17 luglio 1794, Parigi. Sedici monache carmelitane salgono al patibolo: sono liete, cantano il breve ma densissimo salmo 116: Laudate Dominum omnes gentes1. Questa l’accusa: aver tenuto conciliaboli antirivoluzionari, mantenuto corrispondenze fanatiche e conservato scritti liberticidi.

Saranno proclamate beate il 27 maggio 1906 da papa Pio X.

«Quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi»2: è il grande mistero del martirio, dare la vita per amore di Cristo. Essere uccisi in odio alla fede, col cuore che – per grazia – esulta di gioia nello Spirito Santo.

I primi secoli della storia della Chiesa sono impregnati del sangue dei martiri. Già in Palestina, pochi anni dopo la risurrezione di Cristo, abbiamo il protomartire Stefano, uomo pieno di Spirito Santo e sapienza, ucciso per la sua fede in Cristo mentre già contemplava i cieli aperti che lo avrebbero accolto.3

Secoli di resoconti, lettere, notizie di martiri – avvenuti ad opera anzitutto dell’autorità imperiale romana con le sue periodiche ondate persecutorie – hanno reso possibile nella Chiesa, almeno fino alla comparsa del monachesimo verso la fine del III secolo, la generale equazione santo=martire. Non è un caso che il libro liturgico contenente le memorie biografiche dei santi si chiami proprio Martirologio, a motivo dell’iniziale preminenza di coloro che testimoniarono la fede in Cristo col proprio sangue.

Anche i secoli dal XVII al XIX conobbero efferati martiri, specie nell’Estremo Oriente4. E ancor oggi, abbiamo martiri di Cristo in Africa e in Asia.

Anche l’Europa ha i suoi martiri recenti: non solo quelli periti sotto le dittature del secolo scorso5, ma anche quelli che non risparmiò la Francia a fine Settecento e inizio Ottocento.

Un periodo, quello successivo al 1792, segnato da una vera e propria furia contro Dio, manifestatasi specialmente in una inaudita ferocia contro gli uomini e le donne di Chiesa. Per anni, i preti, soprattutto i refrattari alla Costituzione civile del clero, dovettero celebrare i sacramenti col massimo segreto tra stalle, fienili, case private.

Interi monasteri e conventi furono svuotati: con la dispersione dei frati e delle suore, ma spesso anche con la loro decapitazione: quasi che quegli uomini e quelle donne di Dio con il loro semplice esistere turbassero la presunta pace e il millantato progresso di una società che, almeno nei suoi illuminati vertici, voleva, pur sotto sfumature sensibilmente diverse, fare a meno di Dio.

Lungi da noi dissertare di questioni storiche e filosofiche troppo articolate per questa sede: ci basti ricordare (e la rivoluzione francese lo conferma) che dal cuore dell’uomo nessuno può sfrattare il grido di Dio.

E’ in questo contesto che Georges Bernanos ambienta il suo Dialoghi delle carmelitane: si tratta di un opera composta nell’inverno 1947-48, originariamente destinata al mondo cinematografico, sul calco della novella di Gertrude von Le Fort L’ultima al patibolo, novella che Bernanos aveva letto precedentemente ma che in quell’inverno non aveva direttamente sottomano.

Il nostro autore infatti muoveva non dal testo della novella citata, bensì da un canovaccio di sceneggiatura steso da un padre domenicano, Raimondo Bruckberger, per collaborare anch’egli al film che sarebbe poi uscito alla fine degli anni Cinquanta sulla vicenda delle Sedici martiri Carmelitane di Compiegne.

Bernanos, che, come si evince dal suo diario, scrive con inedita passione questa sua ultima opera, è conscio di essere arrivato al tramonto della sua giornata terrena: i Dialoghi rispecchiano tutto il travaglio dell’uomo di fede che affronta la prova suprema della morte imminente. Tutta la sete di Dio, tutti gli interrogativi più grandiosi e temibili fanno capolino in Bernanos non meno che nelle monache protagoniste dello scritto e avviate a morte certa.

Non c’è ombra di idealizzazione in questi Dialoghi, né per quanto riguarda la conduzione quotidiana della vita religiosa né per quanto attiene alla prospettiva della morte vicina.

Protagonista dell’opera è la giovane suor Bianca De La Force, figlia d’un marchese, caratterizzata da un temperamento assai timoroso e da una spiccata purezza d’intenzione.

