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«Che scusem, ma mi vori cuntav d’un me amis» (Scusate, ma vi voglio raccontare di un mio amico1). Sì, non può partire diversamente il mio ricordo di Enzo Jannacci ad otto anni dalla sua rinascita in Cristo. Vorrei infatti raccontarvi di un amico, di una persona geniale, di un grande uomo che, pur avendolo io incontrato una volta sola ad un suo concerto, mi ha accompagnato in questi anni quasi come fosse un amico.

Qualche accenno alla sua biografia è doveroso per chi non conosce questo personaggio che ha segnato la storia della musica cabaret e della televisione italiana dalla metà del secolo scorso ad oggi. Enzo Jannacci, Vincenzo all’anagrafe, nasce a Milano il 3 Giugno 1935.

Dopo la maturità classica si laurea in medicina all’Università degli Studi di Milano, specializzandosi in chirurgia generale ed esercitando la professione di medico chirurgo per alcuni anni. Nel frattempo inizia la carriera di musicista: dopo il diploma in armonia ed otto anni di pianoforte al Conservatorio di Milano, si accosta al jazz e comincia a suonare in alcuni locali milanesi; contemporaneamente scopre anche il rock’n’roll, e dal 1956 diventa il tastierista dei “Rocky Mountains”. Il successo di massa vero e proprio viene nel 1968, con una canzone-tormentone, “Vengo anch’io. No tu no”, scritta in collaborazione con Dario Fo e Fiorenzo Fiorentini. Nel 1967 Jannacci si sposa con Giuliana Orefice; il 5 Settembre 1972 nasce suo figlio Paolo, che, come il padre, si diploma al Conservatorio (ed anche al Liceo Linguistico). In questi anni Jannacci rallenta la sua carriera nel mondo dello spettacolo, e, dopo la laurea, si dedica in misura maggiore alla sua professione di medico: si reca in Sudafrica per specializzarsi con il cardiologo Christiaan Barnard, e poi negli Stati Uniti, dove resta sei mesi. Non interrompe la sua carriera musicale fino a che la malattia non lo debilita. Ci lascia il 29 marzo 2013.

La nostra amicizia parte da lontano quasi diciotto anni fa, lui già un grandissimo, io in cucina con i dizionari di greco e latino aperti sul tavolo sperando quasi traducessero da soli quelle versioni interminabili che parlavano di guerre epiche, di amori impossibili, di dei antropomorfi, ma soprattutto di persone, di grandi personaggi, di eroi. Tutto ciò contrapposto alla mensola, dove allora c’era una radio che leggeva i cd, che trasmetteva storie di gente comune, di gente vicina a noi, storie di un passato recente che avevano un sapore nostalgico così intriso di umanità da farti cogliere nel profondo il senso delle loro vite: il ritratto dell’antieroe che però in qualche modo, nel suo piccolo, aveva qualcosa da insegnarti. Cosa che mi porta a dire spesso citando Terenzio: «homo sum nihil humani a me alienum esse puto» (Sono un essere umano, niente di ciò ch’è umano ritengo estraneo a me), altezze e bassezze. L’uomo deve sempre essere rappresentato come un eroe nelle versioni, ma vive di fragilità e spesso di solitudine. Quelle canzoni parlavano proprio di questo, ma non mettevano tristezza, perché raccontate con una sottile ironia disillusa e a volte tagliente che però strappava un sorriso anche nel cantare storie d’amore tristi. Non sempre, infatti, l’amore ha un finale da favola nella vita. Io, seduto al tavolo, era come se guardassi «di nascosto l’effetto che fa2».

Erano motivi che ti preparavano per così dire “alla vita” come è per “Giovanni Telegrafista3, sì proprio lui quello dal “cuore urgente”, esempio di sintesi essenziale ed esistenziale che rincorreva a suo modo un «bel sogno d’amore» come “il barbun” che parlava da solo con le sue scarpe da tennis. Oppure quei testi ti invitavano a guardare il cielo e pensare a lei come in “Messico e Nuvole4, insomma situazioni di “contrabbando”. L’amore più o meno ricambiato, quasi mai in realtà, non era l’unico argomento: a volte cantava pure di gente che provava ad arrangiarsi nonostante fosse schiacciata dalla propria inettitudine, anche nel delinquere, come il famosissimo «palo della banda dell’Ortica»5, ricordato dalle cronache perché «ci vedeva istès de nott cume in del dì» (ci vedeva uguale sia di notte che di giorno), non certo la caratteristica migliore per uno che deve avere sotto controllo la situazione. Come dimenticare poi il “madonnaro6 che per aver epitetato malamente un “ghisa” (vigile urbano) è finito a San Vittore dove però ha preso la sua rivincita con un disegno sul muro tutto da ridere. Infine la difficoltà di un “ragazzo padre7 dimenticato dalle istituzioni.

Nel vastissimo repertorio non possono non essere citate “vengo anche io8” o “l’Armando9” che ancora oggi canticchio “submissa voce” (sussurrando) nei momenti di allegria e spensieratezza.

