Condividi

I bagliori della guerra

Ho sentito parlare per la prima volta di Eugenio Corti e del suo romanzo più famoso, Il cavallo rosso1, solo dopo essere entrato in convento. Voi potreste dirmi che la mia ignoranza, colpevole o meno che sia, non vi riguarda al punto da rendere rilevante questa informazione e, in linea di massima, avreste perfettamente ragione. Tuttavia, avendo personalmente approfondito lo studio della letteratura italiana anche a livello universitario, ero sinceramente convinto che i grandi nomi, seppur magari non familiari, mi fossero tutti almeno remotamente noti. Per questo, forse un po’ ingenuamente, di fronte alle entusiastiche lodi che ne tessevano i miei confratelli, ho pensato si trattasse di uno di quegli scrittori di talento divenuti delle piccole star grazie alla loro chiara adesione ad uno specifico gruppo.

Quando però ho preso in mano quel suo romanzo, dal nome così biblicamente evocativo2, solo vagamente intimorito dalla dimensioni, mi sono reso conto di quanto profondamente mi sbagliassi. Solcando quelle belle pagine, mi sono trovato immerso in uno sguardo familiare eppure nuovo, delicato ed accattivante quale solo il Manzoni, figlio come Corti della Lombardia, aveva saputo regalarmi. Mi sono immediatamente accorto di aver fatto, nel mio intimo, un grande torto all’autore e di trovarmi di fronte ad una di quelle opere che non solo sanno raccontare la storia, ma riescono anche a trarre da essa quel qualcosa di divino ed eterno che alberga nell’uomo.

Mi chiesi allora come mai un artista simile fosse sfuggito ai miei libri, alle fitte maglie dell’istruzione, per incrociare la mia vita solo attraverso le goffe dita del passaparola. La risposta la trovai incisa in quelle pagine, incastonata nella fede profonda di un uomo evidentemente abituato non solo a conoscere la Verità, ma anche a viverla ogni giorno. Mi resi conto di aver incrociato una guerra, uno scontro di cui ignoravo il sangue e le grida ma non per questo meno brutale. Al termine della lettura, quando, come alla fine di ogni capolavoro, ci si chiede con che coraggio quell’ultima pagina possa riposare serenamente nel silenzio, compresi che quella lotta chiamava anche me; è per tale ragione che vi scrivo queste scarse righe, perché anche la mia piccola fionda faccia il suo ingresso in campo3.

Alberi e cavalieri

Il cavallo rosso, come suggerisce lo stesso titolo, parla della guerra; non di un qualche conflitto lontano o immaginario, ma dell’impensabile follia della Seconda Guerra Mondiale. Corti delinea, con grande maestria, un mondo che appare, al lettore contemporaneo, simile alla foto giovanile di una nonna: dolcemente familiare e, al tempo stesso, profondamente estraneo. Le pennellate con cui sfuma quei drammatici eventi posseggono tutto il fascino di una realtà vissuta oltre se stessa, raccontata alla luce della lenta meditazione degli anni e quindi capace di rivelare una spirituale profondità che solitamente sfugge al goffo sguardo del presente.

Al di là della vicenda in sé, ricca di un complesso e mai scontato legame autobiografico con la reale esperienza dell’autore, ciò su cui vorrei attirare la vostra attenzione è la particolare titolatura delle tre parti che dividono l’opera. Il romanzo, all’interno di una precisa tripartizione quantitativa, presenta una prima sezione il cui titolo ricalca quello dell’opera stessa; le altre due invece sono identificate da altri riferimenti all’Apocalisse di san Giovanni, ossia Il cavallo livido e L’albero della vita4.

In se stesso il simbolismo scelto dall’autore non è particolarmente complesso e si propone come facilmente comprensibile da chiunque abbia anche una minima familiarità con il testo biblico. Se infatti la prima parte riporta tutti i racconti legati al conflitto, con una particolare cura per quel fronte russo esperito in prima persona dall’autore, sotto lo stendardo del cavaliere di morte Corti pone gli strazianti resoconti delle atrocità e delle depravazioni che accompagnarono e seguirono gli scontri. Organicamente sistemate grazie alla finzione narrativa, queste testimonianze acquistano maggiore pregnanza emotiva proprio dall’essere state poste sotto il nome di personaggi che, per quanto fittizi, riescono a realizzare un’intimità con il lettore impossibile ad un semplice resoconto. Infine, la luce dell’albero della vita mostra, con quella celerità che è propria della quotidianità, la rinascita dell’Italia ed i differenti modi nei quali quelle vite, per molti versi eccezionali, la declinarono.

Alla luce di questa schematizzazione mi sono posto allora una domanda, sulla cui risposta vorrei riflettere con voi: per quale ragione Corti ha scelto di titolare l’intera opera con la medesima immagine utilizzata per la prima sezione della stessa?

Le insidie della calma

Una risposta potrebbe essere la seguente: la guerra è principio e causa degli eventi, lieti o drammatici, narrati di seguito. Questa soluzione non è certamente da disprezzare: il Secondo Conflitto Mondiale in effetti, proprio in virtù della sua tragica eccezionalità, rivestì senza dubbio una funzione causale nei confronti di molti avvenimenti. Ad esempio, le atrocità compiute durante e dopo gli scontri sarebbero state impensabili in un mondo in pace; d’altro canto, una parte non indifferente della nostra cultura, ora come subito dopo la fine della guerra, si fonda proprio sulla riflessione circa quei tragici accadimenti.

