L’11 ottobre abbiamo ricordato i 60 anni dall’inizio del Concilio Vaticano II e per l’occasione la Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna, in collaborazione con lo Studio Filosofico Domenicano, ha organizzato un seminario per contestualizzare storicamente il Concilio, ad opera di padre Gianni Festa, e per ripercorrere il dibattito teologico che ne è stato la base e che ne è scaturito con la relazione del padre Marco Salvioli. Proprio lui, che ringrazio, a margine di questa bella iniziativa, mi ha concesso una piccola intervista per approfondire alcuni punti del suo intervento che credo possano essere utili ai nostri lettori. Di seguito l’intervista:
– Padre Marco, cosa si intende con «Spirito del Concilio»? E a 60 anni dal Concilio pensa che lo Spirito abbia esaurito la sua spinta?
Per «Spirito» del Concilio si dovrebbe intendere innanzitutto lo Spirito Santo, come anima del Corpo di Cristo che è la Chiesa, al quale siamo chiamati ad attribuire non solo l’impulso che ha portato alla convocazione dell’evento conciliare, ma anche una particolare assistenza quanto al suo effettivo svolgimento. Declinando invece l’espressione «spirito del Concilio» in termini più antropologici, al di là di qualche strumentalizzazione, ritengo che essa significhi almeno due cose. Da un lato, l’intenzione fondamentale di aggiornare l’atteggiamento e l’insegnamento ecclesiale in modo da renderlo significativo nel sempre più rapido succedersi di mutamenti culturali e, dall’altro, lo stile con cui si è cercato di realizzare quest’obiettivo. Occorre sempre far attenzione però a non disincarnare lo «spirito» così inteso, separandolo dalla concretezza dei testi così come sono stati redatti e consegnati alla Chiesa, dal modo di far teologia ad essi sottostante, dai protagonisti e dal contesto in cui lo stesso evento conciliare si è prodotto. Solo cioè attraverso un’adeguata comprensione storica, possiamo ad un tempo far vivere nella Chiesa l’intenzione fondamentale del Vaticano II e muoversi verso quell’effettiva applicazione che ancora «ci sta davanti». Per cui l’impulso prodottosi sessant’anni fa col discorso d’apertura Gaudet Mater Ecclesia di san Giovanni XXIII non si è in alcun modo esaurito, ma va appunto continuamente aggiornato… d’altra parte la vita della Chiesa è appunto vita e, come tale, è chiamata a rinnovarsi ad ogni momento nella continuità di uno sviluppo costitutivo. In questo senso, ritengo molto chiarificatrici le parole pronunciate durante il viaggio apostolico in Turchia da san Paolo VI nel Discorso nella Cattedrale dello Spirito Santo: «Il recente Concilio Vaticano ha ricordato che questo progresso era basato innanzitutto sul rinnovamento della Chiesa e sulla conversione del cuore. Questo vuol dire che contribuirete a questo cammino verso l’unità nella misura in cui entrerete nello spirito del Concilio. E’ richiesto uno sforzo a ciascuno di noi, per rivedere i propri modi abituali di pensiero e di azione, per renderli più conformi al Vangelo e alle esigenze di una vera fraternità cristiana. Facciamolo generosamente, con la fiducia che l’ora di Dio verrà e che possiamo affrettarne la venuta attraverso le nostre preghiere e i nostri sforzi» (Istanbul, 25 luglio 1967). Quello che dice, oggi, papa Francesco s’inserisce pienamente all’interno di questa prospettiva già delineata da san Paolo VI.
– Nel Discorso al Pellegrinaggio internazionale dei ministranti dell’altare (1 agosto 1962), Giovanni XXIII parla di quello che sarà un «Concilio di aggiornamento» , che cosa si intende? Crede che questo «aggiornamento» sia stato oggi recepito?
