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Il terrore dell’orda

Che cos’è che i ricchi temono di più? Non certamente la morte, poiché nel suo freddo lucore l’oro tinge di luce anche l’ora più buia; né tantomeno la malattia, visto che l’impervia e brutale libertà che la ricchezza dona rende inammissibile ogni ipotesi di debolezza. La vera ed unica paura di chi tanto possiede è il non avere più nulla. Per essa gli antichi allevatori trasformarono i pastori in spietati guardiani e, sempre per i suoi muti crampi, re e mercanti edificarono mura di mattoni e di terrore. In fondo non è difficile comprenderli: la povertà materiale, quella miseria che tanto spesso malediciamo, è una catena senza chiavi o serrature, in grado di trasformare ogni piccola stilla di felicità in un crudele miraggio. Perseguitato da questi spettri, facilmente il ricco s’immagina di cadere nella disperazione di chi vive prigioniero in un mondo perverso dove la stessa gioia altro non è che la più raffinata delle torture.

Sono certo che molti di voi non condividano, perlomeno nella sua chiarezza ed evidenza, questa prospettiva; tuttavia, ferma restando la maturità del singolo, ritengo che a livello sociale la percezione che ho appena descritto sia tutt’altro che esagerata. Difatti, ciò che vale parzialmente per l’individuo benestante, varrà in modo ben più totalizzante per una cultura opulenta come la nostra. Quell’inconscio sociale, che tanto simile appare al muto istinto dell’animale, ci porta non solo a vivere nel timore della povertà, ma anche a tentare di esorcizzare quest’ansia proiettandola nell’immaginario.

I mondi fantastici che la mente partorisce divengono spesso improvvisati altari dove una pregnante liturgia, fatta di simboli semplici ma potenti, cerca di spogliare il male della sua più temibile armatura: la paura che genera. Nel caso specifico di cui stiamo parlando, questo vero terrore sociale ha trovato la sua ara in un genere cinematografico molto popolare e semplice che, dietro alla sfacciata ricerca di profitto, cela un’interessante simbologia: sto parlando dei film di zombie.

Il genere ha il suo padre spirituale nel regista George A. Romero che nel 1968, con il suo film Night of the Living Dead, stabilì un canone dal quale lui stesso si divertirà a trarre tutte le possibili varianti. Al di là delle differenti evoluzioni contemporanee1, questo tipo di pellicole presenta una società occidentale, solitamente gli Stati Uniti, messa in ginocchio nella sua prosperità da orde di morti viventi il cui unico fine è divorare tutto ciò che vive. La narrazione di solito procede tramite serrate scene d’azione, sequenze volutamente macabre ed un generale tono di disperazione che sembra quasi ammorbare l’aria.

L’elemento centrale sono tuttavia gli zombie, ossia i morti viventi. Al di là dell’origine mitologica della figura, essi rappresentano bene una concretizzazione di quella paura della miseria tipica delle società ricche: si tratta infatti di esseri umani sporchi e luridi, con i quali è impossibile comunicare e che, nella loro insaziabile fame, sono capaci di consumare tutto quel benessere sul quale fondiamo la nostra felicità. Infine, se ancora la simbologia soggiacente non fosse sufficientemente chiara, gli zombie sono in grado di tramutare i vivi in uno di loro, dando carne al più grande spauracchio di ogni ricco: essere divorato dai poveri fino a divenire povero a sua volta2.

I mostri di Sua Maestà

Anche se è possibile, e forse necessario, comprendere i moti inconsci e sociali che sono alla base delle diverse forme di cultura popolare, converrete con me che la qualità oggettiva dei singoli prodotti è spesso tutt’altro che eccellente. I film di zombie sono, solitamente, delle gradevoli opere d’intrattenimento che, qualora tentino un approfondimento, non riescono a scendere più di tanto nel profondo. Tuttavia, proprio come un Ludovico Ariosto riuscì a trarre un vero capolavoro, ossia l’Orlando furioso, da un genere estremamente popolare come quello cavalleresco, così capita che anche una tipologia di pellicole destinate al mero intrattenimento, come quella di cui stiamo parlando, incontri un artista di grande profondità introspettiva capace di valorizzarla.

