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Che bello se potessimo gustare il capovolgimento…! Dinanzi alla precarietà del presente, ove ciascuno è chiamato a ripensare tutto, a ripensarsi alla luce di un contesto mutato. In questo tragitto ignoto siamo invitati a riscoprirci abitanti di una tensione profonda. Quella tensione che da così tanto tempo abita in noi…già da quando eravamo bambini la vivevamo, ne eravamo come pervasi, ancorché inconsciamente. Lo sguardo semplice e penetrante della meraviglia, così capace di leggere il mondo, ci consentiva di instaurare rapporti particolarissimi con ogni cosa…finanche da quell’aspetto, che oggi giudicheremmo effimero, eravamo in grado di lasciarci coinvolgere nella sua complessità, entrare nelle sue trame, avvolti, rimanendo attoniti.

Quando guardiamo un bambino osservare ammirato un’ape su un fiore, oppure la sua meravigliosa capacità di mostrare affetto senza parole, se solo fossimo subito capaci di contemplare la semplicità e lo splendore della sua meraviglia anziché interrogarci sulla ragione della sua meraviglia… Riscopriremmo in noi quella tensione “bambina” che ci rivelerebbe il nostro essere, talvolta, erranti inconsapevoli. Così, prima vagabondi tra il presente e il passato, senza mai fermarsi, inquieti, scopriremmo di avere una casa bellissima in cui i ricordi di un tempo sono ancora viventi.

Immaginiamo di aprire la porta e scoprire una festa mai cessata. Quelle danze ormai divenute note spaesate nella memoria ritornano ad essere soavi polifonie, i racconti dei nonni ormai diventati flebili parole preziosissime ritornano ad essere sussurri d’affetto avvolti nella trama di una fiaba; ancora, l’onda travolgente dell’adolescenza si fa un inno che, in un turbinio di sogni, ama la vita di un amore interrogante. Guardiamo bene, finanche quelle vecchie poltrone, che ora d’improvviso ricordiamo, non sono più vuote ma, poste davanti al camino, sono gremite di morti. Essi parlano tra loro, scherzano, sentiamo parlare anche di noi, come se non fossero mai morti… Un tempo cagione di pianto ora son motivo di consolazione: quelle parole che ora pronunciano, un tempo moleste raccomandazioni quasi inascoltate, divengono come carezze dolcissime, premurose, incancellabili. Anche coloro che solo raramente rivivono nella nostra memoria, per poco, prima di essere travolti da altri pensieri, quando apriamo la porta sono lì che ci accolgono; anche qui, invece dell’indifferenza di un tempo scopriamo e percepiamo una presenza importante, inaspettata. Possiamo solo osservare dalla porta, non possiamo entrare. Del resto il passato è passato e non si può fisicamente rivivere ma il batticuore che ci coglie ritrovando la nostra casa, solo aprendo la porta, ci fa contemplare piccoli e solitari cubi di legno come perfettamente uniti, a formare un paesaggio, in un frangente, quasi fuori dal tempo.

Abbiamo ritrovato la strada. In una tensione costante tra presente e passato che è in noi abbiamo scoperto di doverci comportare come un nonno che tiene per mano i suoi nipotini, uno da una parte e uno dall’altra; ecco, in questa tensione affettuosa, quasi “senza tempo”, scorgiamo l’armonia del tutto che ci completa. Già, il passato non si cancella poiché il presente, volente o nolente, non può fare a meno del passato. Esso ci aiuta a vivere il presente e il presente si popola di un passato vitale. Non dovremmo perdere mai di vista il passato, non dovremmo mai lasciare la mano del “nostro” bambino; sì, siamo sempre noi, ma come ho detto il passato non si cancella. Se non lasceremo la sua mano, quel bambino di un tempo rimarrà sempre vivente in noi, con i suoi pianti, le sue gioie, la sua straordinaria semplicità, la sua ineguagliabile trasparenza. Così, tra le mille qualità scopriremo i tesori più preziosi: saper contemplare il bianco nel nero, le parole nel silenzio, la consolazione nel dolore, la preziosità nella consuetudine, la dolcezza nella durezza, scorgeremmo ora un popolo – che è la complessità di cui siamo intessuti – in una terra prima reputata disabitata.

Talvolta si sente dire che quando si è anziani si ritorna bambini: questo è bellissimo, semplicemente eloquente! Non si vuol certo intendere una dimensione di infantilità permanente e fuori luogo bensì quell’indispensabile complementarietà che significa maturità, scoperta della propria identità; in poche parole, conoscere sé stessi, diventare sé stessi, ritrovare sé stessi e, specialmente, amare sé stessi. In questa tensione, racchiusa nell’immagine del prender per mano, c’è veramente tutto; alla luce e – lo credo vivamente – solo sul solco di un’umanità integra, non frammentata e trascurata, si può pensare di percorrere quella via di inveramento che rende liberi (cf. Gv 8,32). Mi sembra che, altrimenti, sarebbero tutti discorsi forse belli e gradevoli, sì, ma mai vissuti; o meglio, vissuti, in ultima analisi, da un altro, in cui semplicemente ci illudiamo di vedere noi stessi.

Ora, questo riscoprirci costantemente abitanti di una tensione ci introduce nella prospettiva nuova e autentica del capovolgimento. Ascolta, guarda, ammira, contempla: che ne è del “bambino” che è in noi? No, ciò che si adduce come esigenza di una lettura realista delle cose, forse, “da adulti”, non è un buon motivo per sopprimere la fanciullezza del cuore, dello sguardo, imprigionare cioè quel “bambino” nel passato. Sarebbe come rifuggire l’unicità di una consolazione che possiamo gustare solo nel contemplare un capovolgimento oltrepassante… Così, nei pianti e nel dolore che dimorano ormai nella quotidianità di questo tempo precario, impariamo a intravedere la consolazione del Paradiso, i morti divengono testimoni della vita beata, senza fine, nelle brutalità che si consumano ogni giorno nel mondo impariamo a intravedere la mano di Dio che fa pregustare agli afflitti il ristoro delle beatitudini.

Ascoltiamo, amiamo il bambino che è in noi, prendiamolo per mano e ascoltiamo con i suoi orecchi, osserviamo con i suoi occhi, amiamo con il suo cuore (cf. Sal 131 e Mt 18,1-5). Non è forse questo il capovolgimento del Vangelo? Già ora, tra gioie e dolori, tra pianti e amarezze, tra mille difficoltà e smarrimento, ci sembra già di lambire la dolcezza della vittoria.

Vi riporto ora un’immagine che mi è rimasta come incisa nella memoria. Alcuni anni fa mi recai al funerale di una cara persona; al termine della celebrazione delle esequie, come di consueto, la salma venne portata al cimitero per la tumulazione. Venne calata la bara, la si ricoprì di terra. Poco dopo ciascuno ritornò alla propria casa, rimasero solo poche persone, tra cui io, un po’ in disparte. Era rimasta poi solo una persona ai piedi della tomba, era un bambino; quell’uomo da poco sepolto era suo nonno. Stava lì, immobile, osservava la fotografia del nonno sulla lapide. Chissà, quel suo silenzio, quel suo stare, quel suo vedere… fui certo di ammirare un maestro. Sì, in quel momento pareva che il suo volto, dinanzi alla morte, fosse già quello del contemplativo illuminato dalla speranza della Risurrezione, dalla pace del riposo beato.

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