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Quasi quindici anni fa – lo ricordo come se fosse appena accaduto – durante una delle solite discussioni pomeridiane avute con mio padre sulla ragionevolezza della fede cattolica, dall’alto della mia spocchia da studentello di filosofia alle prime armi (non eravamo nemmeno giunti a Kant…), sentii come obiezione alle mie filosoferie: “Guarda, figlio mio, che ci sono stati dei filosofi che da una situazione di ateismo e di agnosticismo convinto hanno in seguito abbracciato la fede in Cristo, senza venir meno alla riflessione razionale, condotta però sulla Rivelazione: insomma, non si sono mica trasformati in una mandria di creduloni! Perché non leggi qualcosa di Edith Stein? Ne hai mai sentito parlare?”. Al che risposi: “Sarà un’altra che ha mandato il cervello all’ammasso!”, dimostrando ancora una volta la validità del detto “un bel tacer non fu mai scritto”. Ma che volete, ero giovane e, come quasi tutti i giovani, uno spaccone presuntuoso…

Nel 2017, dopo aver ritrovato la fede nel Cristo Salvatore, mi capitò di vedere su YouTube alcuni spezzoni del film del 1995 La settima stanza, di Márta Mészáros, incentrato sulla seconda parte della vita di Edith Stein, o meglio, di santa Teresa Benedetta della Croce (Breslavia, 12 ottobre 1891 – Auschwitz, 9 agosto 1942), ebrea, monaca carmelitana scalza, martire e patrona d’Europa. Ritornò alla mia memoria quanto il buon “vecchio” anni prima mi aveva detto e così sorse in me una curiosità sempre più crescente verso questa figura, curiosità che in seguito si è trasformata in vera e propria venerazione per quella che, a tutti gli effetti, è diventata uno dei miei modelli e una delle sante che quotidianamente invoco nelle mie preghiere.

Poiché per amare bisogna conoscere, dato che voluntas non fertur in incognitum (cioè non si può amare ciò che non si consoce), decisi di leggere qualche biografia della Santa, poi mi risolsi a leggere la sua parziale “autobiografia”1, raccolta assieme ad altri scritti auto-biografici nel volume Dalla vita di una famiglia ebrea (e altri scritti autobiografici). L’opera racchiude, oltre all’incompleta Dalla vita di una famiglia ebrea, il testo Un contributo alla cronaca del Carmelo di Colonia. Come giunsi al Carmelo di Colonia assieme a varie appendici. I testi sono stati tradotti dagli originali tedeschi conservati nell’edizione tedesca delle opere di Edith Stein (ESGA) a cura dell’Istituto Internazionale Edith Stein di Würzburg.

Nella Prefazione a Dalla vita di una famiglia ebrea, datata il 21-IX 19332, Edith Stein scrive: “Io vorrei semplicemente fare un resoconto di ciò che ho sperimentato come umanità ebrea; una testimonianza accanto ad altre che sono già state pubblicate o che verranno pubblicate in futuro: essa sarà utile a coloro ai quali interesserà prendere imparzialmente informazioni dalle fonti”. Da queste semplici parole emergono la finalità dell’opera e il metodo con cui verrà condotta la trattazione di quella che, in fin dei conti, è la storia di Edith dalla nascita fino al dottorato in filosofia, intrecciata con quella della sua famiglia.

La filosofa ebrea partirà certamente dai ricordi di sua madre, Auguste “Gustel” Courant, che le permetteranno la ricostruzione di parte della storia recente delle famiglie Stein e Courant (in particolare, si concentrerà sui nonni paterni e materni e sui numerosi fratelli e sorelle dei suoi genitori), per poi lasciar spazio ai suoi ricordi personali; nella narrazione degli eventi che interessarono la sua famiglia3, lascerà poco spazio alle impressioni personali, rimanendo, da buona fenomenologa, nell’oggettività dei fatti. Solamente quando tratta di sé stessa, il mondo interiore della bambina e, in seguito, della donna fa improvvisamente capolino tra le righe del testo, lasciando intuire una profondità di riflessione e un’acutezza di analisi introspettiva fuori dal comune.

