Pubblichiamo la seconda parte dell’articolo Custodire le cose sante: il lettore può accedere alla prima parte tramite il link.

Cose sante

1. Didicerint in latino, διδαχθέντες in greco: entrambi i verbi, a prescindere dai tempi e dai modi, indicano l’attività dell’apprendere, come ben è stato evidenziato dalla traduzione italiana. Rimane da capire il nesso tra l’apprendimento delle cose sante e la difesa da chi o da che cosa.

2. Una soluzione agli interrogativi postici potrebbe essere insita nella gamma di implicazioni del termine apprendere e il suo riferimento alle cose sante. Colui che apprende necessita, ordinariamente, di qualcuno che insegni l’oggetto dell’apprendimento. Quest’apprendimento, però, non ha come oggetto delle nozioni, ma le cose sante. Non si può dunque chiamare, in modo riduttivo, insegnante colui che trasmette cose sante a un altro, perché l’insegnante trasmette nozioni, non cose, res: lo si chiamerà, invece, maestro, e si chiamerà discepolo colui che apprenderà dal maestro. E chi è il Maestro per eccellenza, Colui dal quale proviene la santità perché ne è la fonte, Colui il quale santifica ogni cosa per mezzo del Suo Spirito1? Chiaramente Dio. Non è un caso che il Verbo di Dio, fattosi uomo, come Divino Maestro indirizzi ai discepoli quest’avvertimento: «non date le cose sante ai cani» (Mt 7, 6). Di nuovo cose sante!

3. Conviene approfondire, con l’aiuto dei Padri della Chiesa, cosa possa voler dire cose sante. Sant’Agostino, nel De sermone Domini in monte, II, 68, scrive: «Sanctum est, quod violare atque corrumpere nefas est», «è santo ciò che è empio violare e corrompere». Violare e corrompere sono due azioni, in questo caso, consecutive: la prima presuppone il superamento di una soglia indisponibile, mentre la seconda indica il guastare, il pervertire dall’interno ciò che si è violato.
Ora, si può pensare alla vocazione religiosa come a quella cosa santa che Dio ha donato a coloro che ha scelto dall’eternità e che nessuno ha il diritto di violare e pervertire, nemmeno il soggetto stesso che l’ha scoperta.

4. Si sente spesso affermare: «la vocazione è un mistero»; molto vero, è un mistero in quanto racchiude in sé l’istanza veritativa ultima sulla propria esistenza. La scoperta di quest’istanza, alla quale tutti gli uomini sono chiamati, mostra la modalità ex parte hominis con cui cooperare nella propria vita con Dio al ritorno a Lui. Essa, benché sia conoscibile dall’uomo, non è a sua disposizione, perché, in fin dei conti, egli non ne è la causa: la scopre solamente. Lo stesso termine istanza, nella sua etimologia, rimanda allo “stare sopra”: è un velato riferimento all’Altro da sé, dal quale proviene tale istanza.

5. Quest’istanza, che nel caso del religioso è proprio la vocazione, riveste la qualità di santo. Non essendo frutto di proprie suggestioni o convinzioni, ma del dinamismo avvincente tra Creatore e creatura, è qualcosa di indisponibile, da non violare e non corrompere. È empio violarla perché non è proprietà dell’uomo, ma di Dio; è empio pervertirla, perché è data all’uomo affinché si compia in lui la volontà di Dio, che in quanto tale riconduce a Dio.

6. Precedentemente si era giunti a qualificare come inviolabile la Presenza di Dio nel fondo dell’anima dell’uomo. Avvinta ad essa, per il religioso, v’è la consacrazione, che è la risposta propria, nel suo caso, all’istanza veritativa di Dio: questa è la cosa santa che egli deve custodire piamente giorno per giorno. L’ausilio per custodire santamente questa cosa santa, senza dubbio, viene dallo Spirito Santo, il Paraclito.

7. Lo Spirito Santo rimanda continuamente il religioso al modello da seguire, all’esemplare da cui apprendere, al Maestro: Cristo. Alla Sua scuola si apprendono anche le altre cose sante, cioè quel complesso di verità che fanno luce sul mistero della condizione dell’uomo “vocato” e che sono riassumibili in un’unica verità che getta luce sulla propria esistenza: il disegno, nell’eternità, di elezione a seguire Cristo pressius, più da vicino, mettendosi dietro di Lui per compiere la volontà del Padre.

La difesa inviolabile

8. Ma c’è di più. Apprendere deriva da ad – prehendere, ossia afferrare. Colui che apprende è colui che afferra. Se la cosa santa è la presenza di Dio, se il Maestro indicato dallo Spirito Santo è Cristo, che è anche modello, il religioso forse non “afferra” Cristo? Non si tiene saldamente al Cristo povero, al Cristo casto, al Cristo obbediente? Non è con Cristo, attaccato a Lui, sulla via Crucis? Col Maestro sul Calvario, non viene forse, in virtù del suo attaccamento a Lui, inondato dal Sangue salvifico? E il Sangue del Cristo non difende?

9. Ecco, si è giunti al nesso tra l’apprendere e la difesa. Cristo difende perché si è attaccati, innestati in Lui. Cristo difende chi vive in Lui dal nemico spirituale contro il quale tutti, consacrati e non, sono in guerra; Cristo difende anche da un nemico forse più subdolo, perché interno: noi stessi, con la nostra paura, la pusillanimità, l’insieme di tutte le imperfezioni che ci affliggono e i peccati che abbiamo commesso. La difesa del Cristo, però, non è marziale, muscolare: Egli ci difende perché, come noi afferriamo Lui, Egli afferra noi tra le sue braccia. E così, partendo dalle fondamenta della costruzione, come un ascensore ci porta sempre più su, fino a raggiungere la cima del castello, dove avverrà la definitiva unione con Dio. È per questo che sono entrato in religione: è questa la risposta alla domanda: «Bernarde, ad quid venisti?».


1 Cfr. Preghiera Eucaristica II.

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fr. Tommaso Raimondo Magarelli
Nato e cresciuto tra la campagna ubertosa di ulivi e il mare del “tacco dello Stivale”, allevato mediante storie, esempi e tanta musica d’altri tempi, dopo aver cercato le ragioni ultime dell’esistenza nelle realtà mutevoli a tutti gli ordini di grandezza sperimenta la misericordia di Dio nella Passione del Verbo Incarnato; sedotto dal sì del Cristo, emette la professione semplice il 12 settembre dell’Anno del Signore 2020 nell’Ordine dei Predicatori, sotto la protezione particolare di San Tommaso d’Aquino e san Raimondo da Penyafort.

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