Impossibile per me non accostare Enzo ad un altro grandissimo mio amico, un amico comune assolutamente, il grande Giorgio Gaber, altro maestro di quel teatro canzone che non solo ti faceva ridere ma ti faceva pensare e riflettere. «Ma come con tutte le libertà che avete volete anche la libertà di pensare?»10. Così cantava Gaber anticipando o cogliendo il mutismo intellettuale dei giovani e delle persone, che si riempivano la bocca di tante cose racchiuse nella massima «la rivoluzione oggi no, domani forse, dopo domani sicuramente»11; mutatis mutandis, «l’è cambia nient» (non è cambiato nulla). Sembrava poi in quei pomeriggi che il centro del mondo non fosse più Roma o Atene, ma fosse Milano: ne respiravi l’aria, i luoghi, le bellezze, sembrava di viverci. Loro erano nati a Milano ma le loro famiglie erano state “adottate” da quella che al tempo era conosciuta come la “Gran Milan”, eppure si sentivano a casa. Che poi sembrava davvero di avere “visto un re12 all’Idroscalo oppure di aver vissuto almeno una sventura della “Strana Famiglia13, di certo la più disgraziata d’Italia.

Ma se ci ha raccontato Milano attraverso le sue canzoni, conoscendolo bene, Jannacci è stato anche un grande medico e un cattolico sulla via della maturazione. A differenza di Gaber del quale sappiamo che non ha mai ritrovato la fede pur avendola comunque in qualche modo cercata. E allora ecco che ho scoperto di recente l’uomo Jannacci che parla al Meeting di Rimini della Carezza del Nazareno14 (che guarda caso ha sentito su un tram a Milano), di quel sostegno che nei momenti di difficoltà ci può essere dato solamente da uno che prima di noi ha voluto solo per amore soffrire tutte le pene, perché solo chi conosce può compatire, può patire insieme a chi soffre avendo già patito prima di tutti e per tutti. Vedendo e cantando la sofferenza ha intravisto nella disperazione di molti una carezza consolatrice che non è altro che il Cristo risorto che ci prepariamo ad accogliere. Ma per arrivare alla Risurrezione bisogna passare dalla croce e questa non è solo una triste realtà, come le sue canzoni, ma è una speranza che ci prepara alla vita e all’incontro con Lui.

A me sicuramente ha insegnato a prestare attenzione a ciò che mi circonda, a dar importanza alle storie di tutti e soprattutto a non fermarmi alle apparenze ma intravedere cosa sta dietro a determinate dinamiche, anche se spesso non riesco a mettere in pratica tale grandezza d’animo. L’indifferenza è la grande piaga del secolo scorso ma anche di questo a quanto pare, come ci ricorda molto spesso Papa Francesco. Chissà quanti personaggi si possono ritrovare in queste ballate e quanti ne abbiamo incontrati e quante volte non ci siamo fermati ad ascoltarli. Quante occasioni che abbiamo perso!

Enzo ha scritto ovviamente altre decine di canzoni, tutte importanti; qui mi sono limitato a riportare quelle che hanno segnato la nostra “amicizia”. Non si potranno mai dimenticare i suoi “occh de bun” (occhi da buono) e la sua geniale pazzia che ci ha fatti tutti ridere almeno una volta. Tanto ti dovevo seppur non mi hai mai conosciuto. Ciao Enzo, “te vori ben” (ti voglio bene).


1 ENZO JANNACCI ,“El portava i scarp del tennis”, La Milano di Enzo Jannacci, JOLLY, Milano, 1964.

2 ENZO JANNACCI, “Vengo anch’io. No, tu no”, Vengo anch’io. No, tu no, ARC, Milano, 1967.

3 ENZO JANNACCI, “Giovanni telegrafista”, Vengo anch’io. No, tu no, ARC, Milano, 1967.

4 ENZO JANNACCI, “Messico e nuvole”, La mia gente, RCA Italiana, Roma, 1970.

5 ENZO JANNACCI, “Faceva il palo”, Faceva il palo / E save, JOLLY, Milano, 1966.

6 ENZO JANNACCI, “La ballata del pittore”, Vengo anch’io. No, tu no, ARC, Milano, 1968.

7 ENZO JANNACCI, “Ragazzo padre”, Jannacci Enzo, RCA Italiana, Roma, 1972.

8 ENZO JANNACCI, “Vengo anch’io. No, tu no”, Vengo anch’io. No, tu no, ARC, Milano, 1967.

9 ENZO JANNACCI, “L’Armando”, L’Armando / La forza dell’amore, JOLLY, Milano, 1964.

10 GIORGIO GABER, “Si può”, Libertà obbligatoria, Bologna, 1976.

11 GIORGIO GABER, “Qualcuno era comunista”, Teatro canzone, 1995.

12 ENZO JANNACCI, “Ho visto un re”, Ho visto un re / Bobo Merenda, ARC, Milano, 1968.

13 GIORGIO GABER, “La strana Famiglia”, Io se fossi Gaber, 1984.

14 PAOLO VIANA, “Intervista a Jannacci: così ho visto la carezza del Nazareno”, Avvenire, 26 agosto 2009.

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Nato il 18/09/1988 tra le risaie della Lomellina nella Diocesi di Vigevano ma in provincia di Pavia (ci tengo a dirlo). Cresciuto sotto il campanile del paese e in oratorio tirando calci al pallone. Dopo aver completato il liceo a Vigevano, ho frequentato l'università di Pavia, in particolare in orario aperitivo. Ho speso gli ultimi dieci anni della mia vita come educatore per la Diocesi di Vigevano e la mia parrocchia, tra centinaia di ragazzini che ormai guidano tutti la macchina. Ma la felicità vera è arrivata solo abbracciando l'abito domenicano, divenendo professo semplice il 12 settembre 2020. Per contatto e-mail: biasibettiop@outlook.com