All’inizio dell’anno successivo, al tempo in cui i re sono soliti andare in guerra, Davide mandò Ioab con i suoi servitori e con tutto Israele a compiere devastazioni contro gli Ammoniti; posero l’assedio a Rabbà, mentre Davide rimaneva a Gerusalemme. Un tardo pomeriggio Davide, alzatosi dal letto, si mise a passeggiare sulla terrazza della reggia. Dalla terrazza vide una donna che faceva il bagno: la donna era molto bella d’aspetto. Davide mandò a informarsi sulla donna. Gli fu detto: «È Betsabea, figlia di Eliàm, moglie di Uria l’Ittita». Allora Davide mandò messaggeri a prenderla. Ella andò da lui ed egli giacque con lei, che si era appena purificata dalla sua impurità. Poi ella tornò a casa (2Sam 11, 1-4).

Il profumo del desiderio

Questo famoso episodio della vita del re Davide, così carico di conseguenze per l’intera storia della Salvezza, altro non è che l’inizio, muto e banale, di una lunga e tragica catena di peccati. Com’è noto, la conclusione sarà un efferato omicidio, la cui viltà fa impallidire gli intrighi di Saul contro lo stesso Davide. Inoltre, non sarà il sovrano a pagare direttamente per questa colpa, poiché essa cadrà su di una vita innocente1.

Potresti pensare che il primo, fetido anello della catena sia la lussuria, tuttavia t’invito a riflettere meglio sulla questione. Prova ad immaginare: il sovrano, dopo aver riposato in un caldo pomeriggio primaverile, si alza, desideroso di godere della leggera brezza che annunzia con gaiezza la frescura della sera. Si affaccia e vede, magari goffamente celato da una tenda, un bel corpo di donna. L’acqua fresca scivola delicata carezzandone le giovani forme e lavando via il pesante sudore del giorno; ella è sicura, serena, convinta che nessuno sguardo violerà la pudica custodia della sua casa.

A questo punto l’accondiscendere al desiderio sessuale potrebbe apparirti come qualcosa di necessario, di automatico; crederai forse che la semplice nudità sia sufficiente a scatenare i deviati impulsi della lussuria. Eppure l’esperienza ci dice che non basta un bel corpo nudo ad imputridire il desiderio; non che l’attrazione non sia naturale, ma semplicemente questa, per tramutarsi in colpa, implica sempre un atto della volontà ben più complesso della semplice, ferina, passione.

Davide è un uomo santo, un servo di Dio capace di risparmiare il suo nemico solo perché unto dal Signore2; sarebbe del tutto naturale che, all’olezzo di quell’impulso animale, egli opponesse la santità di vita che l’esperienza e la Legge gli avevano insegnato. Eppure non lo fa. Non a caso l’autore sacro suggerisce che il re non intendesse realmente conoscere la donna, ma solo venire a conoscenza dei suoi legami; puoi immaginare come abbia gioito all’idea che il marito, quell’Uria che con tanta naturalezza opporrà al sovrano la sua rettitudine3, non fosse presente!

Il seguito è banale, tragicamente banale come sistematicamente appare l’abito del male, intessuto di lacrime, rimpianti e di quel sottile, stantio odore d’ineluttabilità che sempre più ottunde la nostra volontà. Proprio per questo, non procedere nella lettura ma torna un poco indietro e chiediti ancora: perché chi spesso è stato santo, non lo fu in quell’occasione, ma anzi cadde con tanta facilità?

Non ne fu certamente causa la povera Betsabea, forse vittima dello stesso Davide, bensì la nuda, calda e muta bambola che il re vide quel pomeriggio. Qualcosa di subdolo e strisciante infatti aveva mutato il suo sguardo, mostrandogli non una donna ma un desiderio, simile ad un impulso fisiologico: tanto intenso quanto rapido a svanire. Prova ad immaginare i recessi dell’animo del re: forse attese, con occhi avidi da bambino, che una menzogna zittisse la coscienza; oppure, come molti empi, pervertì anche il silenzio, lasciando ad esso il compito di render vano ogni argomento. In entrambi i casi, quello sguardo si radicò in lui ed improvvisamente, nel mistero del male, la Legge non ebbe più nulla da dire, poiché Betsabea aveva cessato di essere una donna.

Questo forse va spiegato, poiché credo sia un passaggio fondamentale. Una persona è ben più della sua esistenza fisica poiché, nel riconoscerla per ciò che è, la si comprende in un’intricata rete di connessioni ed appartenenze, tutte correlate fra loro. Una donna, per un uomo coevo a Davide, non era solo un’umana attualità bensì una figlia, forse una moglie, ed una madre, certamente un soggetto avente diritti e doveri per quella Legge che, sola, insegna ad amare Dio ed a godere di ogni bene4. Nel momento in cui Betsabea cessò, agli occhi del re, di essere una donna, divenendo solo un desiderato, tutte queste connessioni appassirono come fiori notturni. Quel nuovo sguardo quindi non solo semplificò il profilo di quella bella creatura, ma disegnò anche, con goffa violenza, un sogno d’autonomia nel perseguire il bene che, con tragica falsità, tramutò il male in opzione.