Per dare al lettore un saggio di quest’analisi introspettiva di Edith, riporterò ciò che ella scrive dei suoi primi anni di vita: “Nei primi anni di vita avevo l’argento vivo addosso, sempre in movimento, traboccante di idee bizzarre, impertinente e saccente, invincibilmente ostinata e piena d’ira quando qualcosa andava contro la mia volontà4. Un quadretto divertente di una piccola peste, si potrebbe dire. Subito dopo, però, Edith passa dal “livello esteriore” a quello “interiore”, solo a lei noto: “Questo era ciò che abitualmente i miei familiari potevano osservare in me. Ma nel mio intimo c’era un mondo nascosto. Tutto ciò che vedevo e sentivo durante il giorno veniva trasformato interiormente. La vista di un ubriaco poteva angustiarmi e perseguitarmi giorno e notte […]. È sempre stato incomprensibile per me come si possa ridere di una cosa simile [dell’ubriachezza, N.d.R.] e nel periodo degli studi, pur non avendo aderito ad alcuna organizzazione o fatto alcun voto, cominciai a evitare anche una sola goccia di alcool per non perdere, per mia stessa colpa, qualcosa della mia libertà intellettuale e della mia dignità umana. Quando si parlava in mia presenza di un fatto di sangue, stavo sveglia per ore la notte e l’orrore incombeva su di me strisciando da tutti gli angoli bui5. Sembra di sentir l’eco della sensibilità di un’altra grande
carmelitana, Teresina di Lisieux, unita all’alta considerazione per la dignità dell’uomo (che non perderà mai durante tutta la sua vita) e per la propria integrità intellettuale e morale.

Proprio su quest’ultimo punto vorrei attirare l’attenzione del lettore. Mi sono sempre chiesto, in questi ultimi anni, approfondendo la vita della santa filosofa, come sia stato possibile che questa donna avesse potuto conservare un’integrità intellettuale e morale pur essendosi dichiarata, per una lunga parte della sua giovinezza, agnostica6. Ancora: ponendosi delle domande di senso sulla visione del mondo, spendendosi, come nel caso della Santa, per l’emancipazione femminile (correttamente intesa), interrogandosi onestamente sull’uomo e considerando amicizie e affetti come strumenti per coltivare la propria umanità, è possibile con le proprie forze raggiungere la Verità? E infine: è possibile, nella ricerca della verità, essere assistiti e guidati in qualche modo dalla Verità, così che davanti al “fatto”, che è poi l’incontro con la Verità, cioè Gesù Cristo, Figlio di Dio, una persona intellettualmente onesta e assetata di verità non possa far altro che dire: “Questa è la Verità”?

Da cattolico so che tutto ciò che l’uomo ha prodotto di buono con la sua ragione è preparazione all’incontro con Cristo Redentore; so che è possibile giungere alla conoscenza dell’esistenza di Dio mediante la ragione e so anche che è possibile, per ciascun uomo, compiere atti moralmente buoni (ma dire che “posso compiere atti moralmente buoni” non significa che di fatto io li compia, ma che in me v’è la possibilità di compierli) ma non sistematicamente evitare ogni peccato, eccetto per l’uomo in grazia, il quale può evitare ogni singolo peccato mortale.

Dalla lettura dell’autobiografia posso dire che la conduzione della vita da parte di Edith, il travaglio interiore causato dalle sue riflessioni, le risoluzioni interiori, l’umanità e l’onestà intellettuale7 che ha caratterizzato la sua ricerca filosofica sono tutte tracce dell’azione della Grazia nella vita di questa filosofa ebrea. Il battesimo nella fede cattolica, avvenuto il 1° gennaio 1922, sarebbe stato “la fine dell’inizio”: da quel punto in poi, inizia la seconda fase della vita di Edith, che entrerà, dopo una lunga attesa, nel Carmelo di Colonia; poi, a causa delle persecuzioni anti-ebraiche, si rifugerà a Echt (Olanda), da cui il 2 agosto del 1942 verrà prelevata dai nazisti assieme a sua sorella Rosa, per essere trasferita ad Auschwitz, dove verrà uccisa il 9 agosto 1942.
Perché, in definitiva, qualcuno dovrebbe leggere questo testo? Per fugare stolti pregiudizi, come mio padre voleva farmi intendere quindici anni fa; per vedere l’azione silente della Grazia nella vita di una giovane “prussiana ebrea”; per poter apprezzare la figura di una santa filosofa, che ha fatto della ricerca e del possesso della Verità la cifra caratteristica della propria vita sin dal suo inizio; per cogliere Cristo in tutto ciò che l’uomo può compiere di vero e di buono. Desidero concludere con una preghiera, tratta dalla Liturgia delle Ore, che ogni giorno rivolgo a santa Teresa Benedetta della Croce: “Dio dei nostri padri, donaci la scienza della Croce, di cui hai mirabilmente arricchito Santa Teresa Benedetta della Croce, nell’ora del martirio, e fa’ che per sua intercessione cerchiamo sempre te, Somma Verità, fedeli fino alla morte all’eterna alleanza d’amore, sigillata nel sangue del Tuo Figlio per la salvezza del mondo. Egli è Dio, e vive e regna con Te nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen”.