Tuttavia qualcosa non torna: se questa fosse la chiave di lettura corretta, Corti avrebbe, nella seconda e terza parte, messo in evidenza come gli avvenimenti narrati dipendessero direttamente dal conflitto. Egli invece, pur non trascurando la causalità di cui sopra, analizza sia le atrocità che la ripresa non alla luce di una guerra conclusa, ma di una ancora in corso. L’esempio più lampante è quello del resoconto dei crimini commessi dal regime comunista sovietico contro i prigionieri di guerra, italiani e non, e la propria stessa popolazione: anche se il rancore conseguente all’invasione dell’Asse è un elemento pienamente considerato, la vera causa viene ricercata dall’autore in una sconfitta spirituale, una decadenza dei valori frutto di un miope rifiuto del cristianesimo. Allo stesso modo, gli accadimenti del secondo dopoguerra italiano non sono semplicisticamente analizzati alla luce di un unico evento principale, il conflitto appunto, sempre centrale nei suoi strascichi, quanto nell’ottica della costante necessità di armare le coscienze in Cristo contro un vero, più subdolo, Nemico.

Si evince, da quanto detto, quale sia la reale risposta alla domanda: l’intero romanzo s’intitola Il cavallo rosso non in riferimento alla Seconda Guerra Mondiale, come invece accade per la prima sezione dello stesso, bensì per l’intento di porre in evidenza la vera guerra che affligge l’umanità, uno scontro costante e spietato, dalle molte teste5, portato avanti da un Avversario reso disperato dalla sconfitta6.

Ecco che quindi l’ermeneutica storica proposta da Corti si rivela per quello che è: una vera e propria teologia della storia capace di leggere le vicende dell’umanità alla luce di una guerra avente il cuore degli uomini come terreno, un Serpente Antico come nemico e la vittoria di Cristo come sola conclusione. Qui sta la vera genialità del romanzo: nel presentare con chiarezza i diversi volti delle teste del Dragone, le differenti corone di cui s’adorna, evidenziando ogni volta come sempre uguale e disperato sia il loro ghigno. Lo scopo dell’autore non è quello di mostrare alla cristianità, alla Chiesa, come combattere questo conflitto, fatto di battaglie ora pesanti come panzer ora lievi come una buona intenzione, poiché evidente risulta alla luce della fede l’inevitabilità della vittoria finale del Redentore. Ciò che si prefisse il geniale scrittore lombardo è di metterci in guardia dalla pace.

Ben triste appare questo intento, ma forse mai necessario come oggi. San Paolo, nella Lettera agli Efesini, descrive la vita del cristiano come una lotta, un combattimento, non individuale o saltuario, ma organico e collettivo come solo una guerra sa essere7. Noi spesso finiamo per pensare che questo avvertimento valga solo sporadicamente, che lo scudo e la spada siano necessari solamente quando il Nemico compie le sue rare incursioni. Dimentichiamo invece che in guerra non esiste la pace, ma solo la calma e che questa altro non è che la notte oscura celante il prossimo assalto. Ecco che quindi, come Corti ben mette in chiaro, confondere quella calma per pace altro non significa che lasciare sguarnite le mura di fronte ad un Avversario che, pur non potendo vincere, è ancora capace di uccidere.

Ma questa visione della realtà spirituale non viene da Corti resa sterile agganciandola troppo strettamente alla concezione umana di conflitto. L’uomo, di per se stesso, non riesce ad odiare l’intento di un nemico senza estendere quell’odio anche al nemico stesso. Per tale ragione il suo combattere finisce quasi inevitabilmente per oscurare la misericordia. Il cristiano tuttavia vive questa realtà in seno alla Chiesa, come membro dello stesso Corpo di Cristo. Per tale ragione la sua lotta contro l’agire di un avversario, sia esso consapevole o meno della parte per cui si batte, non nega mai la misericordia ma diventa essa stessa atto di misericordia. Sostenuto dalla Grazia infatti il credente diviene capace di coniugare lo scontro con la carità, riuscendo a vedere nella sconfitta del nemico un dono, un’occasione per mostrargli la bellezza della Luce.

Per questo concludo affermando che oggi noi cristiani non dobbiamo evitare di batterci con coraggio con chi nega anche solo uno iota del Vangelo, ma «[…] dobbiamo stare ben attenti che la nostra lotta contro il male, non si trasformi in persecuzione per qualcuno»8.


1 Cf Eugenio Corti, Il cavallo rosso, Edizioni Ares, Milano 2011.

2 Cf Ap 6, 4.

3 Cf 1Sam 17, 49.

4 Cf rispettivamente Ap 6, 8 e 22,2.

5 Cf Ap 12, 3.

6 Cf Ap 12, 13.

7 Cf Ef 6, 11-17.

8 Corti, Il cavallo rosso, p. 1271.

Non perderti nessun articolo!

Per restare sempre aggiornato sui nostri articoli, iscriviti alla nostra newsletter (la cadenza è bisettimanale).

Quando il Signore mi venne a cercare, la mia mente vagava confusa nei caldi spazi dell’inedia, talmente carica di nulla da non poter portare altro con sé. Il mio corpo invece si preparava ad un indefinito inverno nella città di Ancona, gioiello del medio Adriatico (si fa per dire). Nella patria del pesce e del “mosciolo”, per un leggiadro scherzo della Provvidenza, sono nato quasi trentadue anni fa con una sentita inimicizia fra me e qualunque carne marina. La chiamata del Signore mi vide studente in storia ed appassionato consumatore di storie: racconti di tutti i tipi e narrati da aedi di tutte le arti. Ora che lo Spirito mi ha indirizzato nella famiglia di San Domenico ho posto questo mio nulla nelle mani della Vergine Maria e del caro Castigliano e chiedo loro quotidianamente di mostrarmi in ogni storia, vera o immaginaria, la traccia del Divino che lì soggiace. Ora che sto a Bologna studio come studiando rendere omaggio a Dio. Per contattare l'autore: fr.giuseppe@osservatoredomenicano.it