa democrazia occidentale: presso Mother Abagail si cerca di rievocare le più alte vette di giustizia e libertà raggiunte dagli Stati Uniti, mentre Flagg, ponendosi come unico signore di Vegas, recupera l’ordine, l’efficienza e la potenza che furono dell’occidente6.

Lo scontro fra le due comunità pare inevitabile e proprio mentre i protagonisti si preparano a combattere il Tizio che Cammina con gli umani strumenti della guerra, Mother Abagail, scomparsa per mesi nel deserto, torna morente rivelando loro l’esistenza di un piano provvidenziale di Dio in vista della vittoria. Ecco che quindi, mentre il potere di Flagg pare collassare lentamente sotto il suo stesso peso, gli eroi di King si fanno volontariamente strumenti ciechi della Volontà Divina, contribuendo alla sconfitta del male.

La mezza vita del male

Se l’incontro fra le due forme di apocalittica è senza dubbio interessante ed originalissimo, ciò che qui vorrei porre in luce è la teologia che soggiace all’opera di King. Questa non è solo importante per la chiave di lettura che fornisce nei riguardi di altri suoi scritti7, ma permette anche al credente di gettare uno sguardo su una delle forme di rapporto con Dio che la nostra società può assumere.

Il primo errore che bisogna fugare consiste nello scorgere nella situazione creata da King una forma di dualismo.

Questa modalità di pensiero, che tende ad interpretare la dicotomia fra bene e male come lo scontro fra due principi opposti e di pari vigore, non si adatta alla vicenda narrata, e ciò è facilmente deducibile dal modo in cui l’autore descrive il male.

Flagg e la sua opera infatti, dietro alla potenza che espongono con orgoglio, celano una sostanziale carenza di senso, la mancanza di un fine che invece di esaltarne l’autonomia ne mina l’efficacia. In The Stand il male costruisce letteralmente sulla sabbia8 e, proprio come un vascello troppo carico di armi, finisce per essere affondato dal proprio stesso peso. Significativa, in tal senso, è la frase che l’autore mette in bocca ad una donna che “fa il profeta”9 di fronte all’Uomo in Nero, denigrandone l’apparente potenza: «Tutto quello che tu hai fatto qui sta andando in pezzi e perché no? La mezza vita del male è sempre relativamente breve.»10.

Escludere il dualismo ci permette di comprendere che, proprio come nell’Apocalisse di san Giovanni, lo scontro fra Dio ed il Drago non è alla pari, né tantomeno lo è quello fra i rispettivi servi. Tuttavia la certezza della vittoria finale non sottrae i giusti dalla necessità della testimonianza, anche a costo del sacrificio11. King comprende bene questa realtà tanto che l’azione di Dio, lungi dall’essere quella di un deus ex machina, passa attraverso il sacrificio di coloro che gli sono fedeli. La fedeltà di questi uomini, di questi “martiri”, al Signore presenta tuttavia una stonatura che è fondamentale, secondo me, per comprendere la teologia soggiacente all’intera opera.

Un Dio che ami

In The Stand Dio è uno sconosciuto. Si tratta di una Potenza Celeste certamente Provvida, Benevola nella finalità e di una trascendenza inarrivabile e tuttavia pressoché ignota. King pare concepire Dio come una delle tante forze della natura, con la sola differenza che la Sua area di competenza è quel piano del sovrannaturale che l’uomo altrimenti solo sfiora. Il Signore, per intenderci, viene presentato come simile alla gravità: innegabilmente in atto ma anche del tutto indifferente circa il fatto di essere conosciuto o meno.

Questo porta alla conseguente svalutazione della centralità della Rivelazione. A parte Mother Abagail, che sembra, in virtù della sua età, aver ereditato una certa affezione alla Scrittura, gli altri personaggi positivi si disinteressano totalmente di ciò che Dio può aver detto di Se Stesso, quasi la cosa fosse indifferente. Perfino l’anziana profetessa, il cui ruolo nella storia è ben più limitato di quanto si potrebbe credere, non parla mai di Dio, ma solo con Dio, al punto che, paradossalmente, nessuna chiesa opera laddove il Signore ha adunato i Suoi figli.