Seguire il montare della tempesta contro la comunità delle Carmelitane attraverso gli occhi impauriti ma penetranti di questa giovane novizia accresce, se possibile, la forza drammatica dell’opera, storicamente ben documentata e spiritualmente incisiva.

Dramma della storia, dramma della vita umana si intrecciano a costituire un tutt’uno che solo la grazia della fede in Dio riesce non solo a salvare, ma a rendere addirittura un capolavoro finissimo,  rischiarato anche dal peculiare stato d’animo di chi (tanto l’autore quanto le monache protagoniste) si sente ormai sull’impegnativa soglia del passaggio all’eternità.

Alcuni stralci che meritano a nostro avviso di essere riportati, a diretta conferma del tenore di questo scritto, potrebbero essere i seguenti:

Quando la giovane Bianca domanda, nonostante la sua natura assai impressionabile, di essere accettata nel Carmelo:

«Priora: “Quello che Egli (Dio, ndr) vuol provare da voi, non è la vostra forza ma la vostra debolezza…”

[…]

Bianca: “Oh! Madre, io vorrei veder qui solo il bene…”

[…]

Priora: “Figlia mia, la gente  si domanda a che cosa serviamo, e dopo tutto è molto scusabile, se se lo domanda. Noi crediamo di darle, grazie alle nostre austerità, la prova che si può perfettamente rinunziare a tante cose da essa ritenute indispensabili. Ma perché l’esempio riuscisse efficace, bisognerebbe anche, in fin dei conti, che essa fosse sicura che quelle cose ci erano indispensabili quanto a lei… No, figliuola, noi non siamo una casa di mortificazione o conservatorii di virtù: noi siamo case di preghiera, la sola preghiera giustifica la nostra esistenza; chi non crede nella preghiera non può non considerarci impostore o parassiti.”6»

E nelle concitate ore estreme, quando si fa sentire anche la tentazione della disperazione, le molto  ardite battute:

«Sr. Bianca (ad un’anziana monaca con la quale è riuscita a scappare, schivando la sorte delle consorelle frattanto giudicate colpevoli dal tribunale): “Morire, morire, ormai avete solo questa parola in bocca! Non sarete mai stanchi di uccidere o di morire? Non sarete mai sazi del sangue degli altri o del vostro proprio sangue?”

Madre Maria: “Soltanto nel delitto c’è orrore, figlia mia, ed è solo col sacrifizio di vite innocenti che si cancella quest’orrore e il delitto stesso rientra nell’ordine della carità divina…”

Sr. Bianca: “Non voglio che muoiano, non voglio morire!”7»

Quel che segue è commovente.

Altro non vogliamo aggiungere, se non il caldo invito a leggere quest’opera, non proprio adatta a conciliare il sonno, ma certamente validissima sotto il profilo della fede, capace di mostrarci che più volte nella storia, specie nelle sue ore più drammatiche, si è ripetuta l’affermazione di san Paolo: «So a chi ho dato fiducia!8»

Oggi in commercio:

Bernanos Georges, Dialoghi delle Carmelitane, Morcelliana 2005, 208 pp., € 15.


1 Si tratta del salmo in assoluto più breve dell’intero Salterio, appena due versetti: “Genti tutte, lodate il Signore, popoli tutti, cantate la sua lode/ perché forte è il suo amore per noi e la fedeltà del Signore dura per sempre”.

2 Is 40,31.

3 Cfr. At 7,55-56.

4 Si pensi alle copiose schiere di martiri (anche domenicani) del Viet Nam e del Giappone.

5 San Massimiliano M. Kolbe, il confratello beato Giuseppe Girotti, per esempio.

6 Bernanos G., Dialoghi delle Carmelitane, trad. it. Piovano G. A., ed. Morcelliana, Brescia 1958, pp. 38-39.

7 Ibidem, p. 182.

8 Cfr. 2Tm 1,12.

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fr. Stefano Pisetta
Nato tra le maestose giogaie trentine nel maggio 1996, cresciuto tra i boschi e campi di un grazioso paesino dell’alta Valsugana (sì, quella della canzone degli alpini…), dopo la maturità scientifica, indeciso se entrare in seminario diocesano, si orienta infine alla vita claustrale delle bianche lane. Ha emesso professione semplice nel settembre 2019 e attende ai filosofici studi.

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