Il libro di tutti i libri
Era ciò che aveva sempre sognato: un libro che narrasse una storia che non dovesse mai avere fine, il libro di tutti i libri. E lo aveva finalmente trovato.
Stiamo parlando di un noto romanzo fantastico, La storia infinita, opera dello scrittore tedesco Michael Ende e pubblicato per la prima volta a Stoccarda nel 19791.
Il libro narra la storia di Bastiano Baldassarre Bucci, un bambino di dieci anni piuttosto goffo ed introverso e per questo preso in giro dai suoi compagni di classe. A seguito della morte della madre e del rapporto piuttosto conflittuale con il padre, si chiude sovente in se stesso inventando delle storie fantastiche, popolate da personaggi creati dalla sua fervida immaginazione. Un giorno, Bastiano, per sfuggire all’ennesima persecuzione perpetrata da un gruppo di bulli, trova rifugio in un negozio di libri, il cui proprietario è un tale signor Carlo Corrado Coriandoli. Approfittando di un momento di assenza del signor Coriandoli, Bastiano ruba un libro che gli sembra interessante. La copertina porta il simbolo di un uroboro, ovvero il disegno di due serpenti che si mordono la coda, formando il simbolo di ciò che è senza inizio né fine.
Bastiano inizia a leggere e, mano a mano che prosegue, entra a sua insaputa nelle vicende de La storia infinita, fino quasi a perdere contatto con il mondo reale. Viene coinvolto nelle avventure di Atreiu, giovane appartenente alla popolazione dei Pelleverde, chiamato dall’Infanta Imperatrice a salvare il regno di Fantàsia, poco alla volta divorato dal Nulla. L’unico a poterci riuscire è un essere proveniente dal mondo degli uomini, in grado di dare un nuovo nome alla sovrana.
Bastiano chiama l’Infanta Imperatrice con il nome di Fiordiluna e, credendo giunta al termine la propria missione, tenta di ritornare nel mondo dal quale era venuto, ma invano. Ciò è dovuto al fatto che, perdendo uno dei suoi ricordi per ogni desiderio espresso, ed avendo bisogno di tutta la sua memoria per tornare, deve recuperare ciò che ha perduto attraverso le Acque della Vita. Una volta a casa, può vendicarsi di coloro che lo dileggiavano e raccontare a suo padre ciò che ha vissuto a Fantàsia. Tornato al negozio per restituire il libro, scopre con sua grande sorpresa che il titolare non è affatto arrabbiato con lui ma che anzi anch’egli è già stato parecchie volte a Fantàsia allo stesso scopo.
Desideri e ricordi
Come appare già da quanto detto, il romanzo presenta numerosi spunti, elementi simbolici in grado di muovere una mente attenta alla riflessione. In questa sede intendo proporvene uno, ossia l’umano bisogno di elevare il proprio concetto d’infinito.
Il regno di Fantàsia infatti sembra muoversi in una dimensione eterna nella sua ciclicità, tanto da spingere chi lo vive a rivolgere la propria ricerca d’infinito su di un piano esclusivamente immanente. Legando i desideri alla perdita della memoria, l’autore ha abilmente posto in evidenza il tipo di legame che, nell’uomo, si crea fra la sua tendenza all’infinito ed il mondo che lo circonda. Incapaci infatti di scorgere i confini del creato, di quel contesto che, pur limitato come un libro, ci appare sconfinato e bastante a se stesso, rivolgiamo la nostra volontà a qualcosa di immanente, senza renderci conto di ciò che nel frattempo stiamo perdendo. Se quindi i desideri simboleggiano la nostra tensione verso una realtà che ci appare sempre più totalizzante, la dimenticanza che ne deriva è immagine efficace della perdita di prospettiva che questo comporta. Nel cercare l’infinito all’interno del finito, finiamo per dimenticare la meta del nostro cammino, fino al punto di smarrire definitivamente la via di casa.
Centrale, sotto questo aspetto, è il simbolismo legato all’Auryn, il magico medaglione raffigurante l’uroboro. Il medaglione, simboleggiante l’infinito attraverso il serpente che si mangia la coda, porta nascosto sul retro un indizio ambiguo, ossia l’invito a fare ciò che si vuole; mentre Bastiano, emblema dell’umanità ferita, interpreta questa frase come una legittimazione all’autodeterminazione, alla libertà negativa, gli sviluppi della vicenda ne evidenziano una differente lettura. La libertà infatti va letta non come fine a se stessa, ma come strumento, come qualcosa implicante una direzione che, appunto, non va dimenticata. Solo infatti chi rammenta il fine, chi non ha dimenticato la reale gravità del cosmo, può dirsi davvero libero: gli altri sono solo schiavi del Nulla.
Una simile lettura ci porta a considerare il celebre aforisma di un grande Padre della Chiesa, sant’Agostino d’Ippona; questi scrisse, nel IV secolo dopo Cristo, una frase simile, ossia «Ama e fa’ ciò che vuoi»2; è proprio premettendo l’invito ad amare che permette d’interpretare correttamente la libertà, poiché chi ama mai dimenticherà quel fine, ossia l’Amato, che ne determina la forma.
1 L’edizione che ho considerato, in traduzione italiana è la seguente: Michael Ende, La storia infinita (trad. Amina Pandolfi), Longanesi & C., Milano 1981.
2 «Dilige, et quod vis fac», Sant’Agostino d’Ippona, Commento alla I Lettera di Giovanni, 7,8.