Se si vuole conoscere un personaggio storico, uno dei modi migliori è studiare i suoi scritti. Chiunque abbia composto un testo sa che si tratta di ben più di una mera azione meccanica, poiché coinvolge tutta la nostra persona a livelli spesso inaspettati. Anche se coscientemente cercassimo di nascondere alcuni aspetti del nostro io, uno scritto lungo, se analizzato da un lettore attento, probabilmente li rivelerebbe comunque.
Questa verità rende, quindi, la mancanza di qualunque opera scritta un duro colpo per lo storico che volesse ricostruire il pensiero e la visione del mondo di un personaggio del passato. Esistono naturalmente molti altri mezzi per compiere analisi simili, tuttavia la mancanza di un contatto più diretto, più personale oserei dire, rende il ricercatore goffo come un cameriere che cercasse di apparecchiare una tavola al buio.
Tre ipotesi
Questa è la situazione di chi attualmente volesse dipingere il ritratto storico di san Domenico di Caleruega, fondatore e padre dei Frati Predicatori. Questo grande santo infatti, a differenza di altri suoi “colleghi”, non ha lasciato nessun testo degno di nota; tutte le notizie che abbiamo di lui, ivi compresi i tratti caratteriali, provengono da racconti posteriori e diversamente basati su di una conoscenza diretta[1]. Sono da escludere naturalmente alcune lettere autografe del castigliano, che però sono troppo gravate dall’ufficialità e dalla brevità per servire allo scopo di cui sopra.
Ciò che vorrei approfondire qui è il motivo di questo silenzio, soprattutto perché proprio di un uomo che ha fatto della comunicazione il cuore della sua esistenza. A mio modesto parere le spiegazioni, semplificando, possono essere tre: Domenico scrisse, ma i suoi testi andarono perduti, Domenico non scrisse perché troppo impegnato nelle altre sue attività e Domenico non scrisse di proposito. Proviamo ora ad analizzarle brevemente per giungere, non dico alla verità, ma quantomeno ad una conclusione plausibile.
Partiamo dalla seconda: possiamo escluderla immediatamente per il semplice fatto che la scrittura non era considerata estranea alla predicazione. Giordano riporta nel suo Libellus un episodio miracoloso di Domenico che avvenne durante una disputa e che ebbe come protagonista uno scritto composto dal santo allo scopo di confutare le tesi dei catari[2]; al di là del prodigio, questo racconto testimonia la pratica di combattere gli eretici più colti con opere composte ad hoc e rende, quindi, indifendibile la tesi di un Domenico troppo occupato a predicare per scrivere.
D’altra parte, tali testi potrebbero non essersi conservati. Ciò è possibile, poiché i manoscritti sopravvivevano nel secolo XIII solo se copiati, e naturalmente venivano copiati solo se aventi un qualche peso per qualcuno. Come lo stesso Giordano testimonia[3], la devozione dei primi domenicani per il fondatore fu molto tiepida, tuttavia le cose cambiarono appena dieci anni dopo la morte del santo, all’ombra del processo di canonizzazione voluto dallo stesso pontefice Gregorio IX[4]: al castigliano venne data l’importanza che meritava e quindi sarebbe stato sensato, a quel punto, interessarsi di suoi eventuali scritti precedentemente ignorati e difficilmente già perduti.
La terza opzione
Una risposta certa non la posso dare, ma vorrei provare a considerare vera, per un attimo, la terza opzione. Se san Domenico non avesse di proposito realizzato testi complessi e numerosi, o conservato quelli fatti, pur avendone, volendo, le capacità[5]? Ad uno sguardo attento è facile notare l’attenzione che il santo poneva nel non assumere un’eccessiva centralità nella conduzione dell’Ordine. Egli non rifuggì la responsabilità, tanto che fu il primo Maestro dell’Ordine, ma fu attento a costruire un sistema che si reggesse più sulla collegialità che sul carisma personale[6]. Si preoccupò di far sì che i frati non fondassero la propria vita e missione di religiosi sulla sua sequela, ma sui principi da lui indicati e collegialmente confermati. Questa libertà dal giogo del fondatore riuscì al punto da generare una sorta di oblio sulle qualità dello stesso, come visto sopra. L’assenza di scritti, quindi, a mio parere può essere letta come un’assicurazione che Domenico si prese contro la condanna dell’imitazione personale. Tale era la stima che aveva della libertà del predicatore da non volerla intaccare con un modello individuale troppo definito che, inevitabilmente, avrebbe costituito un ostacolo ad ogni adattamento.
Questo silenzio può quindi essere letto come un profondo invito all’umiltà, non vista come irragionevole diminuzione di sé, ma come coscienza di non essere il regista dell’opera bensì solo il primo attore, importante ma destinato a scomparire. L’immagine venutasi a creare è quella di un Domenico preoccupato di porsi sempre, anche dopo la morte, non come maestro da seguire, ma come discepolo pronto a sostenere i compagni in un cammino da percorrere assieme.
Ecco che allora il silenzio di Domenico non diventa un invito a non parlare, ma a parlare solo con Dio o di Dio, senza mai porre se stessi davanti alla Luce.
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[1] Le tre fonti principali sono il Libellus de Initio Ordinis Fratrum Praedicatorum del beato Giordano di Sassonia, gli Atti del processo di Bologna e gli Atti del processo di Tolosa, oltre naturalmente alle Costituzioni primitive dell’Ordine, non scritte direttamente da Domenico ma comunque intrise del suo pensiero. Tutti questi testi sono editi in lingua italiana in p. Pietro Lippini op, San Domenico visto dai suoi contemporanei, ESD, Bologna 1998.
[2] Cfr. Beato Giordano di Sassonia op, Libellus de Initio Ordinis Fratrum Praedicatorum, nn. 22-25 [d’ora in poi Libellus].
[3] Cfr. Ibidem, n 98.
[4] Cfr. p. Pietro Lippini op, San Domenico, p 424.
[5] Cfr. Beato Giordano di Sassonia op, Libellus, nn. 6-8.
[6] Cfr. Ibidem, nn. 40-43.