Il frutto di questa indifferenza verso la Rivelazione è, naturalmente, l’assenza di ogni vero rapporto con Dio. Egli, nella visione proposta da King, non è un Padre amorevole che i figli, se giusti, imparano ad amare a loro volta, ma un alieno tanto incomprensibile nei mezzi quanto distante dalla vita quotidiana.

Anche se l’autore rafforza fino all’estremo la coscienza dell’inserimento di ogni avvenimento nella Provvidenza Divina, in realtà questo Dio Ignoto non pare interessato ad educare al bene i suoi fedeli, ad insegnar loro la vita del giusto. Confinato com’è nell’ambito dello straordinario, Dio sembra proporre una vita buona non composta di un capillare adeguamento alla Sua Volontà, bensì di poche scelte radicali e di una consapevolezza della buona strada tanto intimamente radicata quanto vagamente compresa.

La conseguenza di ciò è che non solo il Signore viene dimenticato appena terminata la specifica necessità, ma la fede in lui si basa non sulla comprensione, pur se parziale, data da una relazione d’amore con Lui, ma su di veri e propri salti nel buio. Per questo i protagonisti, anche se non vacillano, non possono accogliere appieno la tragicità di alcuni sacrifici e si inalberano in considerazioni verso Dio cariche di frustrazione, come la seguente: «Loro sono stati il sacrificio. Dio chiede sempre un sacrificio. Ha le mani tutte insanguinate. Perché? Non so dirlo, […]»12.

Cosa può imparare quindi il cristiano da questa visione del rapporto fra la società e Dio? Volendo fare un’ipotesi si potrebbe dire che questo romanzo mostra la contraddizione in cui vive oggi l’Occidente: di fronte ad un male evidente, potente, apparentemente incontenibile che letteralmente cammina in mezzo agli uomini, pochissimi riescono a sottrarsi all’istintivo bisogno di postulare, foss’anche solo nella speranza, la presenza di una forza positiva che gli si opponga e che lo fondi. Vi è forse la consapevolezza di quanto insensata sia una visione del mondo che, accogliendo la brutalità della realtà, escluda Dio dall’equazione. Anche se quindi l’ostinazione della ragione può portare gli uomini a dipingersi un universo privato, simile ad un sogno nei tragici limiti che s’impone, il cuore istintivamente cerca ancora Dio, conscio di come la realtà stessa ne abbia bisogno.

Tuttavia il peccato, quel seme oscuro che s’annida nel cuore di ognuno, ha un unico comandamento: non avrai altro Dio all’infuori dell’Io. Per questo l’uomo ad esso asservito non può fare a meno di desiderare un Dio distante, estraneo, ignoto, che eserciti non l’intimità della paternità, ma la fredda distanza di una funzione. Perciò ogni Rivelazione, e di conseguenza ogni culto nel quale s’esprima l’amore che da essa sboccia, non può che essere vista come una minaccia, qualcosa che impedirebbe, una volta terminato il bisogno, di ritrovare quell’oscuro comandamento sul quale pare fondarsi la vita.

Come ho accennato in nota13, King non riesce davvero a proporre un futuro che trascenda i limiti dell’uomo, ma si limita a ribadire una vaga speranza. A questo punto la cosa non ci sorprende: un uomo che sia suddito di se stesso, mai riuscirà a superarsi, a redimersi, ma sarà costretto ad un eterno ritorno nel quale ogni speranza si fonda sull’oblio della realtà. Noi credenti, tragicamente consci di questo, non possiamo far altro che vivere mostrando a questi nostri fratelli tristi che la libertà non ha il freddo suono dell’io ma il caldo aroma di una relazione che nell’amore sussurra il nostro nome.


