Condividi

È ormai un mese che il Covid-19 è entrato, direttamente o indirettamente, nelle nostre vite e con esso anche una certa dose di turbamento. Sono sicuro che anche il più freddo e distaccato di noi è stato attraversato da un brivido inconscio di paura, se non per la propria salute, almeno per quella di qualche caro. Ad aggiungere benzina al fuoco, poi, ci pensano la confusione generale, le fake news, la crisi economica, le terribili incognite riguardo il futuro.

La fragilità della foglia

In tutto questo sconquasso una cosa è certa: il Coronavirus è riuscito in un lasso relativamente breve di tempo e a livello globale, come mai negli ultimi decenni, a farci familiarizzare con la realtà o, se non altro, con il pensiero della morte. Certo, ognuno di noi sa che dovrà morire un giorno o l’altro, ma questa possibilità, tanto vera quanto astratta, è diventata improvvisamente concreta, reale, vicina. In un lampo di lucidità, come al risveglio da un sogno, ci siamo resi conto (e molti di noi, persino, hanno toccato con mano) che la nostra esistenza è fragile «come l’erba che germoglia al mattino: al mattino fiorisce, germoglia, alla sera è falciata e dissecca» (Sal 89). Usando un’altra immagine botanica il poeta Ungaretti dipinge così la condizione umana (sì, in tempo di guerra; ma è poi così diversa in tempo di pace?) nella sua celebre poesia Soldati:

Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie

Chi di noi in questi giorni di pandemia non si è accorto, anche solo per un istante, che la nostra vita è come una foglia scolorita e senza linfa a cui basta un soffio perché il suo esile picciolo sia staccato dal ramo di questa vita presente?
Questa è la dura realtà… ma c’è qualcos’altro.

La robustezza dell’Albero

L’albero a cui siamo attaccati non è affatto uno qualunque: la pianta da cui riceviamo la linfa è l’albero della croce. È vero, siamo delle foglie tremolanti e un giorno, per colpa di una epidemia o meno, dovremo staccarci dal ramo di questa vita e adagiarci sul freddo terreno invernale, ma in noi rimane, invisibile, una linfa che non si corrompe.

Crux fidelis, inter omnes
arbor una nobilis.
Nulla talem silva profert
flore, fronde, germine.1

Non si è mai visto sulla terra un tale albero: i suoi fiori, foglie e frutti sono incomparabili. Ma in che cosa consiste questa sua incommensurabilità? Tutti gli altri alberi con l’arrivo dell’autunno perdono le foglie e, passato l’inverno, ne generano di nuove, diverse dalle precedenti. Non così quest’Albero! Da quell’Albero di morte è scaturita per il mondo intero una Vita immortale, la stessa vita che si è già manifestata in Cristo risorto, nostra primizia (cfr. 1Cor 15,23). Sarà alla fine dei tempi, allora, quando ogni virus sarà debellato, ogni tristezza consolata, ogni lacrima asciugata e la morte stessa cancellata, che ciascuna foglia caduta, di ogni tempo, che si sarà nutrita durante la sua vita terrena di questa linfa divina, tornerà a innestarsi nuovamente sui rami del vero Albero della Vita. Ecco perché non ha corrispettivi: non genererà altri germogli, come ogni pianta di questa terra nell’infinito circolo delle stagioni, ma le stesse (!) foglie che un tempo caddero morte al suolo diventeranno sempreverdi. Questa, in fin dei conti, è la speranza dei credenti in Cristo: un’unica eterna Primavera.

Allora nel deserto delle nostre città in quarantena e nel deserto spirituale della Quaresima preghiamo perché il nostro cuore, in trepidante attesa della Pasqua, diventi terreno fertile che accoglie Cristo, chicco di grano che muore, per produrre frutti di conversione per la vita eterna.


1 «Croce fedele, fra tutti unico albero nobile: nessuna selva ne produce uno simile per fronde, fiori e frutti». Dall’inno Crux Fidelis.


Riconoscimenti per le immagini: per la copertina, “L’Albero della vita”, mosaico dell’abside della Basilica di San Clemente, foto di foto di sarahtarno.

Non perderti nessun articolo!

Per restare sempre aggiornato sui nostri articoli, iscriviti alla nostra newsletter (la cadenza è bisettimanale).

Classe 1990. Ho vissuto la mia vita tra i due poli di Rimini e Milano. Mi considero romagnolo ma non chiedetemi di parlare il dialetto. Mi sono laureato in Filosofia all’Università Cattolica di Milano e in seguito ho fatto una breve ma significativa esperienza nel settore HR. Dopo lunghi anni di silenzioso discernimento mi sono lasciato conquistare da Chi mi chiamava fin dal seno materno. Adesso tocca a me protendermi nella corsa, con l’aiuto di San Domenico che mi tiene per mano. Se la musica è linguaggio dell’anima allora sono poliglotta. È vero che degli idoli non si deve pronunciare neanche il nome, ma non si può biasimare chi grida “Forza Valentino Rossi!”.