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Intervista vocazionale a p. Giuseppe Barzaghi op

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Padre Giuseppe ripensando alla sua vocazione, quali sono gli elementi che ritiene più importanti?

Io penso che sia stata una specie di iniziazione con l’esperienza della compassione… perché questa cosa mi ha sempre toccato profondamente, sia dal punto di vista degli studi che facevo al liceo – quando studiavo letteratura classica, l’idea di compassione era abbastanza vivace – e poi perché vedevo nell’esperienza della chiesa parrocchiale, dove c’era un sacerdote dove era molto attento alle persone in disagio; era il periodo in cui iniziavano a saltar fuori fuori i primi drogati, addirittura un ragazzo, che era stato il grande campione della pallacanestro oratoriana (che aveva scritto: “La pallacanestro è l’antidroga“), lui si era drogato e ha tirato in ballo tutto. Insomma, questo sacerdote aveva un grande senso della compassione. Io ero già universitario e c’erano i bambini delle Gescal, le case popolari; anche lì era un grande macello, una promiscuità incredibile; e c’erano questi ragazzini, che venivano in oratorio e davano fastidio e gli altri ragazzi, un po’ meno vivaci, li temevano; una volta mi ha colpito perché ha preso il ragazzino, il più vivace di tutti, ma scapestrato, e mi ha detto: “Guardalo adesso eh?”. Poi l’ha preso per la testa l’ha avvicinato a sé e lui stava lì senza muoversi e mi ha detto: “Vedi se l’avessi fatto ad altri ragazzi, a Guido, a Luigi – erano di buona famiglia – mi avrebbero respinto. Lui è rimasto lì, perché non lo glielo fa mai nessuno”. Ah, mi ha commosso questo fatto qui, per cui ho capito che dentro la vita cristiana, il punto iniziale, quello che fa concentrare con il desiderio di un approfondimento personale, irripetibile, che chiameremo vocazione, per me è stato questo senso della compassione: per me la vocazione è la compassione. Tanto che ad un certo punto, confidandomi con lui, che mi aveva un po’ diretto, gli avevo detto: “Per me la cosa affascinante è Cristo Crocifisso. Non mi interessa, se sia risorto”. A quel punto ero così: è Cristo crocifisso e non risorto. Poi evidentemente… se uno negasse la Risurrezione, vana sarebbe la nostra fede, no? Però io mi ricordo che in quel periodo lì mi colpiva soprattutto Cristo Crocifisso e non Risorto. Come se fosse tutto concentrato in quella compassione che non aveva quasi apparentemente un senso, ma che concentrava le lacrime dell’universo. Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt, no? È Virgilio: ci sono delle lacrime iscritte nelle cose, il senso cristiano è quello di saperle scoprire perché le avverte tutte dentro quell’Agnello. Questo è stato.

C’è stato il presbiterato, la vita religiosa, lo studio: teologia e filosofia. Si può parlare di più vocazione oppure di un’unica vocazione che le ordina e le tiene insieme?

