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Ci ritroviamo dove ci eravamo lasciati, per concludere quanto introdotto nello scorso articolo (clicca qui per leggerlo: L’uomo chiave), al fine di “ricercare nel passato un modello che permetta ai cristiani di vivere serenamente il rapporto fra la fede e la politica”. In esso era stata introdotta la figura di Bartolomé de Las Casas, religioso domenicano spagnolo vissuto nel XVI secolo. In quest’ultimo articolo, dopo una premessa riguardante il rapporto suddetto, vorrei avanzare infine una proposta di lettura circa le vicende legate all’attività del frate predicatore.

Fede e politica

Innegabilmente la fine del medioevo, convenzionalmente coincidente con il crollo dei limiti del mondo cristiano1, segnò una svolta nel rapporto che la fede intratteneva con gli altri aspetti della vita dell’uomo. Quell’unità interiore che, pur con tutti i limiti, l’evo appena trascorso aveva mantenuto e della quale si era nutrito, nella modernità venne meno, costringendo gli uomini, specialmente i credenti, ad elaborare soluzioni nuove. Se l’analisi contemporanea, storica e non solo, ha dato un’importanza elefantiaca al rapporto scienza-fede dal rinascimento in poi, ben più profondo e pregnante fu, a mio parere, il divorzio fra fede e politica. La preminenza della prima dicotomia può dipendere dalla maggiore nettezza e rapidità con la quale la separazione si è consumata: mentre le spinte all’indipendenza dalla fede di quei secoli vennero presto cavalcati dal mondo del sapere, quello della politica vi si allineò con maggiore prudenza, dando vita a mutamenti graduali ma altrettanto profondi. Questa scissione, che ha trovato differenti declinazioni nei diversi luoghi e tempi, ha il suo sunto in una domanda tanto antica quanto pressante nel nostro presente: come può il cristiano congiungere l’esigenza di una conversione radicale, che presuma l’assunzione della croce di Cristo nella sua vita, con le istanze di una politica che nel mare magnum dei desideri umani cerca da sempre una convivenza che sa di connivenza? Mentre nel mondo medievale il buon cristiano era, perlomeno idealmente, anche il miglior regnante auspicabile, nell’età moderna e contemporanea la complessità della realtà sembra aver relegato questa visione nell’ambito della mera utopia anche per i credenti più sinceri. Mi azzardo quindi a dire che se il cattolico moderno e contemporaneo cerca la sovranità di Cristo nel proprio cuore, non altrettanto zelantemente l’auspica per le propria città.

Una proposta di lettura

Nel precedente articolo dedicato a questo tema, come detto in apertura, vi ho presentato sommariamente la vita e l’azione di fra Bartolomé de Las Casas. Come accennai nel suddetto pezzo, il frate domenicano vorrebbe essere non tanto un esempio da seguire, quanto un modello cui ispirarsi per affrontare la dicotomia di cui sopra. Vorrei proporvi pertanto alcuni spunti di meditazione ispirati alla sua vicenda.

La prima cosa che Las Casas c’insegna è di non chiudere gli occhi: non si tratta tanto di scegliersi una causa, quanto di non cadere nella trappola dell’inevitabilità. Nell’osservare, infatti, alcuni fenomeni pregni di profonde ingiustizie spesso, senza volerlo, li condanniamo pur ritenendoli inevitabili. In un certo senso il nostro biasimo non va verso il fatto in sé e le persone che ne sono responsabili, ma verso Dio che giudichiamo colpevole di aver posto un peso tanto empio quanto inamovibile. Il primo insegnamento che il nostro spagnolo ci lascia è che nessun male è inevitabile, specialmente per chi, discepolo di Cristo, con Lui ha anche vinto il mondo.

Da questa speranza nasce la seconda lezione: il compromesso non è un fine ma un mezzo. L’attività di Las Casas non è stata scevra da accordi o riconoscimenti concessi ai potenti ed al sistema che rappresentavano. Prova ne è la continua intercessione che il domenicano operò verso una corte spagnola di cui non rinnegò mai l’autorità. Tuttavia questi compromessi non erano visti come il raggiungimento di una condizione di calma nella quale cullare la coscienza, bensì come passi verso il raggiungimento di un ideale di giustizia tanto alto quanto mai confuso con le mere utopie.

Da questi insegnamenti comprendiamo non il singolo uomo eroico, ma i molti che, con coraggio ed umiltà, hanno accettato di dialogare con l’empio senza mai rischiare di essere da lui definiti o, peggio, limitati. Questi sognatori, retti dalla fede ed insensibili all’incomprensione ed alla calunnia, costruirono una forma di dialogo con il mondo politico fondata proprio sull’accoglienza dei suoi limiti e sulla consapevolezza che spesso l’utopia è tale non per il fine ma per i tempi ed i modi previsti per raggiungerlo. Se un tale esempio sia ad oggi spendibile lo lascio decidere a voi lettori.


1 Stiamo ovviamente parlando della caduta di Costantinopoli del 1453 e della scoperta dell’America nel 1492: le due date segnarono il venir meno dell’estremo confine politico della cristianità medievale e del limite geografico della stessa finora percepito.

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Quando il Signore mi venne a cercare, la mia mente vagava confusa nei caldi spazi dell’inedia, talmente carica di nulla da non poter portare altro con sé. Il mio corpo invece si preparava ad un indefinito inverno nella città di Ancona, gioiello del medio Adriatico (si fa per dire). Nella patria del pesce e del “mosciolo”, per un leggiadro scherzo della Provvidenza, sono nato quasi trentadue anni fa con una sentita inimicizia fra me e qualunque carne marina. La chiamata del Signore mi vide studente in storia ed appassionato consumatore di storie: racconti di tutti i tipi e narrati da aedi di tutte le arti. Ora che lo Spirito mi ha indirizzato nella famiglia di San Domenico ho posto questo mio nulla nelle mani della Vergine Maria e del caro Castigliano e chiedo loro quotidianamente di mostrarmi in ogni storia, vera o immaginaria, la traccia del Divino che lì soggiace. Ora che sto a Bologna studio come studiando rendere omaggio a Dio. Per contattare l'autore: fr.giuseppe@osservatoredomenicano.it