Se la scelta del termine aggiornamento è stata particolarmente felice per annunciare il compito fondamentale del Concilio Vaticano II, lo è forse ancor più in un tempo – come il nostro – in cui quasi tutti si trovano di fronte al compito di dover «aggiornare» continuamente i propri dispositivi informatici perché rimangano se stessi, ossia continuino a svolgere efficientemente quelle cose per cui si è deciso di acquistarli, siano protetti dalle nuove vulnerabilità e – in qualche caso – offrano nuove funzionalità. Al di là di quest’immagine, un po’ riduttiva, possiamo trovare nello stesso discorso di apertura del Concilio indicazioni preziose sul senso del termine «aggiornamento». Che cosa viene chiesto ai Padri conciliari? San Giovanni XXIII risponde: «Che il sacro deposito della dottrina cristiana sia custodito e insegnato in forma più efficace» (Gaudet Mater Ecclesia, n. 5.1, discorso d’apertura del Concilio), poi aggiunge: «Ma perché tale dottrina raggiunga i molteplici campi dell’attività umana, che toccano le persone singole, le famiglie e la vita sociale, è necessario prima di tutto che la Chiesa non distolga mai gli occhi dal sacro patrimonio della verità ricevuto dagli antichi; ed insieme ha bisogno di guardare anche al presente, che ha comportato nuove situazioni e nuovi modi di vivere, ed ha aperto nuove vie all’apostolato cattolico» (Gaudet Mater Ecclesia, n. 5.5) e, infine, precisa: «Però noi non dobbiamo soltanto custodire questo prezioso tesoro, come se ci preoccupassimo della sola antichità, ma, alacri, senza timore, dobbiamo continuare nell’opera che la nostra epoca esige, proseguendo il cammino che la Chiesa ha percorso per quasi venti secoli» [n. 6.3]. Dovrebbe risultare chiaro che non si tratta di rivestire meramente le stesse cose con parole nuove, ma di ripresentare il messaggio e la vita stessa della Chiesa nell’oggi, perché coinvolga effettivamente le donne e gli uomini di ogni tempo. Giustamente quindi, per papa Francesco, il Concilio Vaticano II «è stato un aggiornamento, una rilettura del Vangelo nella prospettiva della cultura contemporanea. Ha prodotto un irreversibile movimento di rinnovamento che viene dal Vangelo. E adesso, bisogna andare avanti» (Lettera al Gran Cancelliere della Pontificia Universidad Católica Argentina nel centesimo anniversario della Facoltà di Teologia, 3 marzo 2015). Per rimanere fedele a se stessa e alla propria missione, la Chiesa deve continuamente rinnovarsi criticamente, vivendo il presente procedendo dal passato verso il futuro, custoditi sub specie aeternitatis nello sguardo di Dio. Proprio per quest’attenzione al presente nel contesto della tradizione vivente della Chiesa, il Concilio ha espresso una profonda attitudine ermeneutica mostrando che non c’è contraddizione tra fedeltà alla tradizione e libertà creativa. Solo nella creatività la Traditio si mantiene viva, generativa… feconda! Attenzione però: si tratta di uno stile radicalmente teologico. Lo ha specificato, senza mezzi termini, ancora papa Francesco nell’omelia preparata per la santa Messa nella memoria di San Giovanni XXIII: «Riscopriamo il Concilio per ridare il primato a Dio, all’essenziale: a una Chiesa che sia pazza di amore per il suo Signore e per tutti gli uomini, da Lui amati; a una Chiesa che sia ricca di Gesù e povera di mezzi; a una Chiesa che sia libera e liberante» (11 ottobre 2022). Solo questa prospettiva può aiutarci a superare le tentazioni che minano dall’interno la possibilità di vivere «lo spirito del Concilio». Si tratta, in fondo, della «tentazione di partire dall’io piuttosto che da Dio, di mettere le nostre agende prima del Vangelo, di lasciarsi trasportare dal vento della mondanità per inseguire le mode del tempo o di rifiutare il tempo che la Provvidenza ci dona per volgerci indietro. Stiamo però attenti: sia il progressismo che si accoda al mondo, sia il tradizionalismo – o l’«indietrismo» – che rimpiange un mondo passato, non sono prova d’amore, ma di infedeltà. Sono egoismi pelagiani, che antepongono i propri gusti e i propri piani all’amore che piace a Dio, quello semplice, umile e fedele che Gesù ha domandato a Pietro. L’aggiornamento si oppone quindi tanto alle «ermeneutiche della rottura» dell’una e dell’altra parte, quanto all’«anacronismo cattolico» – come lo ha chiamato Giuseppe Angelini – che esprime l’inerzia del «si è sempre fatto così» o il sospetto verso tutto ciò che è contemporaneo. Al di là di eccessi progressisti che si risolvono in caricature del cristianesimo, quel che ferisce oggi l’intelligenza della fede e la predicazione viva del Vangelo è che un certo modo di considerare la fedeltà alla tradizione – sulla linea del «conservatorismo dei sadducei», come si esprime ancora Angelini – costituisce una strategia per evitare il confronto con le provocazioni che vengono dalle nuove forme della cultura e della vita. Lasciando così il sospetto di una sfiducia nella capacità del Vangelo di parlare alle donne e agli uomini di oggi!
– Quali contributi, brevemente, hanno apportato i frati predicatori a questo Concilio e quali ritiene che possano apportare oggi all’«Ecclesia semper reformanda»?