Ti dico che per me la vocazione è stata soprattutto quella sacerdotale. Ma una vocazione sacerdotale già modulata culturalmente, perché io già dal liceo ero appassionato di San Tommaso d’Aquino. Quindi io sono andato a cercare i domenicani: volevo diventare sacerdote, ma il sacerdozio nella vita domenicana per me voleva dire San Tommaso d’Aquino; avevo appunto iniziato a studiare San Tommaso che avevo 16 anni: mi ero fatto regalare da mia mamma la Somma Teologica. La cosa era poi andata così… Una cosa stranissima: quando frequentavo la scuola media ero appassionato di paleoantropologia. Ma a livello dei bambini: i ragazzi delle medie, quando incominciano ad essere un po’ interessati alle enciclopedie, curiosano in giro. Era il periodo dell’espansione di queste notizie sulle scoperte: Hiki, Gudal, Pfifer che trovavano il Pitecanthropus, il Sucinanthropus… E così ero interessato a queste cose. Quando ho incominciato la quarta ginnasio mi sono imbattuto in un libro intitolato: Il fenomeno umano di Pierre Teilhard de Chardin. N o n   h o   c a p i t o   n i e n t e! Però, nella prefazione c’era scritto che Teilhard de Chardin aveva fatto, con il positivismo evoluzionistico, quello che San Tommaso d’Aquino aveva fatto con Aristotele. Io non avevo ancora incominciato a studiare la filosofia e ho detto: “Bah, vediamo quando comincerà la filosofia… al liceo”. E ho incominciato: San Tommaso lo han saltato subito perché il Medioevo ai quei tempi lì, negli anni ’70, non si faceva, no? E quindi mi sono messo un po’ a caccia io e ho trovato in una cartolibreria cattolica, che era di fianco al duomo di Monza, la Somma Teologica. Ho insistito: “Mamma, me la compri?” me l’ha comprata e io a 16 anni ho iniziato a leggere la Somma Teologica. Dopodiché, il passo è stato abbastanza semplice: ho desiderato iscrivermi all’università a filosofia, ho fatto l’Università Cattolica. Però, mentre ero matricola, sono andato a cercare i domenicani: li ho trovati a Santa Maria delle Grazie (Milano). Ho parlato con quello che allora era il padre provinciale, che era padre Venturino Alce, il quale mi disse: “È meglio che prima si laurei in filosofia, perché prima di studiare la teologia bisogna avere la filosofia”. Mi sono laureato in filosofia con una tesi su un grande tomista, Santiago Maria Ramirez: Analogia e ordine, e poi sono entrato. Ma la mia vocazione è stata quella sacerdotale e religiosa per il fatto di San Tommaso d’Aquino. Poi ho iniziato a gustare anche l’aspetto religioso della vocazione, ma sempre dentro questo filtro. Per me la filosofia e la teologia erano San Tommaso: la sistematicità… e non solo, anche perché io vedevo che era come un uomo tutto d’un pezzo. Riusciva a mettere insieme i ragionamenti e la fantasia (perché fa degli esempi formidabili) ed io sono sempre stato un bambino un po’ fantasioso. Quando leggevo i fumetti… una volta abbiamo fatto la gara a chi leggeva più velocemente i fumetti, solo che non leggevo mia, io. Finivo velocemente: “Hai già finito? Ma come fai?” E dissi io: “Io guardo le figure, mica leggo”. “Come guardi le figure?”. E beh, scusami, se c’è la figura e l’atro dice: “Ti sparo!”; ma lo vedo anch’io che vuole sparargli e sto lì a leggere: “Adesso ti sparo!”? Per questo, sarebbe più intelligente far leggere ai bambini il fumetto, ma non scritto dentro: loro guardano la figura e al quel punto chiedere: “Cosa scriveresti tu? Cosa sta dicendo quello?”; ma è inutile leggere e poi andare a vedere l’immagine, no? per cui, la fantasia mi piaceva tantissimo. E in San Tommaso c’è fantasia e ragionamento e quindi per poter inquadrare poi teologicamente e sviluppando di studi come studioso mi sono reso conto che che le cose stanno proprio così.

Nella vita religiosa lei che cosa ha trovato attraverso questo punto di vista?

La vita religiosa mi è servita tantissimo, perché è la vita filosofica all’ennesima potenza. Se uno vuol fare il filosofo virgola la vita e la vita religiosa. Uno capisce che veramente la filosofia è amore per la Sapienza e non studiare che cosa vuol dire filosofia, appunto esercitare l’amore per la Sapienza e la vita religiosa è questo, no? Soprattutto perché davvero è una sorta di coalizione tra l’intelligenza, l’affettività, la disponibilità e poi la sorpresa continua, perché non sai mai quello che può capitare, dove ti mandano. E soprattutto l’intensità, ti dicevo, che era stata l’impronta della vocazione: il senso della compassione. Nei conventi lo sai, c’è dentro di tutto: è un hortus conclusus, ma è un’aiuola che ci fa tanto feroci, per dirla con Dante; quindi è qui la compassione, la commozione, la consolazione, tre termini che mi sono tanto piaciuti. Anche perché mi sono fatto questa idea della filosofia. Avendo partecipato per tanti anni a quelli che si chiamano i dibattiti, mi sono accorto che ci sono pochissimi maestri: tra quelli che si presentano come filosofi di professione è come se presentarsi come filosofo fosse una specie di credenziale introduttiva alla propria persona. Ma poi ti accorgi che quando ti hanno dato questo biglietto da visita, è carta straccia, perché poi magari dentro quell’anima lì non c’era dentro niente. Poi ho scoperto i grandi filosofi che erano dentro l’ordine: padre Boccanegra; lui era un gigante, di un’umiltà incredibile, un’umanità… bellissima. Una cultura che io non ho mai visto da nessuno, mai vista una cultura così: una capacità sintetica, la disponibilità… e lì ho capito davvero che per fare filosofia c’è bisogno di una vita del genere e per cui ho maturato l’idea per cui la filosofia, se è dentro un cuore non buono, è arroganza, come si vede nei Talk Show. La filosofia appena cade in un cuore buono, ben coltivato dalla Grazia, allora si chiama consolazione. Arriva a sentire l’odore della compassione e non ha neanche il coraggio di dire che odore, perché ha un profumo… per non offendere. E questa è la vita religiosa.

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Frate domenicano, appassionato di San Tommaso e San Paolo e di troppe altre cose. Serio ma non troppo. Mi piacciono i libri, i gatti e imparare da quelli che sanno più di me. Per contattare l'autore: fr.giovanni@osservatoredomenicano.it