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Il giorno in cui nacqui nessuno mi disse che sarebbe stato tutto diverso. Ma è andata così…  ero comodo comodo nei pensieri di Dio e una sera… tac! Un gran lavorio di cellule e poi un braccino, un paio di dita, la bolla di un occhio. Anche se, a dire il vero, la prima cosa che tumultuosamente si forma di un uomo dicono sia il cuore… dice dei gusti di Dio: l’Altissimo incomincia sempre dal cuore. Comunque, non è che poi me lo ricordi proprio, quando mi spuntò per la prima volta una mano, ma fa parte della vita che nessuno si ricordi del suo inizio. È una cosa straordinaria a pensarci: per sapere anche solo la data dei nostri natali, bisogna aspettare che qualcuno ce la riveli.

Come? Beh, un buon modo sono le feste di compleanno: non che io avessi l’idea innata della mia data di nascita, è andata piuttosto che ogni 9 settembre affiorassero nella penombra del salotto enormi torte germogliate di fuoco. Le loro superfici squamate di cioccolato, le panne voluttuose, le candeline civettanti e il gran rigiro di sorrisi, invitati, passi concitati e sussurri di sorpresa. I bambini lo capiscono subito: è un giorno importante quel giorno. Perché, però, non lo sanno. Lo vedono negl’occhi di chi li ama, lo vedono nella meraviglia che fluttua nell’aria, loro stessi sono meravigliati. Ma il perché si apprende solo in una vita e forse c’è chi non lo comprende mai.

È una liturgia quella del compleanno, magari non le si presta tanta attenzione, ma è solo a partire dalla sua ritualità che abbiamo iniziato a capire il mistero della nostra esistenza. Una ritualità semplice, tramandata per i secoli le cui radici oramai si sono dimenticate, né si conosce quel gruppo di rivoluzionari inventori che la collaudarono per la prima volta (forse per acquietare la smania dei loro bambini). Tuttavia, non è un rito qualunque. È un rito di passaggio e come ogni rito è intriso di simboli. I più tradizionali rubricisti li rispettano ancora…

  1. La finzione: è un classico che gli amici fingano di non ricordarsi la data di compleanno. Chi organizza la festa non fa subito gli auguri, ma lascia sulle spine… “Ah, se n’è dimenticato, forse non ci tiene davvero…”. La loro simulata indifferenza, però, dice con affettuoso e delicato realismo un’altra ben più colossale indifferenza: quella del mondo. La storia non sembra fermarsi per noi, né cambiare, e la sensazione che ci rimane è quella di un universo troppo vasto e sovrastante perché si possa essere davvero significativi. Eppure, qualcosa è davvero cambiato: vi è un uomo in più sulla terra, un uomo e il suo mistero. Il suo destino lo conosce solo Dio e chi ha la fortuna di venire a vedere da vicino non può che provare meraviglia. Il vero sguardo di fronte alla nascita di una persona, quello con cui dobbiamo imparare a guardare noi stessi, è pervaso di sorpresa. Ecco, allora, cos’è un amico: colui la cui meraviglia rompe l’indifferenza del mondo.
  2. Il buio: il momento che prelude allo stupore collettivo è il buio. Improvvisamente si dilegua ogni luce e fa un solenne ingresso una torta lampeggiante di candeline. È la simulazione stessa del nascere: nel buio non si vede più nulla, quasi che tutto fosse nulla. Ci insegnarono i nostri padri che dal nulla furono tratte tutte le cose. Un grande simbolo e un grande insegnamento, perché a colui che prima d’essere, fu nulla, nulla è dovuto; dunque, tutto quello che ha e che avrà, sarà per la gratuità di chi lo ha voluto. E il solo senso della vita diviene: gratitudine.
  3. Le candeline: un curioso metro; la tradizione misura la vita in anni e gli anni in candeline. Ci fu detto: “Voi siete la luce del mondo” (Mt 5, 14). C’è da chiedersi se davvero ogni nostro tempo di veglia su questa terra sia stato una luce in più accesa. È difficile da dire, ma quale consolazione quando sono coloro che ci amano ad accenderle per noi. Questo, però, dice il metodo secondo cui valutare: 1. non siamo noi a dover esprimere l’ultimo giudizio su noi stessi[1]; 2. questo giudizio si definisce sull’amore[2]; 3. l’amore non parte apprezzando il fare dell’amato, ma gustando l’esserci di chi viene amato[3].
  4. Il soffio: E così le candeline si spengono. Sono anni vissuti, ma anche in meno da vivere: spegnere è sottrarre. Il tempo rimasto chiede, così, una maggiore responsabilità, perché non sappiamo quando dovremo rendere conto, quando, scivolata alla soglia l’ombrosa figura della morte, udiremo battere nocche di osso e lasceremo quell’uscio che amavamo dir casa e con esso chi sapeva chiamarci per nome. Tuttavia, rimane che ciò che spegne quelle timide luci sia pur sempre un soffio. Il soffio è il simbolo per eccellenza della vita (anima significa etimologicamente soffio, come spirito e come lo spirare, cioè il morire, significa letteralmente l’emissione dell’ultimo soffio). Anche le candeline lo sono: la vita che spegne la vita… e lo fa esprimendo un desiderio. Questo è uno dei simboli più grandi, perché vita dell’uomo è il desiderio e il suo cuore inizia a pulsare per qualcosa prima ancora ch’egli possa saperlo. Ma v’è da chiedersi: cosa vale davvero la pena di desiderare?
  5. Il dolce: la vera vita è un dolce, ma come dicevano i latini: dulcis in fundo. Vi è una grande saggezza in questo simbolo, perché capiremo quanto sia stato bello vivere solo avendo vissuto, quando il candore del crine non sarà meno acceso di quello dei ceri. Avevo intenzione di citare un detto di qualche vetusto autore, ma talvolta le perle germinano in conchiglie più vicine. Un confratello poco tempo fa scriveva: “Gli anziani, in fondo, sono tanti futuri realizzati; il fatto invece che noi siamo il futuro è ancora tutto da verificare”[4].
  6. Il dono: si ricevono doni per imparare a farne. Ma forse vi è qualcosa di più: vi è gratitudine nel festeggiare un compleanno, tanto che chi non si presenta con un regalo è in imbarazzo, quasi facesse un torto, quasi fosse… ingrato. Per cosa? Faccio un regalo a qualcuno il giorno del suo compleanno, per ricambiare al dono della sua nascita. Il dono è l’altro. Allora le implicazioni sono considerevoli: se è vero (e lo è) quel vecchio adagio tomista: l’agire segue l’essere, nel fare un dono ad un bambino il giorno del suo compleanno non solo gli si insegna a fare altrettanto, ma ad essere altrettanto. Scopriamo di essere un dono, ne segue che dobbiamo imparare ad esserlo e quindi a non tenere per noi nulla di noi stessi.

