Sebbene negli ambiti di competenza la questione risulti ormai risolta da tempo, è ancora talvolta presente nell’immaginario collettivo – perlomeno, in un certo immaginario collettivo – l’idea di una contrapposizione rigida ed escludente fra scienze positive e fede religiosa, contrapposizione cui pare sottesa l’associazione d’una equivalenza, quella, rispettivamente, di razionale e irrazionale. Se la scienza sperimentale costituisce il criterio unico e ultimo di verità e significanza, la fede detiene ancora un valore e un senso? Se le scienze empiriche ineriscono alla sfera della ragione probante, credere non è allora frutto di un atteggiamento di adesione irrazionale, e irragionevole, a quelle che in fondo possono essere nient’altro che pie favole? Inoltre, se la tecnica, sulla base delle conoscenze scientifiche, è in grado di fornire strumenti capaci di soddisfare ogni esigenza pratica della vita dell’uomo, a che serve poi volgersi ad una presunta realtà divina trascendente?
Unico criterio
La verificabilità sperimentale è dunque l’unico criterio di significanza? Evidentemente no. È possibile accorgersene osservando come tale affermazione risulti essere a sua volta priva di significato. Vediamo perché. Affermiamo che “una proposizione (una affermazione) è dotata di senso se e solo se è verificabile sperimentalmente”. Anche quest’ultima appena scritta risulta essere a sua volta una proposizione. Ma, com’è evidente, essa non può essere verificata sperimentalmente, cioè non può essere verificata da una osservazione fondata unicamente sull’esperienza derivante dai sensi. Dunque, è anch’essa priva di significato: essa stessa afferma la sua insignificanza. Il risultato è paradossale.
Poiché il principio di verificazione non è verificabile tramite la scienza sperimentale, evidentemente la realtà dovrà essere indagata, esplorata, in modo non interamente sperimentale (lasciando spazio eventualmente, per esempio, ad una metafisica come scienza di ciò che si colloca anche al di là del dato d’esperienza, oltre che al lecitissimo sdoganamento della possibilità di significanza della fede stessa).
È già possibile notare, anche solo abbastanza intuitivamente, come un approccio alla realtà di tipo ingiustificatamente riduzionistico (che tenti, senza una valida argomentazione, di considerare, fra i possibili variegati aspetti del reale, unicamente quello empirico, sperimentale), possa rivelarsi fallace. Analogamente, se nella nostra vita di tutti i giorni scegliessimo di considerare unicamente quegli aspetti della realtà legati al solo senso della vista, per esempio, come potremmo avere consapevolezza di suoni, odori, sapori?
Aut aut
Le scienze empiriche sono la voce della razionalità? La fede è dunque qualcosa cui si deve assolutamente rinunciare in favore dell’evidenza?
Sappiamo che queste singole scienze si occupano di verificare, attraverso esperimenti ripetuti, se un certo modello teorico sia più o meno adatto a spiegare in modo coerente come certi fenomeni, quelli presi in esame, avvengano, consentendo di effettuare previsioni il più possibile attendibili. Non è escluso, dunque, che un modello che prima sembrava adatto, non possa essere sostituito da un altro migliore in seguito a nuove scoperte sperimentali; pertanto le teorie sottese a tali modelli non garantiranno certezze di tipo razionale in senso stretto, quanto in senso solamente probabile.
In secondo luogo, se ci pensiamo bene, la quasi totalità delle decisioni che prendiamo (e nozioni che apprendiamo) quotidianamente trova la sua base in una qualche fede. Chi potrebbe mai avere amici se non credesse di esser loro caro e che questi gli vogliano bene? Eppure, la benevolenza di un amico non si vede, né è possibile esserne certi a partire dalle sue parole o da segni esteriori. Lo stesso vale per l’amore dei propri cari. E ancor più, ciò che è appreso per pubblica opinione, dai quotidiani, da notizie storiche, circa l’identità dei nostri genitori, su ciò che ci è stato raccontato di noi riguardo la nostra infanzia, sull’esistenza di luoghi, persone, oggetti che non abbiamo avuto modo di vedere personalmente.
Lo stesso vale per il modo di conoscere le nozioni scientifiche stesse: qualora non fossimo noi stessi gli sperimentatori in prima persona, dovremmo fidarci di quanto ci viene riferito da coloro che li hanno effettivamente condotti e dei relativi canali di comunicazione. Ugualmente, nel condurre gli esperimenti è necessario fidarsi della effettiva attendibilità delle misurazioni effettuate, se esse vengono condotte tramite strumenti o macchinari. Perciò per la maggior parte crediamo a ciò che non vediamo, e nutriamo fiducia, in base al grado di autorevolezza che ragionevolmente riteniamo di poter attribuire a colui del quale ci fidiamo: i nostri cari, l’insegnante, il giornalista, “l’esperto”.
Pare che quanto nella vita ci stia più a cuore ecceda i limiti dell’esattezza di una misurazione, e noi abbiamo il sentore che “anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto una risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppur toccati”[1].
La fede perciò sembra presentarsi, in generale, anche senza toccare quella specificamente religiosa, come il fondamento della quasi totalità degli atti umani, con un suo proprio orizzonte di significanza, il quale non è in alcun modo minato dal sapere scientifico sperimentale in quanto tale, dotato di un suo proprio legittimo campo di applicazione, e però fondato a sua volta su considerazioni che vanno al di là del dato sperimentale o sperimentabile.
Ma rimangono ancora due questioni da affrontare, fra quelle poste all’inizio. Cioè, più precisamente: la Fede cristiana è irragionevole? E, se la tecnica è sufficiente a soddisfare i nostri bisogni pratici, perché dovrebbe ancora essere necessario rivolgersi a Dio? Nella “prossima ed ultima puntata” cercheremo di considerare anche queste due domande lasciate in sospeso e di tirare le somme.
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[1] Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, p. 6.52.