L’occhio del serpente

E qui torno alla domanda dell’inizio: cos’ha generato questo sguardo nel re d’Israele? La risposta ce la suggerisce il testo stesso nel dipingerlo come un sonnacchioso leone che, al temine di una giornata di tedioso riposo, contempla il suo regno. L’autore sacro non risparmia implicite accuse a Davide: non solo avrebbe dovuto essere in guerra, a condividere con i suoi uomini un santo dovere, ma avrebbe anche dovuto rispettare quell’astensione dalla sessualità, quella totale dedicazione a Dio, che è propria della guerra santa5. L’immagine che ci viene fornita è quella di un uomo preso dall’accidia, vittima di un ozio improduttivo e colpevole.

Ma fai attenzione, poiché qui non si tratta di un semplice stato d’inattività, come se quell’occhio maligno, padre della lussuria, fosse semplicemente la risposta ad un pericoloso istante d’inedia. Si tratta invece di una pigrizia più profonda, radicata in una nuova percezione della propria realtà. La Legge, espressione di quella Divina Volontà che aveva sollevato lo stesso Davide dal suo gregge al trono d’Israele6, era divenuta pesante, un giogo scomodo il cui culmine e fine non appariva più la gioia cui destinava, ma il prezioso istante in cui lo si sarebbe deposto.

In fondo si tratta dello stesso inganno del Serpente, che fu capace con poche parole di mutare lo sguardo di Eva: quell’albero, la cui distanza le appariva prima così bella nell’essere segno d’amorosa fedeltà, si tramutò nello scandalo di una privazione7. Allora, la luce della felicità s’offuscò agli occhi dell’uomo, il sole apparve coperto e gli unici bagliori scorti furono quelli di fuochi ingannatori, ai cui riverberi la fossa sembrò un comodo giaciglio.

Questo fu il primo peccato di Davide, quel seme che, nell’attecchire, aveva preparato tutta l’orrenda fioritura di morte che conosci. La stanchezza per quella Legge, per quel Dio che gli appariva così distante da ogni immediata necessità, fu in grado di trasformare la paterna mano del Signore nell’opprimente presenza d’un padre sopravvissuto alla sua utilità.

Probabilmente il re non s’accorse di questo passaggio, di questo tremendo mutamento del proprio cuore8. Forse quel giorno si alzò salutando Dio e forse, ormai cieco a se stesso, ne benedì le grazie prima di coricarsi. Eppure il suo cuore era già malato, incapace di rammentare l’amore che aveva reso così intimo il Signore al suo animo. Pigramente, era già alla ricerca di un altro bene, di una luce nuova capace di sostituire il bagliore di quel sole che appariva ai suoi occhi così vecchio e lontano. Per questo, quando si affacciò a quella terrazza e scorse Betsabea, egli la ridusse alla gioia così dolce e così lontana di cui aveva perduto il soave frutto.

Caro amico, molti saggi condannarono l’ozio, padre d’ogni vizio; mi trovo d’accordo con loro, ma t’invito a chiarire questo sapiente invito. Non è tanto l’assenza d’azione a dover essere evitata, quasi che la spossatezza sia fonte di salvezza, quanto il cedere a quella micidiale noia, figlia d’una gioia infantile, che spegne l’amore e, al buio, ci chiede di cercare un’altra luce9.


1 Cf 2Sam 11-12.

2 Cf 1Sam 24, 1-23.

3 Cf 2Sam 11, 6-13.

4 Cf Es 20, 17 e Dt 5, 21.

5 Cf 1Sam 21, 5-6.

6 Cf 1Sam 17, 20.

7 Cf Gen 3, 1-7.

8 Cf 2Sam 12, 1-13.

9 Ora che siamo al termine della nostra piccola riflessione, possiamo approfondire brevemente il senso del titolo di questo articolo. L’espressione “demone meridiano” deriva dal testo latino della Vulgata del salmo 91 (90), 5-6. Evagrio Pontico, nel suo Trattato pratico sulla vita monastica, interpreterà il daemonio meridiano come «Il demonio dell’accidia, denominato anche “demonio del mezzogiorno”, è il più gravoso di tutti i demoni: esso s’incolla al monaco verso l’ora quarta e ne assedia l’anima fino all’ora ottava». Per approfondimenti cf Evagrio Pontico, Trattato pratico sulla vita monastica, 12, a cura di L. Dattrino, Roma 1992, 70-71.

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fr. Giuseppe Filippini
Quando il Signore mi venne a cercare, la mia mente vagava confusa nei caldi spazi dell’inedia, talmente carica di nulla da non poter portare altro con sé. Il mio corpo invece si preparava ad un indefinito inverno nella città di Ancona, gioiello del medio Adriatico (si fa per dire). Nella patria del pesce e del “mosciolo”, per un leggiadro scherzo della Provvidenza, sono nato quasi trentadue anni fa con una sentita inimicizia fra me e qualunque carne marina. La chiamata del Signore mi vide studente in storia ed appassionato consumatore di storie: racconti di tutti i tipi e narrati da aedi di tutte le arti. Ora che lo Spirito mi ha indirizzato nella famiglia di San Domenico ho posto questo mio nulla nelle mani della Vergine Maria e del caro Castigliano e chiedo loro quotidianamente di mostrarmi in ogni storia, vera o immaginaria, la traccia del Divino che lì soggiace. Ora che sto a Bologna studio come studiando rendere omaggio a Dio. Per contattare l'autore: fr.giuseppe@osservatoredomenicano.it

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