Testo consigliato: Dalla vita di una famiglia ebrea (e altri scritti autobiografici), in Opere complete di Edith Stein, Città Nuova – EDIZIONI OCD, Roma, 2020.

1 Dico “parziale”, perché il testo si interrompe al racconto degli avvenimenti del marzo 1917, quando la Stein ottenne il certificato di dottorato di filosofia all’Università di Friburgo in Brisgovia.

2 Anno funesto per il popolo tedesco e in particolare ebraico: Adolf Hitler era stato nominato il 30 gennaio cancelliere del Reich. Il 23 marzo la “Legge sui pieni poteri” ratificata dal Parlamento tedesco permetteva a Hitler di assumere pieni poteri, inaugurando la dittatura nazista e, di conseguenza, la persecuzione degli ebrei. La Stein, nella Prefazione, scrive: “Durante questi mesi, ho dovuto pensare spesso ad un colloquio avuto qualche anno fa con un sacerdote appartenente ad un ordine religioso. Mi fu suggerito di scrivere quello che io, come appartenente a una famiglia ebrea, avevo conosciuto dell’umanità ebraica, dal momento che quanti non vi appartengono conoscono così poco di essa” (E. STEIN, op. cit., pag. 23).

3 Per “famiglia” Edith intende il nucleo famigliare prossimo, costituito dalla madre Auguste, dai fratelli Paul e Arno e dalle sorelle Else, Frieda, Rosa, Erna ed Edith stessa, ultimogenita: il padre morì a causa di un’insolazione quand’ella aveva meno di due anni. Chiaramente, non viene tralasciato nulla di quanto riguarda la sua famiglia, quindi anche il fitto intreccio di relazioni che intercorrevano tra i familiari stretti della Santa e i parenti che, a vario titolo e in vario modo, aiutarono la sua famiglia o beneficiarono dell’aiuto da parte di Edith, delle sue sorelle e di sua madre.

4 Ivi, p. 82.

5 Ivi, p. 83.

6 Pur essendo stata educata dalla madre Auguste al rigorismo ebraico, specie in campo morale, a un certo punto della sua giovinezza, probabilmente influenzata dalla sorella Else e dal cognato medico Max, si allontana dalla pratica religiosa. Scrive: “Tra le cose che udii e lessi ce ne fu qualcuna che non mi fece bene. A causa della specializzazione di mio cognato arrivavano in casa alcuni libri che non erano precisamente destinati ad una ragazza di 15 anni. Oltre a ciò Max ed Else erano completamente atei; la religione non esisteva in casa loro. Qui, con piena consapevolezza e per libera decisione, persi anche l’abitudine di pregare” (Ivi, p. 166).

7 Una traccia di quest’onestà intellettuale nel non negare la rilevanza di ciò che le si presentava all’attenzione filosofica è costituita da queste parole, riferite all’incontro con Max Scheler durante gli anni di studio a Gottinga: “Non ricordo in quale anno Scheler sia rientrato nella Chiesa cattolica. […] in quel periodo aveva molte idee cattoliche e sapeva divulgarle facendo uso della sua brillante intelligenza e della sua potente eloquenza. Fu così che venni per la prima volta in contatto con un mondo che, fino ad allora, mi era stato completamente sconosciuto. Ciò non mi condusse ancora alla fede, tuttavia mi dischiuse un campo di
«fenomeni» dinanzi ai quali non potevo più essere cieca. Non per niente ci veniva continuamente raccomandato di considerare ogni cosa con occhio libero da pregiudizi, di gettare via qualsiasi tipo di
«paraocchi». Cadevano le barriere dei pregiudizi razionalistici nei quali ero cresciuta senza saperlo, e il mondo della fede stava improvvisamente dinanzi a me. Persone, con le quali avevo rapporti quotidiani e alle quali guardavo con ammirazione, vivevano in quel mondo. Doveva, perciò, valere la pena almeno di
riflettervi seriamente” (Ivi, p. 306).

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Nato e cresciuto tra la campagna ubertosa di ulivi e il mare del “tacco dello Stivale”, allevato mediante storie, esempi e tanta musica d’altri tempi, dopo aver cercato le ragioni ultime dell’esistenza nelle realtà mutevoli a tutti gli ordini di grandezza sperimenta la misericordia di Dio nella Passione del Verbo Incarnato; sedotto dal sì del Cristo, emette la professione semplice il 12 settembre dell’Anno del Signore 2020 nell’Ordine dei Predicatori, sotto la protezione particolare di San Tommaso d’Aquino e san Raimondo da Penyafort.