Questo accadde nel 2002 quando il regista inglese Danny Boyle, autore di pellicole del calibro di Trainspotting e The Millionaire3, realizzò il film 28 Days Later. L’opera, al di là della peculiarissima ambientazione britannica, si presenta inizialmente come un normale esponente del genere: il Regno Unito, sconvolto dalla diffusione di una tremenda tipologia di rabbia, ha visto la gran parte della sua popolazione trasformarsi in orde di folli cannibali fotofobi; i pochi superstiti, nascosti in una civiltà totalmente collassata, vivono nell’indigenza e nella consapevolezza di poter morire in qualunque momento.

Oltre ad una splendida colonna sonora, realizzata dal compositore John Murphy, ed alla magistrale interpretazione dell’attore protagonista Cillian Murphy, il film si distingue dagli altri esponenti del genere per un differente equilibrio narrativo. Se infatti da un lato le scene d’azione, oniriche e realistiche al tempo stesso, sono relativamente poche, dall’altro l’economia dell’opera investe moltissimo tempo sulla tematica della disperazione e sulle sue conseguenze; a differenza però di altre pellicole simili, questi due elementi non sono semplicemente proposti all’emotività dell’utente, ma ricevono una vera e propria interpretazione.

Lo svolgimento della narrazione pone lo spettatore a diretto contatto con due drammatiche scene di suicidio: uno di massa, all’interno di una comunità religiosa, ed un altro ad opera dei genitori del protagonista. Invece di limitarsi a proporre la carica emotiva legata al gesto, Boyle pone in evidenza come la disperazione sia la ragione di un simile atto: a fronte di una sofferenza percepita come senza via di scampo, la morte appare la sola soluzione. Nell’ultima parte del film questo concetto viene ulteriormente approfondito: presentando una seconda, e forse peggiore, reazione alla medesima disperazione, questa viene fondata su di una domanda, ossia se il dramma dell’epidemia sia o meno esteso a livello globale4. L’implicita risposta affermativa posta alla base dei suddetti gesti estremi è quindi radicata in un drammatico processo mentale con il quale l’uomo, immerso nel dolore, tende ad universalizzare quel dolore, a farne una costante; è come se un prigioniero cieco, dopo aver toccato una parete della cella, desse per scontata la presenza delle altre tre senza verificare.

La tragica ironia di questa situazione viene usata per fondare la risoluzione della vicenda: il protagonista, ferito e sconfitto, alza gli occhi al cielo per la prima volta dall’inizio della pellicole e vede un aereo. La sofferenza, che prima sembrava racchiudere l’intero creato nelle sue spire, improvvisamente appare per ciò che è: un’oscura parentesi in attesa di essere chiusa. La genialità della conclusione interiore, con la riscoperta di una speranza per cui lottare dentro e fuori dal proprio cuore, conduce ad un inaspettato lieto fine, tanto bizzarro, viste le premesse, quanto raro per il genere.

La salvezza di chi si lascia nutrire

Una volta qualcuno disse che la ragione per cui non vediamo gli angeli è che non guardiamo mai in alto. Molto poetico e drammaticamente vero. Che la sofferenza sia, nelle sue differenti forme, la pesante pena che ci tocca per la colpa originale è non solo certo ma anche evidente per ogni credente. Chiunque sia onesto con se stesso scorgerà con facilità come quell’antica colpa, orrenda eredità dei nostri antenati, non ci sia mai estranea: come un grosso frutto, tossico e dolcissimo al contempo, più volte ne abbiamo addentato la morbida polpa gettando veleno sulla nostra autentica felicità in cambio di caduchi spasmi di piacere. La realtà tuttavia è che il dolore che sperimentiamo in questa vita si fonda su elementi finiti, corruttibili, per cui anche la sua azione non può che condividere tale finitudine.

Questa conclusione dovrebbe dare speranza e gioia a tutta l’umanità, orientando i cuori alla necessità di quel qualcosa di stabile ed infinito che, anche se ignoto alla ragione, viene sempre desiderato con fanciullesca semplicità dal cuore. Eppure molti vivono in una realtà ben diversa, in mondi piccoli e cupi dove il male, una semplice privazione, riesce a sembrare infinito, illimitato, totalizzante.