Mi è ovviamente impossibile ripercorrere, anche brevemente, i diversi fronti sui quali i domenicani diversamente coinvolti nei lavori conciliari hanno dato il loro contributo. Anche perché i frati Predicatori non si sono mossi «in blocco», ma questa è un’altra storia. Vorrei solo precisare con riferimento ad uno dei confratelli che più ha contribuito alla redazione dei documenti conciliari, padre Yves Congar, che per comprendere adeguatamente l’aggiornamento occorre considerarlo nel rapporto di reciprocità col ressourcement [ritorno alle fonti] che si propone una più ampia ermeneutica della Tradizione. Secondo Congar questa categoria esprime la necessità che si rinnova nella Chiesa «di generazione in generazione» di attingere nuovamente ad fontes per operare un’inderogabile rivitalizzazione – quanto al senso (insieme teologico e spirituale) – dei testimoni della fede (la Scrittura, in primo luogo, poi la Liturgia, i Padri…). Il grande domenicano francese si rifà esplicitamente ad uno scrittore Charles Péguy: «una vera rivoluzione è una chiamata da una tradizione meno perfetta ad una tradizione più perfetta, una chiamata da una tradizione superficiale ad una tradizione più profonda […] una ricerca delle fonti più profonde». Il movimento biblico, liturgico, patristico (Sources Chrétiennes!), missionario, la reinterpretazione critica di san Tommaso… hanno costituito la base per una comprensione della Tradizione come la vita stessa della Chiesa che appunto si sviluppa, cresce e non come la mera conservazione del passato in forme contingenti che costituiscono la reificazione di un tempo tra gli altri della storia ecclesiale. Anche fr. Marie-Dominique Chenu, ha contribuito intensamente ai lavori conciliari e ci ha consegnato un’interpretazione molto calzante dell’evento ecclesiale. Per il domenicano francese si è infatti trattato di un «concilio profetico» (nel senso «biblico», per cui il profeta è innanzitutto colui che ha ricevuto il dono di saper leggere «i segni dei tempi», il presente secondo la volontà di Dio), celebrato «per dar voce alla Parola di Dio in azione, in un mondo in movimento. Tradizione viva che si oppone al tradizionalismo».
– Cosa intende con quella bella espressione «tradizione sostenibile»?
Si tratta di un’espressione che ho coniato a partire dalla frequentazione del linguaggio adottato recentemente dalla Dottrina sociale della Chiesa. Benedetto XVI, ad esempio, nella Caritas in veritate intende la «sostenibilità« in relazione al «lungo termine» (cfr. nn. 17 e 40). Questo sguardo sul futuro è una delle attitudini dell’intelligenza umana più difficili da applicare nel nostro tempo, così preso dal «breve termine» – quasi in ogni campo del vivere umano – che costringe al ripiegamento sull’hic et nunc e quindi a pensare solo al «proprio». La Traditio trova il proprio terminus a quo nel dono che il Padre fa del Figlio e ha come terminus ad quem il ritorno al Padre del Figlio, unito all’umanità stessa: «Salgo al Padre mio e Padre vostro» (Gv 20,17). La Tradizione è sostenibile quando vivendo il presente, guarda oltre il «proprio tempo» a favore delle generazioni future, pensando a trasmettere la Rivelazione in modo che possa essere accolta e vissuta dalle generazioni a venire. «Il Cristianesimo deve stare nel presente per potere dare forma al futuro», ha scritto Benedetto XVI nella Prefazione al volume VII/1 dell’Opera omnia che raccoglie appunto i contributi al Concilio Vaticano II; «affinché potesse tornare a essere una forza che modella il domani, Giovanni XXIII aveva convocato il concilio senza indicargli problemi concreti o programmi».
– Come bilanciare il tentativo di apertura alla novità nella riflessione teologica (sempre conservando il magistero e la tradizione) e il riproporre in maniera approfondita il patrimonio filosofico e teologico della Scuola domenicana?
Occorre guardare a san Tommaso d’Aquino, come ha saputo fare la Scuola di Le Saulchoir, apprendendo da lui a rileggere creativamente la Scrittura – interpretata nella Tradizione della Chiesa – lasciandosi liberamente interpellare dalle sfide della contemporaneità. Non si tratta di difendere tesi di «scuola» per affermare se stessi o il proprio Ordine religioso, ma di mettere a disposizione di tutti le fonti alle quali si è attinto vitalmente per credere pensando. In un’intervista del 1965, Chenu ha chiarito un punto al quale – come domenicani del Nord Italia – non possiamo più derogare in alcun modo: «Essere realmente un teologo significa non essere tagliato fuori dalla quotidiana, concreta vita della Chiesa» e non essere – aggiungerebbe papa Francesco – «un intellettuale senza talento, un moralista senza bontà o un burocrate del sacro» (Lettera al Gran Cancelliere della Pontificia Universidad Católica Argentina nel centesimo anniversario della Facoltà di Teologia, 3 marzo 2015). Che la memoria della solenne apertura del Concilio, che si fa viva apertura alla ricerca di senso di ogni donna e di ogni uomo, ci aiuti a perfezionare la nostra stessa formazione filosofica e teologica per essere oggi capaci di trasmettere agli altri – come e, per grazia, meglio di ieri – la Verità che contempliamo. La missione di ogni domenicano a favore della Chiesa locale ed universale, così come di ogni donna e ogni uomo, consiste nel condividere in Cristo la misericordia Veritatis.
Grazie a padre Marco per aver risposto alle domande con chiarezza, nella speranza di aver approfondito certe tematiche e magari aperte di nuove, soprattutto per i più giovani.
L’invito è a questo punto per la celebrazione del centenario! Ad multos annos!