Il clima in cui avviene tutto questo è la gioia scoppiettante della festa e non va dimenticato. Esso non sta come un segno fra i segni, ma li accompagna tutti. Vi è un che di frizzantino che sfrigola su ogni cosa: dalle carte scartate, al chiacchiericcio delle luci negl’occhi e dei risi d’affetto. Tutto è permeato di festa. Il saggio d’Israele poetava: “Non privarti di un solo giorno felice / non ti sfugga alcuna parte di un buon desiderio” (Sir 14, 14). Anche l’estremo della vita, oltre il quale non potremo più ogni anno rinascere ancora, anche quel termine tanto temuto e tanto alluso in ogni gesto di questa curiosa liturgia, è dentro questo clima sereno di entusiastica pace. Per chi, infatti, ha compreso l’antica gestualità del ‘rito’ è chiara una cosa soltanto: se siamo venuti al mondo soltanto per amore, ne partiremo soltanto per amore.

E dunque? Solo un pensiero: il gioco della libertà subentra qui, perché le massime non muoiano massime.


[1] “Io neppure giudico me stesso, perché anche se non sono consapevole di colpa alcuna non per questo sono giustificato. Il mio giudice è il Signore!” (Cfr. 1 Cor 4)

[2] “Alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore” [San Giovanni della Croce ocd, Avisos y sentencias, 57, in CCC 1022]

[3] “Che uno non realizzi convenientemente ciò che deve fare è meno grave del fatto che non scruti ciò che ha ricevuto […] l’oceano della grazia di Dio” [Isacco di Ninive, Discorso VI, 1 in Isacco di Ninive, Discorsi ascetici terza collezione, cur. Sabino Chialà, Qiqajon, Magnano 2004, p. 85]

[4] fr Stefano Prina op, Amare i vecchi, articolo pubblicato su domenicani.it, il sito dei frati domenicani dell’Italia settentrionale (Provincia San Domenico in Italia).

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Chi sono? In verità non ne so molto più di voi. Del resto, vivo anche per scoprirlo. Ma giustamente chi legge questo genere di presentazioni, si attende una sfagiolata di dati anagrafici. Essia! Sono nato all’Ospedale Maggiore di Bologna quel glorioso 9 settembre del 1994 (glorioso per ovvie ragioni). Chi non mi ha mai veduto senza barba, ipotizza che mi trassero dal ventre di mia madre proprio tirandomi dalla barba… inquietante, ma non smentirò questa leggenda. Frattanto in questi 25 anni di vita ho frequentato il liceo scientifico Malpighi, mi sono appassionato a Tolkien, alla Filosofia, alla Poesia medioevale e novecentesca, infine alla cinematografia, su cui amo diffondermi in raccolte meditazioni crepuscolari. Cosa ho compreso saldamente? Ad una sola vita, un solo modo per viverla. Per questo appena conseguita la maggiore età, ho fatto domanda di entrare nell’Ordine dei Frati Predicatori. Attualmente mi nutro di studi di San Tommaso, di spiritualità e di metafisica (sto affrontando un densissimo filosofo Polacco, Przywara … la pronunciabilità del nome è direttamente proporzionale alla sua chiarezza). Per contattare l'autore: fr.pietro@osservatoredomenicano.it