Sarebbe bello poter incolpare altri dell’esistenza di queste prigioni, cercare in fredde e schioccanti dita la chiave di simili celle, eppure la realtà è che i carcerieri siamo noi. La chiave è bene al sicuro sotto i nostri letti, nascosta alla vista al punto da poter credere che non esista affatto. Si dice che la follia sia non nello svolgimento della ragione ma nelle premesse; se questo è vero, allora potremmo avere la chiave di lettura della condizione di tanti, uomini e donne. Scegliere di vivere in un piccolo mondo chiuso, che così facilmente si tramuta in una prigione, è ragionevole per chi vuole avere il pieno controllo della propria felicità. Fra quelle pareti ogni anfratto è raggiungibile, ogni angolo o piega conoscibile, ogni gioia, per quanto piccola e misera sia, è a portata di mano; perfino le rachitiche membra dei beni della carne possono apparire appaganti come le calde curve d’una fresca sposa. Finché simili mondi sono pieni, ricchi dei loro cinerei frutti, allora anche il prigioniero può illudersi che non gli serva altro, beandosi in quella suprema libertà che s’ode solo nell’eco solitaria della propria voce. Eppure, quando l’illusione crolla, quando le pareti iniziano a deridere l’uomo con il gelo del loro vuoto, allora subentra la disperazione, la convinzione che quel piccolo universo, come un campo arido, abbia dato tutto e ci attenda come compagni nella morte.

A quel punto l’uomo, il prigioniero di se stesso, ha due scelte: può stendersi e lasciare che lo stendardo della sua libertà sia anche il pudico sudario delle sue spoglie, oppure può uscire. La chiave è sempre sotto quel letto, in attesa di annientare un mondo perverso. Se le dita tremanti del prigioniero riusciranno a spalancare l’incancrenita porta che tanti anni prima lui stesso chiuse, allora potrà uscire fuori e, alzati gli occhi al Cielo, stendersi sull’erba ed attendere di essere salvato.


1 Un degnissimo continuatore del genere è il regista statunitense Zack Snyder che se da un lato omaggia Romero con il suo Dawn of Dead del 2004, dall’altro cerca di esplorare i confini del genere, non senza ironia, con il suo Army of the Dead del 2021. Tuttavia, a mio parere, una delle più profonde letture del genere zombie è stata data dal fumettista e sceneggiatore statunitense Robert Kirkman nel suo The Walking Dead, edito fra il 2003 ed il 2019.

2 La simbologia dello zombie moderno è stata, non senza efficacia, accostata alla paura suscitata in molti paesi ricchi dalle migrazioni di massa dalle regioni più povere del mondo. Molti caratteri della creatura rispondono ad una rappresentazione simbolica dell’immigrato ed il risultato della sua azione, ossia la distruzione del benessere e l’assimilazione della popolazione invasa, rendono bene il timore irrazionale suscitato dall’arrivo di queste popolazioni a livello sociale ed economico.

3 Le pellicole citate uscirono rispettivamente nel 1996 e nel 2008.

4 Il lettore che non avesse visto il film non legga questa nota. Un gruppo di soldati britannici, ben armati e protetti dagli infetti, rapiscono le due ragazze che viaggiano con il protagonista, di cui una minorenne, per usarle come oggetti sessuali e strumenti di riproduzione. La disperazione sorta in loro per la convinzione che tutto il mondo fosse infetto trova una tragica soluzione in questo ratto e nella distorta promessa di futuro che porta con sé.

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Quando il Signore mi venne a cercare, la mia mente vagava confusa nei caldi spazi dell’inedia, talmente carica di nulla da non poter portare altro con sé. Il mio corpo invece si preparava ad un indefinito inverno nella città di Ancona, gioiello del medio Adriatico (si fa per dire). Nella patria del pesce e del “mosciolo”, per un leggiadro scherzo della Provvidenza, sono nato quasi trentadue anni fa con una sentita inimicizia fra me e qualunque carne marina. La chiamata del Signore mi vide studente in storia ed appassionato consumatore di storie: racconti di tutti i tipi e narrati da aedi di tutte le arti. Ora che lo Spirito mi ha indirizzato nella famiglia di San Domenico ho posto questo mio nulla nelle mani della Vergine Maria e del caro Castigliano e chiedo loro quotidianamente di mostrarmi in ogni storia, vera o immaginaria, la traccia del Divino che lì soggiace. Ora che sto a Bologna studio come studiando rendere omaggio a Dio. Per contattare l'autore: fr.giuseppe@osservatoredomenicano.it