1 A livello di letteratura non si può non ricordare il romanzo Do Androids Dream of Electric Sheep?, realizzato dal romanziere statunitense Philip K. Dick nel 1968 ed alla base del fortunatissimo film Blade Runner, diretto da Ridley Scott nel 1982. La tematica fu accolta anche dal Giappone dove il mangaka Buronson, con i disegni di Tetsuo Hara, realizzò, fra il 1983 ed il 1988, il manga Hokuto no Ken, meglio noto in Italia come Ken il Guerriero. Infine, nel 2013, l’ambientazione apocalittica ha conosciuto una nuova incarnazione nel videogioco The Last of Us, sviluppato da Naughty Dog per la Sony e vincitore di numerosi premi di genere, anche e soprattutto per la finissima narrazione.

2 Cf Ap 9, 1-12.

3 Per l’edizione italiana dell’opera cf Stephen King, L’ombra dello scorpione (trad. Bruno Amato e Adriana Dell’Orto), Bompiani, Milano 2016. Negli ultimi anni questo romanzo è stato riscoperto anche in virtù della pandemia e dell’inquietante somiglianza fra il COVID 19 e Captain Trips.

4 Non sfugga al lettore la sottigliezza di questo nomignolo attribuito da King a Randall Flagg. Proprio come in Gb 1, 7 e 2, 2, il male viene raffigurato come sempre in movimento, incapace di stabilità, ma pronto ad entrare in ogni contesto.

5 Cf Ap 16, 13.

6 Nel delineare questi due modelli sociali, a King non sfugge l’assurdità di volerli considerare come entità totalmente distinte. Se la democrazia non può fare a meno dell’ordine, allo stesso modo l’efficienza non può comprare il totale asservimento delle coscienze. L’autore pare auspicare, come nuovo mondo, una società che trascenda i limiti stessi raggiunti dal modello occidentale, tuttavia, al di là di qualche romantico accenno alla sana vita campestre, non sembra azzardarsi a tracciarne uno schizzo.

7 La figura di Randall Flagg, alias l’Uomo in Nero, ha un ruolo centrale sia nel romanzo Gli occhi del drago, del 1984, sia negli otto romanzi del Ciclo della Torre Nera, l’opera forse più sistematica della cosmologia di King, edita fra il 1982 ed il 2012. Anche se i collegamenti fra i differenti scritti dell’autore non paiono sistematici, presentano perlomeno una visione di fondo della realtà e dell’uomo che si esprime attraverso il ricorrere di personaggi, situazioni e simboli.

8 La scelta di Las Vegas come location del regno di Flagg non pare quindi motivata solo dall’ovvio riferimento ai valori della città, ma anche all’instabilità celata dietro il suo sfarzo e sempre presente nelle sabbia su cui sorge. Cf Mt 7, 26.

9 Cf. 1Sam 10, 6-10.

10 Cf. King, The Stand (ed. cit.), p. 823.

11 Cf. Ap 11, 3-10.

12 Cf. King, The Stand (ed. cit.), p. 918.

13 Cf. nota 6.

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Quando il Signore mi venne a cercare, la mia mente vagava confusa nei caldi spazi dell’inedia, talmente carica di nulla da non poter portare altro con sé. Il mio corpo invece si preparava ad un indefinito inverno nella città di Ancona, gioiello del medio Adriatico (si fa per dire). Nella patria del pesce e del “mosciolo”, per un leggiadro scherzo della Provvidenza, sono nato quasi trentadue anni fa con una sentita inimicizia fra me e qualunque carne marina. La chiamata del Signore mi vide studente in storia ed appassionato consumatore di storie: racconti di tutti i tipi e narrati da aedi di tutte le arti. Ora che lo Spirito mi ha indirizzato nella famiglia di San Domenico ho posto questo mio nulla nelle mani della Vergine Maria e del caro Castigliano e chiedo loro quotidianamente di mostrarmi in ogni storia, vera o immaginaria, la traccia del Divino che lì soggiace. Ora che sto a Bologna studio come studiando rendere omaggio a Dio. Per contattare l'autore: fr.giuseppe@osservatoredomenicano.it