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Predicazione di misericordia

Fra Chrys McVey, frate domenicano
Fr. Chrys McVey op

Ci vuole una spiritualità “con gli occhi aperti”, diceva spesso il padre Chrys McVey per parlare della necessità di coltivare la cultura del dialogo e dell’incontro interreligioso, e fra le diverse culture. Questo domenicano ha lasciato molti preziosi scritti che, allo stesso tempo, sono il racconto degli anni passati in terra di missione ma anche una bella testimonianza della concretezza della spiritualità domenicana. Questa consiste nella predicazione della misericordia di Dio, come ha ricordato qualche giorno fa il maestro dell’Ordine, padre Bruno Cadoré, autore anche dell’introduzione di “Il dialogo come missione”, il volume che raccoglie gli scritti del padre McVey (Nerbini editore) su diversi temi, dalla teologia contestuale, all’identità e alla missione dell’ordine domenicano. «Per lui scrive della prefazione padre Cadoré la Famiglia Domenicana non era un ideale astratto al quale dare forma, era la realtà che si stava costruendo progressivamente nella misura in cui, insieme, saremmo partiti per predicare. Nella misura in cui noi, insieme, rispondiamo alla chiamata per andare ad incontrare il mondo con “gli occhi aperti”. L’ordine, diceva Chrys, è stato fondato per rispondere ai bisogni delle persone e della Chiesa, ed è stato voluto da Domenico per amore della Chiesa».

Missione ed incontro

In questo senso si può dire che l’esperienza di missione non è prerogativa solo di coloro che si trovano in quei territori che sono così definiti. In un certo senso si può dire che ogni luogo sia terra di missione. E, in certo senso, si possono dire terra di missione (ma non certo il fine della missione, che è la salvezza delle anime) anche la nostra cella, in cui studiamo, preghiamo, ci riposiamo o facciamo altro, la sala comune, il refettorio, la chiesa e il coro in cui preghiamo insieme e in cui si celebra la Santa Messa. È qui che ognuno di noi incontra il confratello, che è anche l’altro, quello con cui nel vivere la communio si costruisce anche la missio a cui siamo chiamati.
Quello che emerge fin dalle prime pagine è che la missio è necessariamente una missio ad. Il cammino del predicatore che si mette in viaggio, sia fisicamente sia spiritualmente, non è fine a sé stesso, non è il viaggiare per il viaggiare, ma è un viaggiare per incontrare qualcuno. Serve quindi quella che padre McVey chiamava “una teologia dell’ospitalità”. Citando l’episodio dell’incontro di Abramo con gli angeli alle Querce di Mamre, padre McVey annota che: «Forse accogliere gli altri è importante per noi perché il nostro Mamre, il punto di ristoro nel viaggio, è il mondo di oggi e gli “altri”, tutti i “forestieri” che si uniscono a noi, sono in verità degli angeli che portano il messaggio di Dio che il futuro sarà diverso da quanto ci aspettiamo». Ma questo cosa significa in concreto? Non si tratta certo di un’ingenuità imprudente e velleitaria poiché lo stesso Gesù Cristo, nel ricordarci che ci manda come pecore in mezzo ai lupi (Lc 10,13), ci chiede di essere prudenti come i serpenti e semplici come le colombe (Mt 10,16). San Giovanni Crisostomo commenta mirabilmente: «Finché saremo agnelli, vinceremo e, anche se saremo circondati da numerosi lupi, riusciremo a superarli. Ma se diventeremo lupi, saremo sconfitti, perché saremo privi dell’aiuto del pastore. Egli non pasce lupi, ma agnelli».

Esporsi al presente

Allora cosa vuol dire? Vuol dire esporsi. Questo può avvenire nella missione, nel ministero, nella vita di preghiera e nella riflessione teologica. Padre McVey parla di una “teologia contestuale” che non è affatto una disciplina della situazione, ma è una teologia che vive in una realtà storica presente e attuale. Un esempio concreto può certamente essere quello del dialogo con l’Islam, che il nostro confratello ha vissuto nei suoi quarant’anni di missione in Pakistan in cui ha sperimentato la necessità del rischio che può essere insito nell’incontro dell’altro, ma che, proprio come lo è il dialogo, è inevitabile. Per padre McVey il senso profondo del Vangelo e delle parabole come quella del seme, che deve morire per fare frutto (immagine peraltro molto cara a san Domenico) è proprio mettere l’altro e non noi stessi al centro, per poter avere quell’atteggiamento «tanto di affermazione, quanto di confronto» visto che l’Islam non è qualcosa di lontano da noi, ma come notava padre McVey, è già parte del nostro mondo. Questo ci chiama inevitabilmente «a una nuova comprensione di noi stessi come cristiani: gli altri che appaiono all’orizzonte del nostro mondo cristiano ci rivelano chi siamo veramente».

Chrys McVey, Il dialogo come missione, Nerbini, Firenze 2015, pp. 229, Euro 14,00.


Riconoscimenti per le immagini: per la copertina, rielaborazione dalla foto di Tom Booth, “Wheat fields”.

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Frate domenicano, appassionato di San Tommaso e San Paolo e di troppe altre cose. Serio ma non troppo. Mi piacciono i libri, i gatti e imparare da quelli che sanno più di me. Per contattare l'autore: fr.giovanni@osservatoredomenicano.it